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Napoli, via Girolamo Santacroce 15

Anche gli animali pregano, il libro di Gianfranco Nicora. Recensione di Michelangelo Nasca

 

Un compendio di teologia degli animali e uno studio biblico accurato per restituire alle creature che Dio pone accanto agli uomini una collocazione antropologica e religiosa migliore. Sono questi i presupposti che spingono Gianfranco Nicora – docente di Giudaismo e Antico Testamento in vari atenei italiani – a rivisitare la storia di alcuni personaggi biblici della cultura cristiana, per concentrare l’attenzione verso tutti gli esseri viventi nei quali vi è alito di vita, e che Dio ha donato con la creazione.

«Anche gli animali pregano», edito dal Messaggero di Padova, «vuole essere – dichiara l’autore – un umile omaggio a Paolo De Benedetti (docente di Giudaismo e Teologia), che ha riscoperto l’amore per i nostri animali, posti al nostro fianco da Dio come fratelli minori».

De Benedetti stesso, nel curare la prefazione del libro, aveva salutato con entusiasmo l’enciclica di Papa Francesco, «Laudato si’»; essa – precisava – «ha riportato il creato e l’ambiente al centro della riflessione della teologia contemporanea».

L’autore apre il primo capitolo soffermandosi sull’immagine biblica di Tobia, che parte per un lungo viaggio accompagnato da un angelo e dal suo cane. «Nel VI secolo a.C. – precisa Nicora – la cultura dell’epoca considerava il cane come essere immondo. Qui il cane viene presentato per la prima volta come amico e compagno».

L’analisi teologica prosegue con la descrizione dei punti salienti della Genesi, quelli che riguardano in modo specifico la creazione del mondo, degli animali e dell’uomo, per passare poi a quello che l’autore definisce il primo disastro ecologico: il diluvio universale.

Particolarmente delicata è la riflessione del settimo capitolo del libro edito dal Messaggero di Padova, che riguarda Cristo e l’armonia del creato. Nella sua predicazione «Gesù – afferma l’autore – spesso ricorre alle immagini degli animali per parlarci della mitezza delle greggi, delle pecore, degli agnelli, degli asini, della dolce compassione del cane, che lenisce le piaghe del povero, della semplicità della colomba e dell’astuzia del serpente. Particolarmente significativo è l’invito di Cristo a vedere negli uccelli del cielo e nei fiori del campo la bontà e la bellezza del Padre, che li nutre e li riveste di splendore».

Le considerazioni dettagliate nella premessa del libro chiariscono gli intendimenti redazionali dell’autore. «Parlare di teologia degli animali – afferma Nicora – può sembrare strano»; inoltre «ogni ricerca teologica deve tenere conto dei dati della scienza per una corretta lettura della Bibbia e dei dati della fede “decodificata”, per una riflessione intelligente. Anche per una corretta teologia degli animali e del creato occorre utilizzare a fondo, in tutti i suoi elementi e apporti positivi, la “cultura” nella quale siamo immersi oggi».

Il testo di Nicora offre numerosi spunti di riflessione, talvolta provocatori e innovativi rispetto a un intramontabile passato. L’invito di papa Francesco, tuttavia, proprio nella «Laudato si’» è estremamente chiaro: «Noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale. […] Questo non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliere all’essere umano quel valore peculiare che implica allo stesso tempo una tremenda responsabilità. E nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità. Queste concezioni finirebbero per creare nuovi squilibri nel tentativo di fuggire dalla realtà che ci interpella».

Gianfranco Nicora, «Anche gli animali pregano», Edizioni Messaggero Padova (2018), pp. 133

L’importanza del cibo nella questione ambientale
di Paolo Treglia
CEDA ONLUS CAMPANIA

Una delle tante versioni della Marsigliese cantava “E’ il momento in cui la natura riprende i suoi diritti…”; la natura, dunque, nella sua globalità, in una “fraternité” universale: l’eredità di Voltaire, acceso sostenitore dei diritti della natura, era ancora viva. Naturalmente quei versi furono espunti, ma sono rimasti in attesa di tempi migliori: i tempi della storia e della coscienza. Le attuali emergenze ambientali, la cui portata purtroppo è planetaria, obbligano l’uomo ad interrogarsi sul suo rapporto con la natura e, sempre più, rendono evidente che esso non può continuare in un atteggiamento predatorio o anche semplicemente utilitaristico, ma deve aprirsi a considerazioni di etica globale: un necessario passaggio, dunque, dall’antropocentrismo al biocentrismo.
La questione ecologica diventa prioritaria già a partire dalla seconda metà del Settecento, e in particolare in Inghilterra, dove la Rivoluzione Industriale modificherà il rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale. L’ottimismo manifestato dalle classi produttive trovò l’opposizione degli intellettuali e artisti dell’epoca che furono tra i primi a cogliere in questo processo di industrializzazione una forma di degrado ambientale e morale, provocato dalle attività delle fabbriche e dalle condizioni miserabili in cui vivevano e lavoravano le masse operaie. Non è casuale che il motivo dell’inquinamento irrompa nella letteratura del paese che ha dato inizio alla rivoluzione industriale e ne ha patito gli effetti in modo più devastante.
Charles Dickens ha dedicato ai problemi della città industriale moderna un intero romanzo, "Tempi difficili" (1854). Famosi sono i versi di "Terra desolata" (1922) di Thomas Stearns Eliot, che offrono una visione spettrale di Londra, avvolta nella nebbia mista a fumo. Il problema dell’inquinamento inizia a gravare sulle coscienze italiane nel periodo del cosiddetto miracolo economico, alla fine degli anni Cinquanta, quando il paese conosce una forte crescita della produzione industriale. Italo Calvino dedica al tema dell’inquinamento atmosferico un lungo racconto intitolato £La nuvola di smog" (1958) e, in anni più recenti nel romanzo Due di due (1989) di Andrea De Carlo. Nella seconda metà dell’Ottocento politici, intellettuali e scienziati iniziarono a maturare la consapevolezza che l’intervento aggressivo dell’uomo sulla natura per finalità economiche sarebbe stato catastrofico per l’ambiente. Pioniere fu George Perkins Marsh, diplomatico ed erudito filologo che, nel 1864, pubblicò il volume “Man and Nature”in cui metteva in evidenza l’impatto negativo delle trasformazioni antropiche, ma proponeva rimedi per il recupero dei territori compromessi,a sottolineare che la civiltà umana possa modificare l’ambiente ma deve farlo in modo responsabile e non distruttivo. Conscio dell’impatto devastante che l’antropizzazione sempre più massiccia provocava sull’ambiente, Leopold sviluppò un’etica ecologista intesa a promuovere il concetto di natura quale “comunità biotica” a cui gli stessi esseri umani appartengono (1). Questa idea mette l’accento sulle responsabilità e i doveri della nostra specie nei confronti dell’intera ‘collettività biologica’ e avrà un ruolo importante per la formazione di una coscienza ecologista popolare che, negli anni Sessanta, porterà alla nascita dei movimenti ambientalisti di massa. A cominciare dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti e, più in generale, tutto l’Occidente capitalista, sperimentarono una crescita vertiginosa dell’economia, sostenuta dall’incremento demografico e con una conseguente richiesta sempre più pressante di prodotti di consumo, nuovi alloggi e infrastrutture, che determinò un deterioramento vistoso dell’ambiente. Lo sfruttamento delle risorse energetiche e delle fonti di materie prime, lo sviluppo di agricoltura e zootecnia iperintensive, la disseminazione incontrollata di rifiuti industriali e urbani divennero i segni pervasivi di uno “squilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica” che progressivamente portò al degrado sia lo spazio urbano sia quello rurale, facendo ricadere le conseguenze sulle classi meno abbienti. Ad accentuare la percezione di un’incombente catastrofe ecologica contribuirono la minaccia della contaminazione nucleare della Guerra Fredda, nonché l’uso massiccio e disinvolto di pesticidi e altri prodotti tossici di sintesi. A portare all’attenzione dell’opinione pubblica americana quest’ultimo problema fu la pubblicazione nel 1962 di “Silent Spring” della biologa e zoologa Rachel Louise Carson, un testo divulgativo e di denuncia frutto di anni di ricerche e osservazioni sulle conseguenze tossiche nella catena alimentare di prodotti persistenti quali DDT, aldrin, dieldrin e eptacloro. Fu il clima politico e intellettuale degli anni Sessanta, con la nascita dei movimenti a favore dei diritti civili e contro la guerra del Vietnam (che fu anche guerra chimica alla natura, con l’impiego massiccio di defolianti), a fornire, come mette in rilievo lo storico Adam Rome, quel terreno ideale all’attivismo ecologista che spinse a includere nei programmi della controcultura e della New Left le tematiche ambientali (2). Il primo “Earth Day” fu istituito e celebrato nel 1970, non solo con il proposito di ripulire terre e fiumi dalle immondizie o di fermare l’inquinamento ma, più radicalmente, di trasformare la società. Queste e altre ragioni – in particolare l’immutata concezione antropocentrica e utilitarista nei confronti della natura – hanno portato allo sviluppo nei primi anni Settanta di nuove e più radicali “ecofilosofie”, quali l’ecofemminismo. 

Una corrente ecologista altrettanto radicale e articolata è la “deep ecology”, movimento che nasce nei primi anni Settanta. I principi fondamentali dell’”ecologia profonda” sono in buona misura riconducibili agli scritti del filosofo norvegese Arne Naess, che in un breve articolo del 1973 coniò l’espressione (3). Ispirato tra gli altri da Spinoza, Gandhi e Aldo Leopold con la sua “etica della terra”, Naess concepisce la “deep ecology” quale “ecosofia”, ovvero una filosofia ecocentrica secondo cui “il diritto a vivere di tutte le forme [biologiche] è un diritto universale che non può essere quantificato. Nessuna specie vivente ha un diritto maggiore di altre a vivere e svilupparsi”.
Come si è visto, durante l’ultimo secolo il pensiero e i movimenti ecologisti hanno generato un dibattito molto intenso e ampio che, rispondendo alla crescente crisi ambientale prodotta dalla civiltà industriale, si è riflesso in modo significativo sulla cultura contemporanea. Era il 1978 quando sulla pubblicazione accademica “Iowa Review” apparve un saggio di William Rueckert intitolato “Literature and Ecology: An Experiment in Ecocriticism”. L’autore giustifica la sua proposta di una critica letteraria in chiave ecologica appellandosi a due istanze. Da un lato, la volontà di restituire al lavoro dello studioso di letteratura una funzione che egli ritiene sia divenuta sempre meno incisiva sul piano sociale, dall’altro, l’urgenza di affrontare le tematiche ambientali in letteratura per superare l’antropocentrismo della cultura occidentale, restia a comprendere e riconoscere la sua dipendenza dalla natura, sottoposta, così come altri soggetti ritenuti ‘inferiori’, a un regime di supremazia materiale e ideologica. Nel 1971, il beato Papa Paolo VI si riferì alla problematica ecologica, affermando che “ogni aspirazione a curare e migliorare il mondo richiede di cambiare profondamente gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società” (4) .Nella sua Enciclica “LaudatoSi”, Papa Francesco espone tutte le problematiche ambientali, dall’inquinamento che colpisce quotidianamente le persone, causato dal “trasporto, dai fumi dell’industria, dalle discariche di sostanze che contribuiscono all’acidificazione del suolo e dell’acqua, da fertilizzanti, insetticidi, fungicidi, diserbanti e pesticidi tossici in generale”; a quello prodotto dai rifiuti, compresi quelli pericolosi presenti in diversi ambienti (5). Papa Francesco mette in evidenza che si producono“centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, molti dei quali non biodegradabili: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi”. Procede riferendosi ai cambiamenti climatici e alle “gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, che costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità”. Sottolinea la disparità economica e sociale perché “gli impatti più pesanti probabilmente ricadranno nei prossimi decenni sui Paesi in via di sviluppo”.
E’ chiaro dunque che ogni attività umana ha un impatto sull'ambiente. Finora però tra tutti i comportamenti umani le abitudini alimentari non sono state menzionate. Eppure, a tavola quando mangiamo possiamo fare la differenza per le piante, gli animali e gli altri esseri umani.
Dagli studi scientifici sul "consumo sostenibile" è noto che sono 3 i settori in cui il singolo cittadino ha potere immediato di intervento: il cibo che consuma, l'energia che usa in casa, i mezzi di trasporto che sceglie. Tra i tre, la scelta del cibo è quella più importante sia perché, in termini quantitativi, ha il maggior impatto, sia perché ha il maggior livello di scelta personale dal momento che non dipende dalle normative o da altri fattori, quali la disponibilità di mezzi pubblici per la scelta sugli spostamenti o di fonti di energia alternative, per quanto riguarda la scelta su come riscaldarsi. La direzione da prendere sarebbe quella di uno spostamento del nostro menu verso l'utilizzo di ingredienti vegetali e una diminuzione di quelli di origine animale, come carne, pesce, latte e latticini, uova. Naturalmente più si diminuisce meglio è, quindi l'ottimo è un menu 100% vegetale. Continuare a consumare cibo proveniente da allevamenti intensivi e soprattutto facendone un abuso, vuol dire distruggere il pianeta, avallare la sofferenza degli animali e essere indifferente alla fame nel mondo. Questo accade perché l'allevamento di animali (e la pesca in mare, così come anche l'acquacoltura) è uno dei settori a maggior impatto ambientale, sia come consumo di territorio, di acqua, di energia, che come effetti su disboscamento, desertificazione, emissioni di gas a effetto serra e cambiamenti climatici. Quella della produzione alimentare è a tutti gli effetti un'industria come ogni altra: utilizza risorse e inquina, consuma risorse, e lo fa in maniera molto inefficiente, dato che, in media, per ottenere 1 kg di carne è necessario nutrire l'animale con 15 kg di vegetali, che sono per lo più appositamente coltivati (6). La produzione di carne, pesce uova e latticini contribuisce per circa il 57% alle emissioni di vari inquinanti (nel settore delle produzioni alimentari), pur costituendo solo il 18% delle calorie globali della dieta. A parità di calorie, le emissioni di inquinanti per i cibi animali sono pari a 6 volte tanto quelle causate dai cibi vegetali, il che significa che sostituendo i cibi animali con quelli vegetali si risparmierebbe l'83% di emissioni inquinanti, una proporzione enorme (7). Dato che, secondo le statistiche della FAO, metà dei cereali e il 90% della soia prodotti nel mondo sono usati come mangimi per animali, e che queste sostanze chimiche sono per la maggior parte usate nelle monocolture per la produzione di mangimi animali, è chiaro che la maggior responsabilità per questo enorme uso di sostanze chimiche sta proprio nella pratica dell'allevamento di animali per l'alimentazione umana. Ogni anno vengono somministrate 11.000 tonnellate di antibiotici agli animali, negli USA, che ammontano al 70% del totale di antibiotici prodotti ogni anno, e a otto volte la quantità usata per curare le persone (8). Quasi tutte le terre fertili sono usate per coltivare foraggi destinati agli animali e per creare queste coltivazioni si distruggono le foreste in cui vivono specie animali che sono importanti per l’eco-sistema. C’è sempre bisogno di trovare terre nuove e fertili perché dopo un po’ di anni quelle coltivate non sono più produttive. Inoltre, per avere più cibo per gli animali si usano pesticidi, fertilizzanti e altre sostanze dannose per l’uomo, che circolano nell’aria causando allergie. Oggigiorno non esistono terreni sufficienti su cui allevare animali o coltivare i loro mangimi: per questo si disboscano le foreste pluviali. In dieci anni, l'Amazzonia brasiliana ha perso un'area di foresta pari a due volte il Portogallo, diventata pascolo per bovini. Il 70% dei terreni adibiti a pascolo in Africa sono in via di desertificazione. Vaste aree delle Grandi Pianure del "West" americano si stanno trasformando in zone senza vita vegetale e animale. A parità di calorie, il consumo di terreni per la produzione di cibo animale è 22.3 volte maggiore di quello necessario per la produzione di vegetali. Nella foresta Amazzonica, l'88% della terra deforestata è stata usata come pascolo e lo stesso è avvenuto per il 70 % delle zone disboscate in Costa Rica e Panama. Una piccola parte (il 10%) dell'area deforestata è usata per la coltivazione della soia, usata come mangime per animali negli allevamenti intensivi, il resto è riservato al pascolo (9). Secondo i dati del CIFOR (Centro per la Ricerca Forestale Internazionale), tra il 1997 e il 2003 il volume dell'esportazione di bovini dal Brasile è aumentato di oltre cinque volte; l'80% di questo incremento di produzione ha avuto luogo nella foresta Amazzonica (10). Anche in alcune zone semiaride dell'Africa, lo sfruttamento dei suoli per l'allevamento a pascolo (i cui prodotti vengono esportati nei paesi ricchi) porta alla desertificazione. Le Nazioni Unite stimano che il 70% dei terreni ora adibiti a pascolo siano in via di desertificazione. Fiumi diventano ruscelli o si prosciugano completamente. Al posto della vegetazione e di un ambiente abitato da animali selvatici di ogni specie, oggi troviamo distese di fango senza vita. L'allevamento estensivo di bovini è stato, e continua a essere, la causa di tutto questo. Il settore dell'allevamento è tra i maggiori produttori di gas serra derivanti da attività umana: tra il 18% e il 51%, più dell'intero settore dei trasporti (13,5%). Un menu 100% vegetale ha un impatto 8 volte inferiore rispetto a uno onnivoro e 4 volte inferiore rispetto a uno latto-ovo-vegetariano sull'emissione di gas serra. Negli USA, in Europa e in altre aree ad elevato consumo di carne, il passaggio a una dieta 100% vegetale farebbe risparmiare dal 61% al 73% di emissioni di gas serra e altri inquinanti (11). Contribuiscono all'effetto serra anche le deiezioni degli animali d’allevamento, sia terrestri che acquatici (allevamento di pesci), oltre che il processo digestivo dei bovini, che causa emissioni di metano e altri gas. Ben lungi dall'essere utili per fertilizzare il suolo, sono una pericolosa fonte di inquinamento di acque e terreni. Quando gli escrementi animali filtrano nei corsi d'acqua, l'azoto e fosforo in eccesso in essi contenuto rovina la qualità dell'acqua e danneggia gli ecosistemi acquatici e le zone umide. Circa il 70-80% dell'azoto fornito ai bovini, suini e alle galline ovaiole mediante l'alimentazione, e il 60% di quello dato ai polli "da carne" viene eliminato nelle feci e nell'urina. Oggi, le deiezioni in eccesso vengono sparse sul terreno, mettendo in pericolo la salubrità delle acque e i pesci che ci vivono. I depositi di deiezioni sono spesso delle enormi pozze maleodoranti e hanno già causato disastri ambientali in molti stati degli USA, spandendo batteri infettivi nei fiumi circostanti e filtrando fino alle falde acquifere utilizzate come acqua potabile (12). Oltre a ciò vi è la questione dell’enorme consumo di acqua che continua a scarseggiare. Per la coltivazione di ingredienti vegetali servono da 500 a 2000 litri d'acqua per ogni kg di prodotto. Invece per carne, latte e uova, serve una quantità d'acqua variabile a seconda dei tipi di coltivazione dei mangimi con cui si nutrono gli animali, ma mediamente si parla di 10 volte tanto rispetto ai cibi vegetali. Per quanto riguarda il consumo di energia, i prodotti animali ne richiedono mediamente 11 volte di più rispetto ai vegetali. Per questo una dieta 100% vegetale richiede molta meno acqua ed energia di una onnivora. Bisogna infatti conteggiare tutta l'acqua usata per le coltivazioni di mangimi, quella che gli animali bevono, quella usata per la pulizia degli allevamenti e dei macelli. L'agricoltura, che è per la maggior parte dedicata alla produzione di mangime per gli animali, consuma più acqua di qualsiasi altra attività produttiva: il 70% dell'acqua usata in totale nel mondo. Gli studi di impatto ambientale che valutano il consumo d'acqua non forniscono risultati sempre uguali tra loro, in quanto essi dipendono da diverse variabili: tipo di mangime, di suolo, di irrigazione, di clima, ecc. Il Pacific Institute afferma che sono necessari da 15.000 a oltre 70.000 litri d'acqua per ottenere 1 Kg di manzo, e da 500 a 2000 litri per un kg di vegetali da usare direttamente per il consumo umano (ortaggi, cereali, legumi, inclusa la soia) (13). Le ricerche - ampiamente citate in molti articoli scientifici da molti anni - del prof. Pimentel riportano valori ancora più alti: per 1 Kg di manzo da allevamento intensivo 100.000 litri d'acqua e 200.000 per l'allevamento a pascolo, mentre confermano i valori di 500-2000 litri per i vegetali (2000 litri per 1 Kg di soia, 1910 per il riso, 1400 per il mais, 900 per il grano, 500 per le patate) (14). E' dunque vasta l'evidenza scientifica che dimostra che la produzione di cibo animale (carne, pesce, latticini e uova) per il consumo umano richiede da 3 a 50 volte la quantità d'acqua necessaria alla produzione di cibo vegetale. Gli animali vivono in ambienti costipati, senza possibilità di muoversi. Non tutti possono comprare carne e prodotti di origine animale perché costano troppo. Se invece di utilizzare i vegetali per sfamare gli animali, li mangiassimo direttamente noi, avremmo più cibo a minor costo. Diminuendo il valore di mercato c’è una maggiore accessibilità all’offerta. La pesca industriale degli ultimi decenni ha devastato gli oceani: il numero di pesci è in diminuzione continua e rapida e la situazione potrebbe collassare entro 50 anni, se si continua in questo modo. Nonostante le tecniche di pesca sempre più aggressive, che non lasciano scampo a nessuna specie, la quantità del pescato è in declino dalla fine degli anni ‘80 e il numero di zone di pesca arrivate al collasso è cresciuto esponenzialmente dal 1950 ad oggi. Già oggi la domanda da parte dei paesi ricchi, sommata a quella dei paesi in via di sviluppo come la Cina, non può essere soddisfatta dalle zone di pesca esistenti nel mondo. Eppure, si invitano le persone a consumare ancora più pesce, come se gli oceani fossero una riserva inesauribile. Se venisse in mente di "risolvere" il problema delle zone di pesca sovrasfruttate con la diffusione dell'acquacoltura (allevamenti di pesci e altri animali acquatici), si andrebbe incontro a un grave errore: l'acquacoltura peggiora il problema anziché risolverlo. Nei paesi industrializzati i pesci allevati sono pesci carnivori, cioè che mangiano altri pesci (ad esempio salmone, tonno, spigole) e quindi è necessario pescarne altri per nutrire quelli allevati, con uno spreco enorme: servono da 2,5 a 5 kg di pesce pescato per "produrre" 1 kg di pesce allevato. E' chiaro come il "rimedio" sia peggiore del male.
Preservare l'ambiente naturale significa fare il nostro dovere verso le future generazioni, sia di esseri umani che di animali selvatici. Per questo, ciascuno di noi si deve impegnare, nelle sue scelte quotidiane, a ridurre il più possibile tale impatto, per non consegnare a chi viene dopo un pianeta irrimediabilmente "rovinato" e carente di risorse essenziali, come acqua e terreni fertili. E' questo, nella pratica, il concetto di "consumo sostenibile", di cui ciascuno di noi è responsabile in prima persona. Un miliardo di persone nel mondo sono denutrite. Al contempo, un altro miliardo consumano carne in maniera smodata. È risaputo che il problema della malnutrizione scaturisce da un iniquo accesso alle risorse alimentari, piuttosto che da una insufficiente produzione mondiale di cibo; ma troppi sono gli sprechi e troppo è usato come mangime per animali anziché per nutrire direttamente le persone che ne hanno bisogno. Il problema non è causato soltanto dallo spreco dovuto allo smodato consumo di carne, è sicuramente più ampio, ma questo specifico spreco vi contribuisce in maniera significativa. Secondo una recente stima, sono 76 miliardi gli animali d'allevamento uccisi ogni anno nei macelli nel mondo, e un numero molto maggiore di pesci viene ucciso dall'industria della pesca.Per quanto riguarda gli animali selvatici, il tasso di estinzione è oggi 1000 volte più alto di quello che si avrebbe in natura senza le attività umane. Salvaguardare la natura è strettamente necessario alla vita: la nostra, come esseri umani, ma ancora di più quella degli animali selvatici che vivono in natura.La natura è la loro casa e distruggerla vuol dire distruggere anche la loro esistenza, di esseri non solo viventi ma anche senzienti. Se amiamo o anche solo rispettiamo la vita degli animali selvatici, ricordiamoci anche di questo aspetto.Da ultimo, ma non certo per importanza, ci sono anche altri animali per cui possiamo fare la differenza tra la vita e la morte, scegliendo per i nostri pasti un eco-menù: quelli d'allevamento, la cui esistenza è fatta di sofferenze quotidiane e di morte violenta finale, al macello.Questi animali sono invece esseri senzienti, capaci di provare sensazioni, emozioni, sentimenti, come il senso comune ci suggerisce, l'evidenza ci dimostra, e i tanti studi di etologia oggi disponibili confermano. I primi a trarre vantaggio dalla nostra scelta di evitare i prodotti derivanti dalla loro sofferenza, sono loro: meno domanda ci sarà, meno animali verranno messi al modo per seguire un destino fatto solo di dolore. E' solo la diminuzione dei consumi (meglio ancora, l'azzeramento) che fa davvero la differenza. Allora affrontiamo il tema ambientale secondo una concezione di solidarietà globale in base alla quale è possibile rispettare l’ambiente, gli uomini e gli animali. Ci muoviamo in un terreno in cui tanti pionieri hanno piantato i semi (da Plutarco, Voltaire, Bentham, Ghandi, per citarne solo alcuni) e che a noi tocca il dovere morale di ritrovare quelle tracce e procedere nella riflessione, senza paura di dover magari riconoscere di aver sbagliato percorso e dover ricominciare tutto daccapo. Riesaminare le tradizioni di pensiero dominanti nella nostra cultura, sgombrando il campo da quegli equivoci che alimentano opposti fondamentalismi individuabili sia nell’antropocentrismo forte, che postula una netta disgiunzione tra uomo e natura, che nel biocentrismo il quale, all’inverso, rifiuta l’idea di una specificità umana. Per fare tutto questo basta solo cambiare il punto di vista e riflettere su quanto già conosciamo mettendo in luce dove abbiamo sbagliato e con chi, in modo da renderci conto degli errori, per non commetterli mai più.

1) A Sand County Almanac AND SKETCHES HERE AND THERE BY Aldo Leopold Illustrated by CHARLES W. SCHWARTZ Introduction by RoBERT FINCH OXFORD UNIVERSITY PRESS New York Oxford, 1949
2) Corti Erminio - Natura, ecologismo e studi letterari: una ricognizione introduttiva, 2013
3) The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movement, pubblicato su Inquiry n. 16 del 1973
4) N. 21, Lettera Apostolica ‘Octogesima Adveniens’, in occasione dell’ 80^ anniversario dell’enciclica leonina ‘Rerum Novarum’.
5) lettera enciclica laudato si’ del santo padre francesco sulla cura della casa comune libreria editrice vaticana © copyright 2015 - archivio ultreya, milano
6) https://www.mioecomenu.it/
7) ibidem
8) Union of Concerned Scientists, 70 Percent of All Antibiotics Given to Healthy Livestock
9) https://www.mioecomenu.it/
10) Kaimowitz D., Mertens B., Wunder S., Pacheco P. - Hamburger connection Fuels Amazon Destruction, Center for International Forestry Research (CIFOR), april 2003
11) www.mioecomenu.it
12) Natural Resource Defense Council, "America's Animal Factories How States Fail to Prevent Pollution from Livestock Waste", NRDC Report, 1999
13) Gleick P, Cooley H, Cohen M, Morikawa M, Morrison J, Palaniappan M (2010) The World's Water 2008-2009. Pacific Institute, Island Press
14) Pimentel D., Houser J., Preiss E., White O., "Water Resources: Agriculture, the Environment, and Society", Bioscience, February 1997 Vol. 47 No. 2.

Perché siamo lontani dal concetto di tutela degli animali

Di Paolo Treglia – CEDA (comitato europeo difesa animali)

ONLUS Sezione Campania

Sul BURC n. 21 del 15 aprile 2019 è stata pubblicata la legge regionale della Campania n. 3 dell’11 aprile 2019 contenente le “Disposizioni volte a promuovere e a tutelare il rispetto ed il benessere degli animali d’affezione e a prevenire il randagismo”. Quanto regolamentato dalla Regione deve attenersi a quanto stabilito dalla Legge Quadro del 14 agosto 1991, la numero 281 “Legge quadro in materia di tutela degli animali d'affezione e prevenzione del randagismo”. Questa legge ha il merito di aver posto l’Italia tra i primi paesi ad aver dimostrato una sentita coscienza verso gli animali perché ha abrogato la soppressione dei randagi nei canili, dando a questi ultimi la possibilità di vivere in strutture di accoglienza e di essere adottati dalle famiglie. Unisce però due aspetti diversi. Fa riferimento, infatti, sia alla tutela degli animali siaalla prevenzione del randagismo che, invece, attiene alla tutela della salute pubblica e dell’ambiente.

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