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Pet Therapy: per un non uso

Giuseppe Pallante

Centro Studi Interdisciplinari di Zooantropologia

Breve ma necessaria premessa

Quanti hanno avuto modo di seguire il Corso di Perfezionamento per Operatori di Pet Therapy tenuto nell’anno accademico 2007 presso l’Università di Genova, non troveranno una ripetizione dello stesso: primo perché sarebbe un’offesa alla loro precisa e puntuale capacità dimostrata di prendere appunti; secondo perché il percorso a suo tempo era stato arricchito di slide e materiale didattico già da me pubblicato su riviste o in volume, e consegnato a lezione come integrazione, e a cui rimando ancora per una sintetica bibliografia a fine capitolo.
Pertanto chi avrà modo di proseguire nella lettura di questo lavoro, non incorrerà in questi pericoli perché più che riprendere le lezioni cercherò di sviluppare alcuni concetti accennati a suo tempo, e che per necessità didattica di programma o per mia poca chiarezza non sono stati a sufficienza esplicitati e non risultano presenti in altri miei lavori; il presente elaborato mantiene pertanto una propria originalità risultando una effettiva integrazione al corso medesimo.
Inoltre cercherò di affrontare, compatibilmente con lo spazio consentitomi, quelle distorsioni emerse occasionalmente in classe ma molto più frequentemente ascoltate qua e la in altre occasioni, che tendono di fare della pet therapy un uso maldestro e dequalificante e da cui nasce per l’appunto la scelta del titolo del presente capitolo.
Se alcuni passaggi danno per scontato definizione o concetti che si presume già in possesso del lettore, comunque in caso di difficoltà sono richiamati in nota a piè di pagina i testi di riferimento, così da avere il necessario rimando per un’analisi più approfondita.
Per quanti non hanno avuto modo di seguire il corso, ma essendo in possesso del volume, dimostrano comunque di essere interessati all’argomento, questo lavoro può rappresentare un breve corollario di riflessioni metodologiche e interpretative che mi auguro andranno ad integrare il loro personale bagaglio professionale.
A tutti auguro una buona lettura. Quale pet therapy? 1.1 Gli animali hanno poteri di guaritori o è l’uomo che ha in se la capacità di utilizzarli per la propria salute? (Umanesimo e Animalismo, G. Ballarini, 1998) L’allontanamento dallo storico modello culturale rurale e il conseguente diffondersi di animali domestici presso le famiglie in città, oltre ad una martellante pubblicistica dove non sembra possibile vendere carta igienica o telefonare senza il supporto di un cane (solo per citare alcuni esempi dei tanti che utilizzano animali sempre più per spot pubblicitari) hanno reso il pet un membro della Comunità Urbana a cui una sempre più numerosa fetta di cittadini aspirano.
Convinti che tutto, o molto, possa dipendere dalla presenza dell’ospite animale anche molti professionisti, dallo psicologo al medico di famiglia, dall’operatore sociale al pedagogista, si sono sentiti di proporre le gioie di un animale in casa per i fini più disparati.
Terribili i dati annuali dell’osservatorio della LAV (Lega Anti Vivisezione) che parlano di un aumento dell’acquisto di animali in concomitanza con le festività natalizie (con conseguente abbandono estivo), o in occasione di particolari obbiettivi come il raggiungimento di un traguardo scolastico o di una precisa età adolescenziale.
Non da meno altri propongono l’introduzione di un pet in occasione di un futuro cambio di casa (…ah… se avessi un giardino! ) o con il raggiungimento dell’età pensionabile.
Questo quadro orribile di incultura cinofila oltre che di precisa distorsione della realtà ha rappresentato, e in molti casi rappresenta tutt’ora, il brodo su cui ha gettato le basi la pet therapy in Italia.
Molti anni addietro, all’incirca vent’anni fa, quando la stessa sembrava così facilmente comprensibile e di immediato successo, non era difficile sentirsi fare delle richieste del tipo “dottore ho un cane buonissimo e avrei delle ore disponibili cosa mi consiglia, posso offrirmi per fare della pet therapy? ” oppure “…ho portato il cane in classe. E’ stato un successo… ! ” .
Animati da spirito di volontariato o per diversificare un lavoro, per amore verso il prossimo o per gratificazione personale, sempre più numerosi sono stati i self made man della pet therapy.
Signori di mezza età, giovani rampanti e ruspanti agricoltori, Fondazioni e Istituti di Ricerca hanno offerto sul mercato di tutto: dall’ippoterapia, a quella con l’asino, dalla fattoria didattica con corollario di specie varie, al coniglietto e la capretta, dal delfino all’immancabile Labrador.
L’ingegno italico ancora una volta aveva messo le ali non curante dei danni che avrebbe procurato, in questo caso avvantaggiati dal vuoto culturale prima ancora che legislativo.
Proprio come conseguenza di questo mare magno di iniziative, poco o nulla disciplinate, con il tempo si sono venute a realizzare fondamentalmente due correnti o scuole di pensiero: la prima di tipo tecnicistico, che pretende di studiare e favorire una metodica ripetibile, quantizzabile e quindi presumibilmente più attendibile nelle attese; la seconda, che si è andata affermando con maggior peso negli ultimi dieci anni, richiede un approccio qualitativo, di tipo culturale, che riduce il margine delle attese, ma favorisce una molteplicità di variabili che possono arricchire le aspettative.
Nel primo caso il modello è volto a normare la PT come una tecnica, che una volta acquisita permette a chiunque di lavorare in campo; il secondo modello, che fa riferimento alla Zooantropologia, e come tale inquadra la PT in una più ampia e articolata disciplina, richiede una grosso bagaglio formativo, una buona dose di capacità e una dote di sensibilità individuale[1].
La prima fa perno su dati oggettivabili in parte a priori, la seconda impegna gran parte della sua credibilità nella capacità di riflessione dei risultati a posteriori.
Volendo continuare a esplicitare i due campi si potrebbe dire che nel primo caso sono le scuole a formare, nel secondo è il singolo che si forma anche attraverso la frequentazione di più scuole.
Se in un caso le attese sono esplicitate in quanto si sono ridotte le variabili - o non sono volutamente prese in considerazione gli eventuali effetti distortivi a cui si potrebbe andare incontro nell’utilizzo del modello animale - , nel secondo le attese spesso non rappresentano il perno ma sono le eventuali variabili a dare un senso all’intervento di PT.
La conseguenza è che nel primo caso il pet si riduce a oggetto, al limite della protesi, ma nel contempo ne rappresenta il centro motore indispensabile con cui stabilire una interazione funzionale al paziente; nel secondo caso il pet risulta soggetto, al pari del paziente umano, ma in una posizione più defilata in quanto il vero focus è rappresentato dalla relazione che si viene a istaurare tra i soggetti.
In altra occasione ho avuto modo di soffermarmi sulla relazione[2] uomo animale, qui mi preme sottolineare come solo attraverso essa si esprime quella unicità concreta del singolo caso preso in esame; l’unitarietà della singola persona: la sua corporalità e la sua affettività; e che esse mai risultano scisse nella vita concreta delle persone.
Pensare di ottenere risultati facendo leva esclusivamente sugli obbiettivi quantitativi quali possono essere ad esempio il miglioramento fisico del tono cardiovascolare o l’abbassamento del colesterolo, o di natura psichica quali l’autostima, vuol dire negare l’interezza della persona riducendo attraverso un processo di svalutazione lo stesso paziente a puro oggetto, misurabile in ogni suo aspetto, o per meglio dire nei suoi soli aspetti verificabili[3].
Posto così il problema risulta comprensibile il successo di un certo tipo di scuola tecnico semplicistica, e nel contempo la frustrazione di quanti neofiti presumevano di avviarsi ad una attività facilmente comprensibile e gratificante, magari spinti da un’opinione pubblica spesso tratta in inganno dai casi limite enfatizzati ad hoc dai media.
La questione evidentemente si pone non solo sul piano del merito professionale ma coinvolge aspetti etici sostanziali e non ultimo aspetti etologici.
Per ciò che riguarda gli aspetti etici rimando a Carta Modena [4] e ai dettami del CNB (Comitato Nazionale di Bioetica), per il corretto profilo metodologico consiglio la lettura del Protocollo Applicativo per Operatori di PT (appendice 1), un vademecum di procedure realizzato dall’educatore cinofilo Alain Satti [5], che con oltre 800 ore di esperienza in campo della PT e dieci anni di professione al suo attivo, ha potuto nel tempo codificare un modello di lavoro coerente. Modelli animali e reciprocal mindreaming 1.2 Una riflessione a parte, dicevo, acquistano invece gli aspetti etologici nel campo applicativo della PT in considerazione dei continui spunti che gli studi offrono nel campo dell’etologia cognitiva.
La nozione di relazione interspecifica è particolarmente importante nella costruzione teorica della zooantropologia applicata e delle scienze cognitive. A ben vedere, la cosa non è affatto sorprendente , di norma pensiamo alla relazione in sé come ad un codice di norme comportamentali che esibisce un certo ordine interno: ci sono relazioni di grado superiore che hanno a che vedere anche con le parti più profonde del nostro sentire come i sentimenti e relazioni di grado inferiore che regolano i rapporti di buon vicinato, ma anche relazioni che attribuiscono poteri e che fissano le condizioni che devono essere rispettate perché tali relazioni vengano esercitate in modo corretto.
Proprio la presenza di questo tipo di “relazioni asimmetriche”, è questo il caso delle relazioni interspecifiche, ci suggerisce che ci troviamo al cospetto di qualcosa che ha una struttura, un modello ideale, le cui parti sono distinte.
Si potrebbe concludere che tale immagine è così persuasiva sul piano intuitivo che risulta naturale descrivere successivamente una serie di attributi che ne determinano la sua componente relazionale in termini metodologici.
Una parte significativa della etologia cognitiva muove dall’ipotesi che il “modello” animale di cui ci si occupa abbia, almeno idealmente, le caratteristiche che noi in campo applicativo associamo alla relazione.
Quando faccio uso del termine modello animale in realtà bisogna comprendere in modo chiaro come nessun animale è un “modello” in sé, ma lo diventa quale semplificazione dei modelli rappresentativi nella nostra mente.
Pertanto, in precisi contesti, l’uso del termine “modello animale” e non del più generico termine “animale” sta a sottolineare in modo specifico il prototipo concettuale che impone alla mente un certo modo di rappresentare questa strana relazione interspecifica non direttamente accessibile alla tradizionale sfera comunicativa lineare.

Di conseguenza quando si va a definire un modello animale questo si presta ad una duplice lettura :
- della combinazione riduttiva o della linearità (modello della selezione).
- della relazione o puntiforme (modello della complessità). Nel primo caso gli attributi che definiscono il modello animale sono dati per scontato nella sua espressione più elementare e non è richiesto alcuno sforzo interpretativo sia da parte dell’operatore che del fruitore/paziente. L’utilizzo dei modelli animali in questo caso investe situazioni deficitarie precise; il caso più frequente è quello del non vedente che si serve dell’animale protesi.
Il modello della complessità al contrario si apre al concetto di referenzialità.
Quando si progetta concettualmente un modello animale si è tenuti ad operare una selezione che rappresenti innanzitutto un referente così come appare al fruitore/paziente, in una prospettiva che si adatti al panorama soggettivo.
E’ vero che nella scelta dei modelli animali si mira ad assicurare una referenza chiara e definita, in particolar modo quando si vuole andare a innescare un’azione terapeutica, ma il fine terapeutico non si può imporre su tutti gli altri, compreso il senso relazionale.
In tal caso si può decidere di mantenere la referenza data, -riduttiva-, o ricorrere ad un modello animale capace di rendere il contesto insolito tale da impedire una lettura meccanica della relazione.
In effetti in linea di principio una volta che i due soggetti (pet/paziente) sono a contatto tra loro, la relazione che ne consegue non è più suscettibile di venire ricondotta a proposizioni ordinarie (modello della selezione) sfuggendo di conseguenza a qualsiasi classificazione (AAA; AAE; AAT), per quanto l’intervento si ponga metodologicamente in modo chiaro e ineccepibile.
La relazione interspecifica andrebbe sempre coniugata al plurale perché si apre ad una pluralità di prospettive evitando il rischio di presupposizioni interpretative che ricondurrebbe alla combinazione riduttiva.
Cercando, nell’ambito della ricerca teorica, un modello valutativo, è possibile formulare varie ipotesi alternative in sostituzione dei soli parametri quantitativi caratterizzati da una eccessiva rigidità ed una tendenza ad eliminare troppe variabili.
La relazione interspecifica è forse una delle più importanti conquiste dell’umanità degli ultimi 50 anni in quando possiamo definitivamente abbandonare il finalismo antropocentrico, quell’ asylum ignorantiae , già definito da Spinoza oltre quattro secoli fa.
Sin dagli anni ’60 gli studi effettuati concordano nel riconoscere nella comunicazione interspecifica una sostanziale continuità fra gli esseri viventi, in particolare dimostrazioni pratiche sono state realizzate con scimpanzé e gorilla sulla possibile comunicazione uomo animale.
Già Lorenz (1980) e Dewsbury (1989) sottolinearono come fosse necessario instaurare un rapporto empatico con gli animali e come gli animali fossero in grado di amare, sperimentare la gelosia, l’invidia e la collera[6].
Nel manuale Psicologia evoluzionistica. Uomini e animali a confronto Angelo Tartabini riconosce nell’altruismo, l’empatia, la solidarietà e l’aiuto reciproco altre caratteristiche capaci di essere sviluppate in un rapporto interspecifico[7].
Da ultimo gli etologi hanno coniato il termine reciprocal mindreaming , per definire la capacità che alcune specie animali dimostrano nel comprendere gli stati emozionali degli esseri umani, scambiandosi vicendevolmente messaggi empatici basati su un’affettività che non conosce barriere zoologiche. [8] [9] [10]
In particolare alcuni neurofisiologi (Damasio 1999, Newberg 2001, Cozolino 2002) hanno evidenziato attraverso l’uso della PET (tomografia ad emissione di positroni) e della REM ( risonanza magnetica funzionale) una diminuzione dell’attivazione dei lobi frontali del cervello ed un’aumentata attività elettronica dei lobi parietali con attivazione di alcuni nuclei del sistema limbico[11] in presenza di stati emozionali.
Anche nel campo delle scienze umane filosofi come Peter Singer e Paola Cavalieri[12], primatologi come la Jane Goodall o esperti in canidi come Marc Bekoff propongono una prossimità non solo evolutiva ma anche morale interspecifica. Il Laboratorio di PT 1.3 In considerazione di questi studi la PT si è rivelata cosa ben diversa da quella che avevano previsto o intendessero creare le prime scuole: sottovalutare o peggio ancora non riconoscerne la portata nella prassi della pt vuol dire ridurre la portata dell’intervento con il pet a poco più di una seduta fisioterapica sostitutiva degli attrezzi in palestra.
D’altro canto comprendere appieno la sua valenza vuol dire considerare non solo l’animale in sé quale soggetto di diritto, ma l’atto stesso della PT nella sua pienezza terminologica e applicativa.
Non va dimenticato come una desueta metodica, ancora largamente in uso, classifica la PT come un intervento che a sua volta può essere diversificato a seconda del soggetto paziente di riferimento in AAA (Animal Activity Assisted) AAT (Animal Activity Therapy) AAE (Animal Activity Education) e successive sottoclassi, facendo così credere che a seconda dell’Area di riferimento si possa centrare un obbiettivo piuttosto che un altro.
L’attuale metodo prevalentemente in atto risulta palesemente uno strumento inadeguato e che non soddisfa più neanche chi ne fa uso solo per necessità applicative, avendo poi bisogno comunque di ulteriori distinguo interpretativi; più probabilmente c’è da attendersi che con l’accumularsi delle conoscenze queste classificazioni cambieranno verso interpretazioni meno rigide e di più ampio respiro [13].
Mettere da parte vecchi particolarismi e interessi di facciata tra le varie scuole[14] potrebbe aiutare a ridisegnare i confini della PT favorendone una nuova architettura definita da vari livelli di permeabilità (non schematica) a seconda dell’utente e del modello animale proposto.
Più corretto al momento sarebbe invece limitarsi a parlare di Laboratorio di PT, in considerazione anche del fatto che allo stato attuale tutte le scuole concordano che il percorso di PT preveda la costituzione di una Equipe Multidisciplinare di riferimento che può variare nei singoli componenti con il variare del paziente.
Il temine Laboratorio inoltre sancisce il suo carattere di ricerca e interpretazione dei dati, così come avviene in tutti i laboratori, dove partendo da entità note è possibile attendersi dati diversificati, a loro volta oggetto di ulteriore riflessione e di ricerca.
In effetti se alcuni obbiettivi terapeutici vengono centrati non è perché l’animale è diventato un farmaco piuttosto che un personal trainer per recuperi psicofisici o quanto altro si è disposti a far credere e vendere, ma soltanto perché su basi relazionali si è potuto andare a sbloccare aree che altrimenti avrebbero richiesto con molta probabilità anche l’uso del farmaco.
Da un punto di vista più generale credo comunque che si debba diffidare di chi usa modelli animali al solo scopo di giustificare il funzionamento di un organo o il miglioramento di un sistema del paziente umano.
Concepire l’animale guaritore ha un che non solo di primitivo ma di profondamente limitato.
Il suo utilizzo a qualunque scopo, seppur nobile, negando in conclusione la dignità di entrambi (pet-paziente) sfugge quanto meno a quella “responsabilità morale analogica” come direbbe Jurgen Habermas, che lascia intendere un valore gerarchico in cui qualcuno (seppure di specie diversa) comunque risulta al suo servizio e quindi ad un livello inferiore a quello del paziente, e tutto ciò è mortificante oltre che diseducativo.
Riconoscere come il più importante meccanismo d’azione nel rapporto uomo animale è la relazione, e in particolare quella di tipo affettivo emozionale, vuol dire riconoscere un rapporto unico e paritario tra i due soggetti[15], anzi più precisamente tra i 3 soggetti: risultando la Coppia soggetto nuovo e unico, frutto della relazione esistente tra i due soggetti in esame.
Pertanto si può andare incontro ad una serie di variabili (non prevedibili all’atto della stesura del progetto) in quanto ad esempio pur partendo da un paziente “pessimo” [16] si può avere comunque un’ottima coppia; ma non è detto che un ottimo paziente ed un ottimo pet facciano necessariamente un ottima coppia.
In altre parole bisogna intendere nell’ambito di un Laboratorio di PT il soggetto coppia quale evento a sé stante, e non la semplice sommatoria dei valori dei due soggetti.
Il soggetto coppia è la variabile che richiede una valutazione a sé, a prescindere dai giudizi attribuiti ai singoli soggetti e da eventuali risultati positivi che si possono comunque ottenere dal soggetto paziente.
Infatti se ci si limita ad analizzare il risultato quantitativo raggiunto e si verifica che magari l’obbiettivo che ci si era posto è stato centrato, è possibile che in mancanza di valutazione del soggetto Coppia, esso andrà a perdersi con il perdersi di quella specifica relazione, e che non si potranno ottenere risultati ripetibili con altro soggetto pet che successivamente si potrebbe andare a proporre.
Il reciprocal mindreaming quindi rappresenta lo snodo cruciale valutativo da cui anche l’operatore di PT viene escluso in quanto evento unico che si assiste tra i due soggetti di relazione, e che favorisce la nascita di un nuovo soggetto a sé stante: la coppia.
Altre ipotesi di studio e schemi classificatori che meglio si adattano a rappresentare la complessità della relazione interspecifica possono essere presi in esame, quali ad esempio gli aspetti emotivi (vedi paragrafo successivo), dal momento che ci si libera dalla visione antropocentrica e meccanicista di cui è infarcito un certo tipo di scientismo, concentrato solo su di sé e sulla propria specie, e si riconosce la naturale predisposizione umana (a qualunque stadio) all’alterità[17].
Chiaramente il rapporto proprio perché è su base relazionale richiede un mediatore o interprete: l’operatore di PT; figura chiave[18] non solo nella sua veste di conduttore ma di educatore (da qui forse si può comprendere la proposta di un corso professionalizzante specialistico all’interno della Laurea in Scienze della Formazione).
Non mi stancherò mai di dire che favorire una relazione non vuol dire necessariamente indirizzarla a buon fine ma pilotarla, evitando forzature, e considerando qualsiasi atto (anche il rifiuto alla relazione) positivamente, se si è capaci di trarne il giusto insegnamento: non bisogna mai dimenticare che il paziente che ci troviamo di fronte è una persona in possesso di una sua storia personale che comunque gli va riconosciuta.
Non si può cambiare il passato, una storia: quello che però si possono cambiare sono i legami che ogni persona ha con il mondo esterno; in tal senso i modelli animali possono - attraverso la relazione - favorire un’emozione, predisponendo il soggetto paziente ad una maggiore apertura al mondo. Studio di modelli a forte o basso potenziale relazionale 1.4 Quando i cani rispondono ai nostri stati d’animo, ai nostri piaceri e timori, quando anticipano le nostre intenzioni o aspettano eccitati di vedere se li porteremo con noi a fare una passeggiata, non presuppongono che noi siamo esseri dotati di facoltà mentali con delle intenzioni precise. (R.Gaita,2007) Gilles Deleuze analizzando lo “schema del cane”[19] di Kant conclude che lo schema in sé non consiste in una immagine, ma in relazioni spaziotemporali che incarnano o realizzano delle relazioni puramente concettuali[20].
Darwin, nel mai letto abbastanza L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali [21] al cap. 5 descrive espressioni particolari degli animali quali gioia, affetto, sofferenza, rabbia, sorpresa e terrore concludendo che questi eventi riguardano chiaramente atti di volontà.[22]
L’emozione è la prima risposta - individuale - agli stimoli ambientali, essa non ne condiziona solo i processi razionali, ma agisce, modificandoli, sui sistemi neuro endocrino e immunitario, responsabili tanto del benessere quanto della insorgenza delle malattie[23].
Gli studi contemporanei ci confermano (Antonio Damasio 1995; 2006) che quando un cervello normale rileva uno stimolo emozionalmente adeguato, ossia l’oggetto o l’evento la cui presenza può essere reale o evocata dalla mente, si scatena un’emozione.
I mediatori biochimici che intervengono in seguito alla stimolazione empatico emozionale da parte dei lobi parietali del cervello contribuiscono alla costruzione o addirittura al recupero di particolari connessioni sinaptiche nervose in grado di promuovere cambiamenti costruttivi, adattivi ed evolutivi. Sembra che tali cambiamenti evolutivi, prodotti da una relazione empatica profonda, abbiano una maggiore probabilità di rimanere stabili ed efficaci nel tempo rispetto, perfino agli effetti della sola terapia farmacologia, allorché si tenti di affrontare e curare disagi psicologici e psichiatrici: in altre parole, una buona relazione protratta nel tempo risulterebbe più terapeutica di qualsiasi farmaco. [24]
Ciò permette di dire a Edoardo Boncinelli che la scienza medica in futuro si troverà sempre più di fronte a individui anziché di fronte ad una serie di fenomeni, con la conseguenza che i pazienti/utenti non potranno più essere considerati come una classe omogenea, e che il dogma dei protocolli terapeutici, uguali per tutti, dovranno essere rivisti alla luce delle singole individualità biologiche[25].
Infatti alla base di questa risposta neurofisiologica è probabile che ci siano esperienze empatiche intersoggettive pregresse su cui è possibile agire favorendo un diverso livello di funzionamento dell’encefalo tanto da permettere al paziente una più ampia capacità introspettiva e di potenziamento di condotte esplorative ed immaginative, le quali a loro volta aiutano a consolidare l’esperienza del Sé e l’identità. [26]
A completamento di questa situazione intervengono molti fattori, ma il modello animale per l’uomo sicuramente rappresenta tra i principali fattori scatenanti empatico emozionali tutt’ora soggetto di studio.
In linea di principio in presenza di un modello animale è possibile avere una più forte (stimoli generici) o più bassa (stimoli specifici) determinazione emotiva da parte del paziente; pertanto è possibile come ipotesi di lavoro (mediando alcuni concetti e termini da Marshall Mcluhan[27]) studiare e definire i modelli animali non tanto in base ai contenuti in sé che essi veicolano, ma in base ai criteri strutturali con cui essi organizzano la relazione con l’uomo.
McLuhan è noto al grande pubblico per la classificazione dei media in "caldi" e "freddi" e per le espressioni "villaggio globale" e "il medium è il messaggio" considerata la riflessione più importante di McLuhan. McLuhan definisce medium freddi (cioè a bassa definizione) la TV, il telefono, i film, i cartoni animati, la conversazione; viceversa definisce come caldi medium come la radio e la fotografia. Questa classificazione ha dato luogo a equivoci e a discussioni, dovute al fatto che gli aggettivi "caldo" e "freddo" sono stati adoperati in senso antifrastico, cioè in senso opposto rispetto al loro reale significato. McLuhan classifica come "freddi" i medium che hanno una “bassa definizione” e che quindi richiedono una “alta partecipazione” dell'utente, in modo che egli possa "riempire" e "completare" le informazioni non trasmesse; i media "caldi" sono invece quelli caratterizzati da un'alta definizione e da una scarsa partecipazione. A ogni modo, lo stesso McLuhan, nei suoi scritti, cade non poche volte in contraddizione nel definire "caldo" o "freddo" un particolare medium: nel caso della scrittura, per esempio, questa viene dapprima definita fredda poi "calda ed esplosiva".
Proprio in considerazione della particolare struttura empatico relazionale ogni modello animale non può mai risultare neutrale, perchè esso suscita nei pazienti determinati comportamenti e modi di pensare e porta alla formazione di una certa forma mentis.
Conoscere i modelli animali in base alla loro capacità di interagire con il paziente e in quale misura, resta essenziale ai fini di una corretta proposta di Laboratorio di PT.
Dando per condiviso che esista un pensiero strutturato interspecifico non linguistico[28], c’è un principio base che può distinguere un modello a forte potenziale relazionale (modello caldo) come in genere il pet domestico, da un modello a basso potenziale relazionale (modello freddo) come la proposta di un volatile o un asino: è caldo il modello relazionale che estende una grande quantità di stimoli emotivi, è freddo il modello che contiene una quantità limitata di stimoli emotivi.
Avrebbe poco senso cercare dei prototipi in assoluto, di modo che fosse subito chiaro dalla definizione in chi e in che cosa si differenzia un modello animale da un altro considerando che ad esempio l’acquario è freddo non solo perché attiva solo una parte limitata dei sensi (stimoli specifici) ma perché per il suo tramite è possibile ricevere solo una scarsa quantità di informazioni, e altrettanto dicasi per i vari uccelli o, salendo di grado, del cavallo (ippoterapia) .
Viceversa i modelli caldi (stimoli generici) comportano una limitata partecipazione (in genere il cane con il suo scodinzolare, fare festa, abbaiare riduce gli sforzi interpretativi e travolge con il suo essere giocoso a cui il paziente non deve fare altro che adeguarsi) ma sono più coinvolgenti (attivano più sensi), mentre i modelli freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte del paziente ma allo stesso tempo risultano, almeno agli inizi del Laboratorio meno coinvolgenti.
Di conseguenza è facile prevedere come a seconda del pet che noi andremo a proporre, ovvero a seconda della richiesta che ci viene fatta di attivare un Laboratorio di PT, è possibile ottenere un potenziale elevato di relazione o un basso potenziale di relazione e conseguentemente si possono avere stimoli reattivi empatico emozionali maggiori o minori.
In alcuni casi spesso la proposta di un modello animale quale il cane può risultare una scelta di comodo poco impegnativa per l’operatore (in quanto è il cane con il suo incidere che determina la partecipazione del paziente) ma gratificante perché subito coinvolgente e di sicuro effetto.
La PT contrariamente a quasi si crede è altamente selettiva, molti modelli animali sarebbero in astratto sulla carta funzionali ma la ricerca di base non può procedere seguendo obbiettivi predefiniti ma cercare finestre di opportunità che a volte si spalancano nei contesti più impensati e meno prevedibili.
Oggi con gli studi in atto nessuno più può negare che la proposizione della PT non può più avvenire in modo meccanico, come se esistesse una natura fissa, immobile; per cui non ci resta che sbarazzarci di quest’insieme di idee negative che riducono l’emozione ad una facoltà innata ma considerare la stessa piuttosto una pratica sociale.
C’è da credere in futuro che una maggiore attenzione alle offerte di modelli animali da parte degli operatori di PT associate ad un continuo studio sul potenziale di penetrazione empatico emozionale da parte dei ricercatori possa portare ad un arricchimento delle metodiche e ad una diversificazione delle proposte, oggi stagnante e banale, non fosse altro per pigrizia intellettuale. Breve inciso: Educare alle Emozioni 1.5 …in un’epoca in cui i bambini trascorrono sempre più il proprio tempo nella solitudine delle pareti domestiche e gli adolescenti consumano desideri di scambi relazionali sul piano della comunicazione virtuale, un’educazione attenta alla dimensione emotiva diventa imprescindibile. (Apprendere dall’esperienza, L. Mortari, 2003)

Resto dell’idea che la PT non può e non deve rappresentare una metodica codificata ma un punto di partenza, un nuovo modo di sentire il valore animale, al fine di valorizzare la “coppia” attraverso un percorso pilotato che, per giungere a dei risultati, richiede un supporto considerevole di studio e di continua riflessione in campo educativo.
Come si è potuto comprendere le due correnti di pensiero che si sono sviluppate nel delineare la PT sottendono anche alla formazione dell’operatore, ponendo lo stesso in un duplice modo di procedere: cercare di creare consenso in posizione centrale legittimando il proprio intervento e quello dell’animale al suo seguito, o scegliere di stare in presenza ma defilato, in posizione periferica, lasciando emergere quando possibile dall’incontro[29].
Questo evento arricchito dall’emozione non è l’effetto magnetico esercitato sulla mente umana dalla presenza del pet ma consiste nell’abilità con cui l’operatore è in grado di veicolare certi messaggi attraverso un accesso non linguistico all’altro da sé.
L’operatore di PT non va assolutamente inteso come un ammortizzatore al servizio di un disegno sociale o sanitario che si voglia, ma deve dimostrare di essere in grado di tenere assieme i due soggetti (il paziente umano ed il pet) che questa società non collega o collega falsamente, di modo che nessuno prevarichi, e così stabilendo le condizioni di maturazione della coppia.
Centrata sulla relazione, l’esperienza del Laboratorio di PT produce così un sapere che non ha come obbiettivo immediato l’elaborazione di dati, ma piuttosto un sapere contestuale all’evento: studio, elaborazione ed eventuale riformulazione, rappresentano un modo di procedere attento e non invasivo lasciando alla coppia la possibilità di esprimersi compiutamente.
Una presenza/assenza quella dell’operatore di PT capace di pilotare ma non di interferire, affinché emergano gli stati latenti piuttosto che inibire gli stessi in un percorso pre-definito.
Come si può comprendere gli aspetti cognitivi e quelli affettivi risultano strettamente connessi tra loro nel modulare una risposta emozionale, in tal senso educare all’emozione vuol dire superare le barriere delle pulsioni, Spinoza li definirebbe appetiti , favorendo un corretto approccio relazionale[30].
L’Educazione Emotiva costituisce un punto ancora non sufficientemente analizzato nel campo delle attività di supporto con modelli animali.
Passare dall’indefinita pulsione (ovvero da uno stato comportamentale che alcune pratiche di PT possono indirettamente e forse anche inconsapevolmente rinforzare pur di raggiungere un definito obbiettivo) alla emozione[31] ovvero al sentimento cosciente, è indispensabile non solo ai fini di una corretta metodologia ma di una precisa prassi educativa e relazionale.
E’ ovvio che tutti gli esseri umani posseggono entrambe le facoltà (pulsioni/emozioni) ma solo una corretta educazione sa modellare facendo emergere dall’indefinito gli uni dagli altri: contrariamente a quanto normalmente si crede, questa competenza non è innata ma va appresa. Qualora tale apprendimento in ambito familiare fosse deficitario, ambivalente, parziale o intermittente, è possibile che i figli, crescendo non riescano a gestire pulsioni, sensazioni ed emozioni in senso adattivo, e finiscano per sentirsi sopraffare da esse[32].
La cornice concettuale è di concepire la relazione come un processo inteso a promuovere quelle abilità e quelle disposizioni cognitive ed emotive necessarie a favorire un cambiamento rispetto allo stato in cui si è.
Sta alla esperienza dell’operatore farsi carico di gestire la relazione in modo corretto, riconoscendo e modulando le emozioni di fondo: siete dei buoni lettori delle emozioni di fondo se siete in grado di rilevare in modo accurato l’energia o l’entusiasmo in una persona che avete appena conosciuto; o di diagnosticare, in amici e colleghi, un’impercettibile stato di malessere o eccitamento, nervosismo o tranquillità. … Vi basti valutare il profilo dei movimenti degli arti e di tutto il corpo. Sono energici? Precisi? Ampi? Frequenti? E poi osservate le espressioni facciali. Se vengono pronunciate delle parole, non vi limitate ad ascoltarle e a figurarvi il significato che di esse riporta il dizionario, ma fate attenzione anche ai loro aspetti musicali, prosodici. [33]
L’effetto di cambiamento è il risultato che ne consegue: una relazione tra presente umano e futuro umano, una relazione tra l’umano e il non umano. Documentare documentare documentare 1.6 A conclusione di questo breve saggio vorrei che fosse comprensibile non solo l’attuale ruolo del modello animale che andiamo a declinare ma anche quello che riveste l’operatore: il prossimo passo da compiere è quindi quello di fare in modo che a prescindere dal risultato ottenuto in campo si possa sempre trarne un insegnamento positivo ( e ciò vale tendenzialmente per qualsiasi passo che si accingiamo a compiere.
Abbiamo riconosciuto come certi risultati possono giungere inattesi, coglierci di sorpresa o trovarci totalmente impreparati.
Per ottenere risultati occorre un impegno etico e uno sforzo di serietà negli studi non surrogabile solo dal risultato conseguito, ma capace di abbracciare gli universali della condizione umana e animale stabiliti dalla relazione empatico emozionale paziente/pet.
Prendere in considerazione che stiamo lavorando con “materiale” vivo riduce le probabilità di ragionevolezza, tuttavia favorire l’attenzione a 360° si può rilevare un salvacondotto efficace anche nelle situazioni più infelici.
Come ci ricorda Milan Kundera in I testamenti traditi l’uomo è avvolto nella nebbia e non dal buio totale in cui non vedremmo niente e saremmo incapaci di muoverci: nella nebbia si è liberi, ma è la libertà di chi si trova nella nebbia.
L’operatore di PT immerso nel piano del setting vive costantemente nella nebbia più fitta: nell’indefinito, nell’incerto; spesso possiamo restare ammirati per alcuni particolari ma a volte può sfuggirci l’insieme: possiamo porre attenzione e schivare un albero che ci para d’avanti ma difficilmente possiamo prevedere l’incrocio che ci sta un po’ più in là.
Senza timore di difendere la validità degli obbiettivi di fondo il cui filo conduttore permette di annodare il percorso che sottende l’intervento del Laboratorio di PT, sta poi ad ogni singolo operatore in ogni seduta aprirsi alla ricerca non solo per ciò che riguarda il comportamento manifesto ma la sua natura profonda.
La necessità di definire delle modalità di osservazione nell’ambito di una seduta di PT nasce da una serie di problematiche che, se non rilevate, poco o nulla dicono dell’evento se non a conclusione del percorso definito e degli eventuali obbiettivi raggiunti; con il risultato di ritenere realmente terapeutico la centralità dell’animale, dimenticando la relazione che con esso si instaura e svilendo così l’intervento dell’operatore.
Dopo aver fatto supervisione a numerosi Laboratori di PT penso che sia possibile individuare almeno tre fonti di problema che vanno affrontati in termini procedurali al fine di ottenere un percorso metodologicamente significativo.
Il principale nasce oggettivamente dal fatto che spesso l’operatore di PT preso dal setting poco o nulla riferisce dell’evento, o a volte se si riferisce ad esso è solo in forma aneddotica, negando proprio ciò che più bisogna sapere: ad esempio quali comportamenti durante la seduta si sono osservati e quali no .
Questo senso di abbandono in parte nasce dal fatto che l’Equipe si attesta solo sulla valutazione dei risultati, e da essi giudica l’eventuale efficacia del Laboratorio, mentre poco o nulla nutre interesse sul “come” ovvero sulla procedura che l’operatore intraprende al fine di ottenere i tanto attesi risultati.
Per incompetenza, superficialità o per semplice paura di offendere entrando nel lavoro altrui facendo domande, di fatto nessuno dell’Equipe si cura del focus del Laboratorio lasciando che l’evento faccia il suo corso e limitando il proprio giudizio solo a completamento del percorso.
Spesso le conseguenza di un simili approccio è: a) il pericolo di forzature (di natura procedurale) da parte dell’operatore per giungere a determinati obbiettivi mettendo a rischio l’intero progetto e la significatività dei risultati; b) l’abbassamento della soglia di attenzione da parte dell’operatore (tanto sa che nessuno gli chiederà niente nello specifico); c) la stereotipia procedurale (fare sempre le stesse azioni anche se con pazienti diversi) che porta alla passività professionale; d) una stereotipia nello studio delle offerte del modello animale (comunque la stessa specie, la stessa razza e magari lo stesso esemplare); e) il pericolo di interpretazioni errate.
Il secondo ordine di problemi è che l’operatore molte volte descrive solo ciò che ha potuto vedere, nel senso che gli è caduto sotto gli occhi, con la conseguenza che se si è concentrati su uno evento stimolo/risposta spesso possono sfuggire altri contorni per altro essenziali all’evento stesso.
E’ evidente che non è possibile richiedere il duplice sforzo di azione e osservazione da parte dell’operatore e pertanto è necessario documentare la seduta al fine di poter rivisitare l’evento e mettere il materiale a disposizione non solo dell’ Equipe Multidisciplinare ma di se stessi: un leggere e rileggersi significativo anche dopo tempo dall’evento, capace di contribuire a diramare eventuali empasse interpretativi e metodologici.
Terzo problema il rispetto dei tempi: molti descrivono i comportamenti in modo corretto e completo ma dimenticano di specificarne la frequenza: la mancanza di questa informazione non consente di capire all’Equipe se un certo comportamento è avvenuto una sola volta in modo sporadico e occasionale o è da ritenere come componente della relazione in atto.
Di seguito mi limito a segnalare i riferimenti di base comune a qualsiasi modello animale proposto al fine di valutare le potenziali di interazione paziente/pet, e specificatamente:
1) Tempo di latenza di una risposta a seguito di stimolo lanciato dal pet
2) Tempo di interruzione di un contatto paziente/pet
3) Periodi di riposo (numero di volte che il pet tenta il contatto con il paziente e ne viene respinto)
Pertanto per garantire una corretto percorso è necessario che ogni operatore di PT sia opportunamente fornito di materiale tecnico che gli permetta successivamente di documentare il lavoro svolto e riflettere sul percorso intrapreso con ogni singolo paziente.
Una cineteca personale che andrà ad arricchire gli elaborati conclusivi del singolo caso, oltre che risultare una banca dati del proprio modo di procedere e di presentarsi all’interno dell’ Equipe Multidisciplinare con autorevolezza.
A conclusione di questa disamina critica sulla metodologia operativa, mi sembra giusto elencare un percorso condiviso, funzionale tanto all’operatore quanto alla Equipe e comunque strumento indispensabile per far uscire la PT dalle paludi dei tanti praticoni che ancora oggi si offrono sul mercato.
In termini metodologici è possibile verificare delle procedure che rientrano in un corretto approccio al modello relazionale, evento che precede qualsiasi successivo dato numerico declinato negli obbiettivi progettuali.
Più in generale va completato il quadro con i presenti protocolli: a) I Fase o di Osservazioni Preliminari:
descrizione dello stato emotivo e di salute nella giornata precedente all’incontro nel paziente; b) II Fase o di Interazione:
(1) come relaziona il paziente durante il setting?
(1a) ignora/apprezza il contatto?
(1b) il paziente preferisce osservare il pet muoversi liberamente o cerca da subito il contatto?
(2) dopo quanto tempo hanno preso reciprocamente confidenza?
(2a) in cosa consiste? (es. contatti esplorativi)
(2b) quando persiste?
(3) proposte di gioco (uso di strumenti es. pallina, corda, bastone) c) III Fase o di Latenza tra due sedute di Laboratorio:
(1) parametri sanitari (es. valori definiti di riferimento)
(2) parametri relazionali (ad es. : n. di contatti/interazione con altri pazienti, n. di volte che richiama l’esperienza con il pet, come si approssima all’arrivo del pet, stimoli verso altre iniziative proposte, interazione sociale, tolleranza verso gli altri, maggiore/ minore accettazione di essere manipolati fisicamente per altri tipi di esercizi o attività fisica, per igiene personale, per cura della persona) . Il pratico spesso fugge dall’affrontare la problematicità così come richiesta, rifugiandosi in interpretazioni standardizzate e in modi di agire previsti, il più delle volte non perché non percepisca la complessità del caso, ma per scarso impegno nella ricerca di una situazione adeguata che nessuno forse gli chiederà mai.
Antecedente alla I Fase va considerato inoltre che i pazienti vanno documentati e studiati nel loro ambiente naturale quotidiano per un significativo periodo, di modo da evidenziare distorsioni o errori applicativi.
Il programma dovrebbe prevedere infine un Fallow up o post interazione (tempo di persistenza-> richiamo periodico sotto forma di saluti o visita a tempi distanziati) e tempi di caduta o di cessato risultato.
Essendomi in precedenza già soffermato sull’importanza della individuazione dei modelli animali non mi dilungherò oltre, se non per sottolineare la specifica formazione richiesta all’animale e la sua capacità a rispondere alle successive situazioni proposte dal Laboratorio.
Il possesso di un animale sicuro in termini di controllo sanitario e comportamentale non esaurisce le qualità o doti richieste per una corretta attività ma le stesse vanno costruite attraverso un percorso professionalizzante per entrambi (operatore e pet) e costantemente monitorato da professionisti veterinari.
La cura certificata non solo della tutela del benessere animale e della sua salute rappresentano le precondizioni e in un certo qual modo l’indispensabile biglietto da visita di ogni singolo operatore.
Resta comunque indispensabile a mio parere un’offerta diversificata dei modelli animali sia in termini di specie che di esemplari a garanzia delle qualità del servizio che si vuole andare ad offrire.
Non va mai dimenticato che l’esperienza pone il Laboratorio di PT sotto il segno di una infinita mobilità: ogni acquisito di conoscenza diventa l’avvio per la conoscenza di qualcosa che sta più avanti, e così via, e quanto più uno ci si sarà dedicato, tanto più comprenderà ciò che avviene sotto i suoi occhi. Un grazie particolare alle collaboratrici Leonella Parteli, Marta Ragno e Loredana Salier per il loro contributo attraverso un processo di rilettura comparata al presente saggio e all’operatore cinofilo Alain Satti, di cui da anni ho modo di apprezzare il suo profilo professionale, per aver messo a disposizione il proprio percorso procedurale nell’applicazione di campo. Appendice 1 PERCORSO PROCEDURALE DI INTERAZIONE PAZIENTE / PET
PRIMA – DURANTE – DOPO IL SETTING Alain Satti Prima della visita Fase I) sgroppata del cane (10')
il cane si lascia libero di compiere un'attività spontanea in territorio aperto:
(attività di fiuto, marking, e ispezione del territorio). Fase II) pasto (5')
al cane viene somministrato alimento secco Fase III) preparazione del cane con adeguata tolettatura (15')
spazzolatura del manto con cardatore, ispezione e controllo delle zampe,
unghie, orecchie e genitali; spray deodorante specifico per cani. Fase IV) carico del cane sul mezzo di trasporto preposto (modello Kennel)
In caso di itinerario eccessivamente lungo interruzione del viaggio a metà
itinerario per ulteriore sgroppata (10') come da Fase I Fase V) arrivo presso il centro di lavoro (10')
a) sopralluogo del conduttore nella struttura, sistemazione attrezzature (ciotola
dell'acqua, tappeti, etc);
b)contatto con il personale di riferimento del centro. Fase VI) breve giro prima di entrare nel setting di lavoro (5'). Durante la visita – Preliminari , presentazione e saluto all'utente prima di avvicinargli il cane (5')
(es.: buongiorno, sai chi ti è venuto a trovare oggi? Il Sam ha voglia di conoscerti; hai piacere di accarezzarlo o che si avvicini a te?)
– Avvicinamento pilotato del cane (5').
– Fase di interazione spontanea (5').
– Passaggio alle attività (max 10')
(es: vogliamo andare insieme a costruire il percorso? Hai voglia di spazzolare il Sam sul tavolo? Hai piacere di sdraiarti sul tappeto con Sam?)
– conclusione, saluto, verbalizzazione dell'appuntamento
(es: sai che mercoledì della prossima settimana Sam ti viene a trovare nuovamente?) Immediatamente dopo il setting – breve passeggiata (5') defaticante con il cane sul luogo o nelle sue immediate vicinanze così da familiarizzare con il posto
– posizionamento del cane sul mezzo di trasporto
– recupero del materiale utilizzato per il setting (ciotola dell'acqua, tappeti, etc) .
– incontro di cortesia con il personale di riferimento del centro senza entrare nel merito del setting (5') Dopo la visita – rientro in sede
– passeggiata con il cane (30')
– attività di tipo ludico-ricreativa (15')
(Es. : gioco e interazione, attività di taching, etc..)
– conduzione del cane nel proprio luogo di riposo
– controllo ed eventuale manutenzione del materiale utilizzato per il setting (spazzole,
guinzagli, etc...) . [1] Il metodo zooantropologico pertanto si basa innanzitutto sull’attivazione relazionale, evitando sia l’umanizzazione che la strumentalizzazione dell’animale. R. Marchesini ; La Professione Veterinaria, 3/2008, p.16
[2] Quale uomo? Quale animale? Un contributo allo studio della relazione uomo animale; G. Pallante, Credereoggi n. 162 (6/2007), Padova 2007; p. 109-120.
[3] Spesso gli esempi riportati a sostegno delle proprie tesi da questa scuola sono accuratamente ripuliti dei tanti dati che risultano essere non congrui, ovvero di quelle varianti che non rientrano nello schema lineare predefinito e pertanto vengono semplicemente classificati come risultati atipici. L’ovvia conseguenza è che i risultati attesi sono nell’infinita maggioranza dei casi rivolti al positivo fornendo l’impressione di un successo sempre e comunque.
[4] Carta Modena rappresenta a tutt’oggi l’unico modello concreto di una proposta corretta e garante dei TRE soggetti messi in campo nella pratica della PT. Il soggetto Paziente, il soggetto Animale e il soggetto Coppia richiamando ognuno a precise figure professionali competenti che contribuiscono, per singole conoscenze, al rispetto reciproco, nel delimitare le proprie aree di valutazione e alla costruzione di una corretta pratica.
[5] Alain Satti è il responsabile dell’Associazione “Vita da Cani” con cui da oltre un decennio partecipa a Laboratori di PT in diversi Centri.
[6] Il pensiero animale; C. Allen e M. Bekoff; Dynamie, Milano;1998
[7] Psicologia evoluzionistica. Uomini e animali a confronto; A. Tartabini, McGraw-Hill; Milano 2003
[8] La mente animale; E. Alleva; Einaudi, Torino, 2007; p. 8
[9] Progetto Teo: educazione e abilità comunicative in un calopsitte; F. Furlani, G. Pallante; in Atti del Convegno Le città del possibile. La relazione uomo animale in ambiente urbano; ed. Stella, Rovereto 2005; pp. 20-29
[10] Va sottolineato che gli etologi e in generale gli psicologi comparati avevano funzionato da apripista per i neuroanatomi, descrivendo sofisticate capacità cognitive negli uccelli, dall’uso di strumenti alla loro costruzione, fino alla trasmissione empatica di stati emozionali che permettono di comunicare a una specie di pappagallo con la sua partner umana, l’etologa statunitense Irene Peppenberg; E. Alleva; op. cit. p. 150
[11] La corteccia del cingolo insieme alla amigdala e all’ippocampo costituisce il sistema libico, la sua funzione non è del tutto chiara ma è sovente chiamata in causa nelle emozioni. Nell’insieme queste strutture appartengono alla paleocorteccia.
[12] Il Progetto Grande Scimmia: eguaglianza oltre i confini della specie umana, P. Singer P. Cavalieri
[13] Non possiamo dimenticare come i determinanti sociali, storici e politici influenzino le teorie scientifiche attraverso percorsi interpretativi funzionali a questa o quell’altra ideologia fino a distorcere il dato in sé, adattandolo di volta in volta fino a costringerlo ai propri interessi.
[14] A questa confusione contribuisce il vuoto legislativo dello Stato che con la sola direttiva comparsa sulla GU n. 3 del 3.03.2003 si limita a delegare alle singole regioni le iniziative riguardo della PT. Di fatto a tutt’oggi la maggior parte delle Regioni ancora non legifera in materia e le poche che hanno già legiferato non sembra abbiano brillato per risultati. La conseguenza è un ulteriore frantumazione spesso a esclusivo vantaggio di questa o quell’altra struttura che in modo del tutto autoreferenziale si accredita sul territorio. Controprova risultano essere gli inutili tentativi finora dei vari Enti (Istituto Zooprofilattico di Teramo, Università di Medicina Veterinaria di Bologna, Istituto Superiore della Sanità) di fornire un censimento reale dei soggetti che svolgono sul territorio nazionale una attività dichiarata di PT.
[15] Si tratta di un punto di svolta nell’etica interspecifica che, nel suo sforzo di allargare l’ambito della comunità morale all’intero mondo vivente, ha insistito compattamente sul tema del rispetto, declinato in chiave utilitaristica – come in Peter Singer – o giusnaturalistica – come in Tom Regan. E così che, sulla base dell’assunto che “tutti gli animali sono uguali”, il primo rivendica un’eguale considerazione degli interessi di tutti gli esseri senzienti, a prescindere dalla specie di appartenenza, e il secondo previene all’affermazione di diritti naturali, validi per umani e non umani, in quanto “soggetti di una vita” dotati di intrinseco valore; Prefazione di Luisella Battaglia in R. Gaita, Il cane del Filosofo; Melangolo, 2007, p. 10
[16] In questo caso il termine “pessimo” va inteso non come giudizio dello stato del paziente, ma alla sua personale predisposizione a relazionare con il pet (zoofobia, zoomania) .
[17] Il riconoscimento di alterità animale si basa principalmente su due coordinate: 1) il riconoscimento della soggettività animale, contro la tendenza a vederlo come un oggetto o come una macchina; 2) il riconoscimento della diversità dell’animale, contro la propensione ad antropomorfizzarlo. R. Marchesini, La Professione Veterinaria; 3/2008, p. 16
[18] Come si è detto la PT è realizzabile in modo corretto solo in presenza di una Equipe Multidisciplinare dove sono suddivisi compiti, ruoli professionali e responsabilità. Se da questo elenco si danno per scontato il ruolo di garante del soggetto paziente ( medico, psicologo, pedagogista, insegnante, fisioterapista o quant’altri a titolo ) e parimenti viene riconosciuto per il soggetto pet il ruolo di garante sanitario nella figura del medico veterinario con particolare esperienza in comportamento animale, vale la pena di soffermarsi sul ruolo di garante della coppia, ovvero dell’esperto in zooantropologia e nella figura del conduttore o pet operator. Pur lavorando a stretto contatto questi due professionisti non possono sommarsi in una unica figura in quanto il ruolo di osservatore esterno mal si adatterebbe a chi si trova a svolgere l’intervento in prima persona. Inoltre è buona norma che lo zooantropologo acquisisca più educatori con la possibilità di diversificare la proposte sia in termini di collaborazioni, sia come variabilità di modelli animali; infatti è impensabile poter adottare lo stesso pet in più circostanze, per più tempo, e con diverse modalità, se non venendo meno agli stessi principi a cui dice di ispirarsi.
[19] Il concetto di cane indica una regola, secondo cui la mia capacità di immaginazione può tracciare universalmente la figura di un animale quadrupede, senza essere ristretta ad un’unica figura particolare, offertami dall’esperienza, oppure ad ogni immagine possibile, che io sia in grado di raffigurare in concreto. in E. Kant, Critica della Ragion Pura, Adelphi, Milano; 1976, vol. 2, p. 136
[20] La Filosofia critica di Kant, G. Deleuze, Cappelli, Milano, 1979, p. 63
[21] L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali; C. Darwin; Newton, Roma, 2006
[22] C. Darwin, op. cit., p. 105
[23] L’errore di Cartesio; A. Damasio, Adelphi, Milano, 1995
[24] Le Emozioni che fanno crescere, U. Mariani e R. Schiralli; Mondatori; Milano, 2007, p. 13
[25] Il medico tra arte e scienza; E. Boncinelli, ed. Keiron, 2000
[26] idem
[27] Gli Strumenti del Comunicare, M. Mcluhan, il Saggiatore, Milano, 1999
[28] Dagli anni ’60 a tutt’oggi numerosi ricercatori hanno impegnato le loro energie alla ricerca di una forma condivisa di comunicazione interspecifica semplificata non verbale che permettesse di dedurre gli stati cognitivi nei riguardi delle specie non umane. A livello di bibliografico si ricordano gli studi dei coniugi Allen e Beatrix Gardner sulla scimpanzé Washoe (Science, 1969), quell dei coniugi Premark su Sarah, (trad. it., Perché gli scimpanzé possono leggere, Armando, 1978) e della psicologa Francine Patterson con Koko (trad. it. L’educazione di Koko, Mondatori, 1984) o quelli di Irene Pappenbeg con il pappagallo cinerino ( Psittacus erithacus) Alex con vastissima bibliografia presente sul sito internet wwwalex.com
[29]Da tali immediate interazioni , tra di noi e con gli animali, sono andate sviluppandosi - non fedi, supposizioni e congetture della mente - ma i nostri autentici concetti di pensiero, sentimento, interazione, credenza, dubbio e così via; R. Gaita, op. cit.; p. 72
[30] Basti pensare a quei frequenti atti comportamentale del paziente (ad es. uno slancio emotivo non controllato) poco graditi dal pet, anche in quei soggetti più temprati ed educati. In questi casi se la pulsione del paziente, evento a sé incontrollabile, tenderebbe ad esempio in un slancio affettivo ad appropriarsi del pet, stringendolo a sé e manipolandolo in modo sprovveduto oltre che scorretto, ci si può aspettare da parte del pet un irrigidimento o anche la tendenza ad allontanarsi. Questa immagine che abbastanza frequentemente viene a verificarsi nei Laboratori di PT è spesso l’occasione migliore da parte dell’operatore per educare ad una corretta emozione fatta di attenzione e di reciproco rispetto e non di possesso.
[31] Mi sembra opportuno chiarire il concetto di emozione sottoforma di definizione condivisa partendo dal pensiero di Antonio Damasio: Le emozione propriamente dette rappresentano quel complesso di risposte chimiche e neurali automaticamente prodotte da un cervello quando rileva uno stimolo che determinano specifici repertori di azioni a cui si aggiungono repertori frutto di una vita di esperienze. Il risultato immediato di tali risposte è una temporanea modificazione nello stato del corpo il cui risultato ultimo è la collocazione dell’organismo in un contesto adatto alla sopravvivenza e al benessere. Elaborazione sintetica personale tratta da Alla ricerca di Spinoza, A. Damasio, Adelphi, 2003 .
[32] Le emozioni che fanno crescere; U. Marziani e R Schiralla,Mondatori, Milano; 2007, p. 12
[33] A. Damasio, op. cit. , p. 59

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