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Cittadini più consapevoli e informati per superare l'emergenza, prevenire i disastri e imparare a rispettare i fenomeni naturali

La dr.ssa Silvia Peppoloni, ricercatrice dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, svolge la sua attività scientifica nell’ambito delle pericolosità e dei rischi geologici, come quelli associati a terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche, frane o alluvioni. Inoltre, si occupa di aspetti educativi e divulgativi delle Scienze della Terra. Ma soprattutto è leader internazionale di geoetica, disciplina che studia le ricadute etiche e sociali della ricerca e della pratica delle scienze che studiano la Terra, fornendo principi, linee guida e criteri per un corretto uso degli strumenti scientifici per gestire il territorio. Nel suo libro “Convivere con i rischi naturali” (Il Mulino, 2014), la tesi è che i fenomeni naturali, anche nei loro aspetti più temibili, ci ricordano che la Terra è un pianeta vivo. In vista del suo intervento al Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure, 29 e 30 agosto 2019) raccogliamo le opinioni espresse da chi guarda la natura e i suoi fenomeni dal punto di vista scientifico.

Possiamo dire, con una battuta, che se la Terra è un pianeta vivo allora il territorio italiano è vivissimo... se consideriamo la frequenza dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche. Secondo lei abbiamo posto una adeguata attenzione e cura nella corretta formazione della popolazione, a partire dalla scuola? Cosa occorrerebbe fare?

Certamente l’Italia è un paese geologicamente giovane e per questo caratterizzato da processi tettonici ancora vivaci, come testimoniano l’attività sismica e vulcanica diffuse su gran parte della penisola. Dunque, un ambiente fisico difficile, al quale tuttavia si è colpevolmente aggiunta l’incuria dell’uomo e la disattenzione della politica. Di fatto l’Italia non è molto sollecita nella definizione di una strategia efficace e duratura di riduzione dei rischi naturali, una strategia che si fondi in primo luogo sull’educazione nelle scuole e sull’informazione alla popolazione attraverso un approccio partecipativo, e che inoltre preveda in modo sistematico esercitazioni di emergenza, pianificazione d’interventi sugli edifici esistenti, controllo rigoroso e sistematico dell’applicazione delle normative edilizie (che esistono), e molte altre attività, che nel loro insieme chiamiamo prevenzione. Queste attività non possono eliminare il rischio, che non è azzerabile, ma certamente possono ridurlo. Al momento, da semplici cittadini, percepiamo la prevenzione essenzialmente come una serie di luoghi comuni, puntualmente rispolverati dopo ogni tragedia. E cosa ancor più grave, non abbiamo un’adeguata percezione del rischio che corriamo in determinate situazioni. Episodi in cui persone perdono la vita per disattenzione, superficialità, sottovalutazione dei rischi incombenti dimostrano che in certi momenti non ci si rende proprio conto che si sta mettendo a repentaglio la propria vita e quella di chi dovrà tentare di salvarci. E’ evidente che le persone non sono stupide, ma piuttosto poco informate e di conseguenza inconsapevoli e poco responsabilizzate. Purtroppo ad oggi non siamo provvisti delle conoscenze di base sulla pericolosità dei fenomeni naturali, nonostante non manchino iniziative a carattere nazionale in questa direzione, che però non hanno l’impatto desiderato e probabilmente non sono efficaci come quelle portate avanti in altri paesi (ad esempio in Giappone, Cile e Colombia, solo per citarne alcuni). Queste attività dovrebbero avere una diffusione capillare sul territorio ed essere regolarmente incluse nei programmi educativi. Investire maggiormente nella sicurezza individuale e sociale permette di acquisire quelle conoscenze che possono salvarci la vita in una situazione di pericolo e di emergenza, tra cui anche le più banali regole di buon senso. Questo nel nostro paese è ancora un obiettivo da raggiungere. Inoltre, la facilità con cui siamo soliti “perdere la memoria” degli eventi e dei disastri del passato alimenta la vulnerabilità della nostra società. Dopo un terremoto o un’eruzione vulcanica disastrosa bastano pochi anni per dimenticare. Il tempo diluisce la memoria dell’evento, allontana la paura confinandola nel passato e sfocandone i contorni. E mentre quel ricordo progressivamente si cancella, svanisce dalla nostra memoria anche la necessità di porre l’opportuna attenzione alle zone più rischiose del nostro territorio. La memoria, che è parte della conoscenza, è un elemento indispensabile per comprendere la reale pericolosità dei fenomeni, per caratterizzarne i rischi associati e per definire azioni che accrescano la nostra sicurezza in modo da evitare che quei disastri si ripetano. Senza entrare nel merito dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno degli attori sociali coinvolti in una situazione di pericolo o durante un’emergenza (scienziati, decisori politici, tecnici, giornalisti, ecc.), bisogna ammettere che spesso anche noi cittadini non ci attiviamo responsabilmente per comprendere meglio quello che sta avvenendo, lasciandoci influenzare dai vari opinionisti di turno se non addirittura da ciarlatani in cerca di visibilità. Invece dovremmo diventare più consapevoli delle possibilità che abbiamo di incidere sulla sicurezza individuale e sociale. Se da un lato tutti abbiamo il diritto di pretendere che lo Stato garantisca la nostra incolumità, dall’altro abbiamo il dovere di informarci di più e bene, rivolgendoci a fonti scientifiche certificate (università e istituti di ricerca). Solo in questo modo possiamo diventare più consapevoli del valore della prevenzione e dell’importanza di investire sulla nostra sicurezza. Questo atteggiamento avrebbe anche un importante significato politico, perché ci renderebbe più capaci di valutare l’operato di chi gestisce il nostro territorio.

Dunque, alla fragilità del nostro territorio e alla scarsa attenzione della politica, si aggiunge anche una carente cultura della prevenzione che non riesce a mettere radici profonde...
Assolutamente sì.
Al di là delle oggettive difficoltà a trovare le risorse economiche, a superare inefficienze burocratiche e una certa miopia delle nostre classi politiche, le ragioni profonde dell’inerzia del nostro paese a intraprendere in modo serio e responsabile un percorso politico di largo respiro, che abbia come obiettivo la difesa dell’incolumità dei cittadini, vanno cercate in una consolidata “abitudine” all’emergenza, quale modalità operativa per affrontare i rischi naturali.
Siamo sempre stati un popolo capace di grandi slanci di solidarietà nei momenti di emergenza. Al tempo stesso non riusciamo a comprendere fino in fondo l’importanza di affiancare alla capacità di gestire un’emergenza un’azione dagli effetti più sicuri, più duraturi come la prevenzione.
La prevenzione mostra i suoi effetti su scale temporali di medio e lungo periodo e richiede investimenti economici, cooperazione e coordinamento. Ma questo non basta: perché sia efficace, ha bisogno di una contemporanea azione sul piano culturale. Tale azione dovrebbe essere basata sull’individuazione di valori su cui fondare le azioni di prevenzione.
L’elemento cardine su cui, a mio avviso, è possibile costruire una vera cultura della prevenzione è il senso del territorio, inteso proprio come valore, valore fondante dell‘identità di una comunità umana. L’attenzione collettiva verso il territorio, verso le sue peculiarità artistiche, economiche, culturali, sociali, incluse le sue caratteristiche di pericolosità, può dare al nostro Paese una reale prospettiva di progresso in un’ottica di recupero identitario storico-naturalistico.
Gli eventi tragici che periodicamente interessano l’Italia indicano che per dare radici a una cultura della prevenzione c’è ancora molto da fare. L’assenza di una piena consapevolezza della fragilità e del valore del nostro territorio si traduce in incuria, degrado, abbandono e nella costante impreparazione della popolazione a fronteggiare non solo i più rari fenomeni estremi (ovvero gli eventi più intensi e meno probabili), ma anche gli eventi naturali più frequenti.
Dobbiamo comprendere che la prevenzione è questione che coinvolge allo stesso tempo l’intero corpo sociale e il singolo individuo, ognuno per la sua parte di responsabilità. Esistono aspetti di cui necessariamente lo Stato deve farsi carico, come per esempio educare:educare alla conoscenza del territorio, delle sue pericolosità, della sua vocazione. Lo Stato non può venir meno all’alto compito sociale di formare futuri cittadini più responsabili anche verso i propri territori. Ma esiste anche il dovere etico di ogni individuo di informarsi, di migliorare la propria preparazione e di predisporsi alla cooperazione.

La geoetica, questo nuova disciplina di cui lei è promotrice internazionale, può essere utile in questo senso?
La geoetica, nata inizialmente nell’ambito strettamente scientifico per analizzare le implicazioni etiche, sociali e culturali che accompagnano l’attività e la ricerca nelle scienze della Terra, ha ormai dimostrato le sue potenzialità educative e operative al di fuori del perimetro professionale, proponendo alla società una visione del rapporto tra uomo/natura che tenta di superarne la secolare dicotomia. La geoetica si sta rapidamente affermando come una nuova prospettiva culturale fondata sulla conoscenza scientifica del sistema Terra e come una modalità operativa che richiama ad un agente umano, responsabile delle modifiche indotte nel sistema Terra, in grado di orientare le sue scelte verso il rispetto delle dinamiche naturali e degli ecosistemi e la valorizzazione del territorio. In riferimento ai rischi naturali, la geoetica può fornirci le categorie corrette per discutere di prevenzione, richiamando scienziati, classi politiche e cittadinanza alle proprie responsabilità. In questo senso la geoetica riguarda tutti.

 

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