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Se l’embrione è una persona… Luisella Battaglia

Quali conseguenze ne discendono? Quale filosofia della nascita e della morte ne deriva?
Se l’embrione è una persona, innanzitutto, dovrebbe nascere. Da qui l’impegno per predisporre tutti quegli strumenti legislativi (es. adozione prenatale) che consentono all’embrione lo sviluppo pieno: il passaggio dalla vita potenziale alla vita attuale grazie alla nascita. Come si legge nel documento del CNB Identità e statuto dell’embrione umano, “Il Comitato ritiene che il rispetto della vita dell’embrione debba avere la priorità rispetto ad altri valori e che, pertanto, debbano essere definiti strumenti giuridici idonei a garantire agli embrioni in soprannumero una possibilità di vita e di sviluppo”.(Par.9.2).
Le principali riserve avanzate nei confronti dell’adozione prenatale riguardano, da un lato, il pericolo che potrebbe correre l’embrione nello scongelamento, dall’altro, le difficoltà pratiche relative all’individuazione delle coppie, alla selezione delle attitudini, l’assegnazione etc.
Quanto alle prime riserve, il criterio bioetico da impiegare dovrebbe essere, a mio parere, quello della proporzionalità che ci chiede di commisurare accuratamente rischi e benefici relativi a ogni operazione che compiamo. Il rischio dello scongelamento, ci si chiede, è proporzionato rispetto all’esito: la nascita? Ritengo si debba rispondere positivamente: sarebbe francamente paradossale se, per un eccesso di tutiorismo (il principio etico che ci invita alla massima prudenza nelle nostre azioni) preferissimo non far nascere, e quindi destinare a morte certa, embrioni vocati, per definizione, a nascere e a vivere. Ogni nascita comporta un rischio per chiunque e, quindi, anche per l’embrione. Ne consegue forse che sarebbe meglio non correre tale rischio? Se questa filosofia della nascita fosse conseguentemente sostenuta e praticata, la specie umana si autocondannerebbe all’estinzione per… prudenza!
Quanto alle seconde, esse sono, come s’è detto, di tipo pratico e sociale. Difficoltà certo non trascurabili ma, per quanto certo inedite sotto molti punti di vista, considerata la novità della fattispecie adozione prenatale, non tali da non poter essere adeguatamente affrontate con gli strumenti che la legge mette a nostra disposizione—comunque si tratta di difficoltà non superiori, in linea di principio, a quelle riscontrabili in ogni adozione.
Da parte mia vorrei sottolineare che l’adozione prenatale degli embrioni non costituirebbe in alcun modo una forma di maternità surrogata. Le differenze sono sostanziali. Nella maternità surrogata una donna (la madre portatrice) presta il suo utero a un’altra (la madre committente) per conto della quale porta a termine la gravidanza e a cui consegna il figlio una volta nato. La donna—si è più volte rilevato, nell’ambito di una letteratura specie femminista che ha messo in evidenza gli aspetti alienanti di mercificazione presenti nella maternità surrogata—è ridotta a strumento della volontà di un’altra donna, quasi mero contenitore.
“Non si può amare un embrione”, aveva scritto tempo fa Gianni Vattimo, intendendo che non si può amare un’idea, un progetto di vita ma solo un essere bell’e fatto. Sennonché il filosofo sembra ignorare che la maternità nasce prima nella testa e nel cuore, che il figlio è sempre un progetto e la madre ama teneramente quella che diventerà la sua creatura già nello stato embrionale, perché è un ‘tu’ per lei. Nell’adozione o meglio filiazione prenatale, la donna accoglie nel suo utero un embrione perché diventi suo figlio: il suo non è un utero in affitto ma un utero che accoglie. Si tratta di una maternità primaria. Mi sembra di grande significato etico il dono che una donna fa del suo corpo-persona a un embrione affinché si sviluppi dandogli non soltanto un luogo in cui crescere ma alimentandolo e scambiando con lui simbioticamente pensieri e sentimenti. Il legame col nascituro, a differenza dell’adozione postnatale, è profondo e sostanziale perché è anteriore alla nascita; è simbiotico giacché consente un profondo scambio fisico e spirituale tra madre e figlio e, infine, riesce a evitare quello che è uno dei drammi maggiori dell’adozione: il trauma del rifiuto primario, quello che subisce il bambino respinto dalla madre naturale. Si tratta di un vero e proprio lutto difficilmente rimarginabile i cui effetti, talora devastanti, si ripropongono, come ben sanno i genitori adottivi, nel corso della vita adulta. In tal senso l’adozione prenatale potrebbe costituire, anziché una forma spuria e anomala, una forma migliorata e perfezionata di adozione configurandosi come una vera e propria filiazione.
Il punto, a mio avviso, non è la difficoltà—problema meramente tecnico e come tale risolvibile—ma la volontà d’impegnarsi in una via che è certo nuova e pertanto non esente da problemi (sarebbe irresponsabile negarlo) ma che è tuttavia l’unica a garantire all’embrione persona il pieno possesso di quei diritti di cui si dichiara titolare.
Secondo una recente notizia—riportata dal ‘Corriere della Sera’ del 28 febbraio 2005—una donna spagnola di quarantuno anni sta portando in grembo da tre mesi il primo embrione adottato. Il feto che cresce dentro di lei è stato concepito grazie a un ovulo fecondato sette anni fa e congelato da allora in azoto liquido. Il concepimento è il risultato di un progetto della clinica Marques di Barcellona che ha trovato il consenso della Chiesa e che si propone l’adozione degli embrioni soprannumerari (circa trentamila nelle cliniche spagnole). Al programma aderiranno anche due coppie italiane dell’Associazione ‘Papa Giovanni XXIII’ presieduta da Don Oreste Benzi il quale ha dichiarato che le donne che partecipano al progetto lo fanno non per avere un bimbo loro ma per dare una vita agli embrioni che altrimenti si estinguerebbero.
Sul versante finale della vita—la morte—se l’embrione è persona, quali conseguenze ne discendono? Certamente la possibilità, condivisa da tutte le persone, di donare quelle parti di sé che non servono più. Nel caso delle persone adulte, questa possibilità si concreta nella donazione degli organi, donazione che è inserita in un quadro di precise garanzie concernenti sia l’accertamento della morte che la volontarietà del gesto.
Ora il problema è come accertare la morte dell’embrione perché, ovviamente, solo a questa condizione sarà possibile l’espianto e la donazione di cellule nel quadro di una coerente filosofia della vita.
La questione è tutt’altro che oziosa e irrilevante ma, sorprendentemente, non è stata affrontata con la dovuta serietà da parte di ricercatori, genetisti, embriologi etc. Diverse indicazioni provengono da questi ultimi: alcuni criteri sono stati suggeriti (come ad es. quello per cui la morte dell’embrione potrebbe coincidere con un’assenza del suo sviluppo osservata per ventiquattro ore) ma siamo appena all’inizio di un cammino che sarebbe interessante e importante percorrere. Per tutti.
Il criterio della morte cerebrale e la clausola del silenzio/assenso (ove non sia espressamente indicata una volontà contraria) sono le norme che nella nostra legislazione regolano una materia tanto delicata e complessa. Sappiamo che, tuttavia, allorché non sia possibile ottenere un consenso espresso (es. per la giovanissima età dei soggetti) esso è affidato a coloro a cui la legge assegna la responsabilità della vita e della cura del soggetto: i genitori (il cosiddetto ‘giudizio sostitutivo’). La ratio di questo affidamento non è, è persino superfluo sottolinearlo, quello della proprietà (in alcun modo i genitori possono considerarsi proprietari dei figli) ma quello della responsabilità. In base ad essa si presume che i genitori, per l’amore disinteressato che portano alla loro prole siano i più adatti a interpretarne interessi, desideri e volontà nella maniera più adeguata e con la più scrupolosa sollecitudine.
In tal senso ad essi è affidato l’onere della decisione (ove questa non fosse possibile, si ricorre, com’è noto, a un giudice).
La legge, dunque, già prevede questo caso di inabilità del soggetto minore a decidere e lo risolve delegando ai genitori questo arduo compito.
Ora, se l’embrione è persona, allo stesso modo di un soggetto minore inabile a decidere per sé, i suoi genitori—coloro che hanno contribuito a formarlo, fornendo il loro materiale genetico—dovrebbero essere investiti della responsabilità morale e giuridica di ogni decisione riguardo al suo destino. Non—è necessario sottolinearlo—in quanto proprietari di un bene ma in quanto responsabili del destino di un essere che essi hanno voluto ma che non ha avuto, per varie ragioni, la possibilità di una vita piena (si pensi al caso tragico dei neonati anencefalici).
Il problema dell’accertamento della morte è stato risolto con l’accettazione del criterio della morte cerebrale, su cui il consenso è generale, anche da parte della Chiesa che sostiene la pratica dei trapianti, sulla base dell’argomento—a mio avviso convincente e fondato—della solidarietà e della carità cristiana. Sappiamo che taluni—v. Ernesto Galli della Loggia—hanno sollevato obiezioni al riguardo rilevando una certa contraddizione tra un atteggiamento, a loro dire, troppo aperturista e poco ispirato al principio di precauzione, al termine della vita, e un atteggiamento più rigoroso e ispirato a un forte tutiorismo all’inizio della vita. L’argomento è suggestivo e degno di essere approfondito ma in entrambi i sensi, cioè non solo nella direzione indicata da della Loggia. Ovvero, se la Chiesa si ispira al termine della vita a un atteggiamento meno rigidamente ispirato al principio di precauzione (che forse le imporrebbe di avanzare riserve sul criterio della morte cerebrale), perché non trasferire tale atteggiamento—prudente ma non intransigente—anche all’inizio? Credo che su questo argomento il dibattito debba davvero aprirsi perché l’incoerenza segnalata da della Loggia andrebbe affrontata coraggiosamente e, se possibile, risolta (non necessariamente nel senso auspicato dallo storico, editorialista del ‘Corriere’).
Sarebbe auspicabile che il Ministero della Salute—che ha destinato quattrocentomila euro alla crioconservazione degli embrioni—riservasse una parte almeno di quei fondi a ricerche che si prefiggono non di mantenere gli embrioni indefinitamente nel limbo tecnologico della non vita ma di garantire loro un futuro di persone, quindi una nascita e una morte, con tutte le conseguenze bioetiche che questi eventi comportano per le persone.
Ma ciò che più conta, l’embrione mai sarà considerato come una cosa, un oggetto, mai sarà strumentalizzato. Prendere sul serio l’idea che l’embrione è una persona, significa, infatti, né affermarne l’intangibilità assoluta, che lo destina alla non vita in nome di un principio di sacralità o di assoluto rispetto che si autocontraddice, né affermarne l’assoluta disponibilità, che lo destina alla sperimentazione facendone una cavia, in nome di una visione della scienza dimentica dei valori etici che dovrebbero guidarla e animarla.
In questo quadro donare gli organi per una persona adulta è un’operazione che non pare sostanzialmente diversa dal donare le cellule per un embrione. Le stesse cautele, le stesse disposizioni—commisurata la diversità della situazione—dovrebbero valere in entrambi i casi. Ma ancora una volta non sono le difficoltà tecniche (accertamento della morte, problematicità dei criteri etc.) a rappresentare il maggior ostacolo. Esse sono, o saranno, ben presto superabili o, comunque, affrontabili sulla base di criteri e parametri che la comunità scientifica, una volta seriamente investita del problema, potrà e dovrà predisporre. E’, insisto, la volontà a trarre le conseguenze dalle premesse: la coerenza, intendo, per cui se un embrione è persona, deve poter nascere e quindi essere adottato e deve poter morire, e quindi avere la possibilità di donare gli organi.
Nascita e morte sono i termini irriducibili, i confini ineludibili di ogni vita. Anche per un embrione.

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