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Luca Savarino, Paolo Vineis

Chi ha Ragione?

Un dialogo tra un credente e un non-credente

PV - Caro Luca, mi pare che la attuale situazione di impasse creata dall’irrigidimento delle posizioni rispettivamente della Chiesa Cattolica e di una parte dei laici (ma, a mio parere, con grande responsabilità della prima) comprometta gravemente la possibilità di discutere approfonditamente temi che non sono piu’ eludibili. La Chiesa Cattolica sembra non rendersi conto che molti dei problemi che ci stanno di fronte sono assolutamente nuovi, legati allo sviluppo delle tecnologie ma anche a evoluzioni impreviste della sensibilità e degli orientamenti della società. Non è possibile affrontare queste novità in senso regressivo, ma al tempo stesso non è possibile non notare alcune derive – altrettanto gravi – nel campo laico. Vorrei proporti alcuni temi per la riflessione comune.
LS -. Caro Paolo, condivido le preoccupazioni che esprimi. Un buon punto di partenza per una discussione proficua credo sia la consapevolezza dell’impossibilità di pensare, oggi, quello che pensava Kant quando sosteneva – sulla scia, del resto, di una venerabile tradizione filosofica – che l’intelletto comune è perfettamente in grado di giungere alla perfezione in sede morale: «non c’è bisogno né di scienza né di filosofia per sapere ciò che si deve fare per essere onesti e buoni, e persino saggi e virtuosi». Oggi sappiamo che purtroppo le cose non sono così semplici: quando c’è di mezzo la tecnica, buon senso e buona volontà non sono sufficienti per esercitare efficacemente la propria responsabilità: senza conoscere non è possibile scegliere. Nella quasi totalità delle questioni bioetiche, l’informazione scientifica, sebbene ovviamente non esaurisca la scelta morale, ne è diventata però un contenuto essenziale.
A fronte di questa centralità della tecnica, tutte le etiche religiose, le chiese e i credenti, sono chiamate a confrontarsi con il fatto che la nostra epoca richiede una ridefinizione dei principi tradizionali. La Chiesa cattolica sembra incapace di andare al di là di una contrapposizione frontale alla modernità tecnologica e della riproposizione dell’idea tradizionale di un ordine naturale creato da Dio, che le scelte dell’uomo non devono violare. Personalmente, sono convinto che questo “realismo” cattolico sia discutibile in nome di una diversa interpretazione del senso dell’annuncio evangelico, ma non è questo il punto. Mi preme sottolineare piuttosto come anche il fronte laico sia rimasto profondamente arretrato rispetto allo stato del dibattito bioetico. E’ questa la conseguenza dell’irrigidimento di cui parli tu. I “realismi” che ci stanno di fronte non sono forse due? Come credente, mi trovo costretto nella morsa di un fondamentalismo cattolico (e protestante) e di un positivismo scientista altrettanto inaccettabile Ti faccio un esempio: esiste un fronte laicista, largamente diffuso, e non solo nel nostro Paese, che sembra dare per scontata l’alternativa fede o ragione. Razionalismo uguale ragione, fede uguale irrazionalità e assenza di pensiero. In qualche modo si ricade nell’estremo opposto rispetto al monopolio della ragione reclamato da Benedetto XVI. I due atteggiamenti si alimentano e si rafforzano reciprocamente. Da dove traggono la propria forza i fondamentalismi religiosi se non dalla difficoltà della cultura laica di porre un orizzonte normativo efficace e convincente senza ricadere in un positivismo angusto di sapore ottocentesco?
PV - Communication stoppers: questo termine è stato introdotto da un filosofo inglese (Blackburn) per riferirsi a quegli argomenti retorici che si pretendono ultimi e conclusivi ma che in realtà non fanno che bloccare la conversazione e impedire quel “dialogo” cui tutti sembrano aspirare. Alcuni ovvi “communication stoppers” sono Dio, la Natura o la Ragione. Poiché ogni religione ha il suo Dio, ma al tempo stesso questi è per definizione indefinibile (scusa il pasticcio, ma è nei fatti) invocarlo per fondare una regola morale è quantomeno inutile. Si pensi al noto paradosso: il bene è tale perché Dio lo vuole (ma allora chi è Dio, e perché il mio differisce dal tuo, e in che modo elabora e fonda una legge morale che non sia arbitraria?) oppure Dio vuole il bene perché è bene (ma allora Dio è inutile, se esiste un bene oggettivo, che Egli si limita a riconoscere). Finchè le Chiese non forniscono risposte soddisfacenti a queste domande (ma temo che si tratti di un compito impossibile), il ricorso a Dio sarà nella migliore delle ipotesi una metafora, un appello a sentimenti condivisi, non un argomento forte nella conversazione morale.
Nota bene che considerazioni del tutto analoghe valgono per l’appello alla Natura: capire che cosa sia la Natura è propriamente l’oggetto dell’indagine scientifica, e si tratta di una ricerca senza fine. Pertanto nessuno può pretendere di usare la conoscenza della Natura come argomento definitivo, magari anche per considerazioni morali. Non parliamo poi della Ragione, cui spesso ci si appella senza definirla; immagino che nella maggior parte dei casi per “Ragione” si intenda un riferimento ai “fatti” e l’uso di un minimo di coerenza argomentativa: ma allora perchè tanta enfasi e la R maiuscola?
LS - Non credo che tutte le etiche religiose debbano necessariamente servirsi di “communication stoppers”. Al di là delle prese di posizione ufficiali della gerarchia, anche all’interno della Chiesa cattolica esistono posizioni di maggiore apertura sui temi bioetici, basti pensare alle tesi del Cardinal Martini sul caso Welby. A ciò si aggiunga che, in maniera del tutto simile al “naturalismo” cattolico, anche il fondamentalismo protestante sembra guardare con ostilità l’autonomia dell’individuo, con il risultato di confinarlo in uno stato di minorità permanente. Nei confronti di queste posizioni dissento per motivi religiosi. Credo sia un punto veramente decisivo: è perché sono cristiano (e non perché sono laico) che rifiuto l’idea che l’annuncio evangelico possa essere immediatamente tradotto in un sistema di norme oggettive, che un soggetto etico (individuo o comunità) dovrebbe semplicemente fare proprie, per poi metterle in pratica. Come se l’essenziale del cristianesimo fosse il legame con una realtà ultima (o un principio primo) che detta norme per l’azione: un cristianesimo metafisico, insomma. Come protestante, sostengo una più netta divaricazione tra piano della Grazia e piano umano, con una conseguenza, sul piano etico, piuttosto significativa: la consapevolezza di non essere in grado di realizzare compiutamente l’Evangelo si traduce nel rifiuto dell’assolutismo religioso e nel riconoscimento della problematicità del nostro esistere nel mondo, riconoscimento da cui deriva uno spazio maggiore per la libertà umana e il giudizio individuale. Una sensibilità, questa, che mi pare corrisponda allo spirito autentico del protestantesimo europeo: la stessa sensibilità, del resto, che muoveva il giovane Martin Heidegger ad abbandonare l’aristotelismo neotomista in direzione di un cristianesimo non metafisico, che trovava i suoi interlocutori privilegiati in Karl Barth – erano gli anni della pubblicazione dell’Epistola ai Romani – e, soprattutto, in Rudolf Bultmann. Non è azzardato sostenere che anche la successiva critica di Heidegger alla metafisica sia figlia di un’esigenza etico-religiosa.
Quello che mi preme sottolineare è che un’etica religiosa, ma non metafisica, comporta un più forte richiamo alla responsabilità umana e garantisce all’individuo, anche credente, la libertà indispensabile per cercare un consenso laico e pragmatico sulle questioni del mondo. Ciò premesso, contro le posizioni riduzioniste di parte del fronte laicista, a me pare indispensabile riaffermare l’esistenza di un modo diverso di vivere la propria fede, che non pensa di detenere il monopolio della ragione, ma che non accetta di essere confinata nell’ambito dell’irrazionale. Di qui nasce la possibilità di un dialogo con laici e uomini di scienza: un confronto sui rischi e le opportunità delle tecnica, senza appiattirsi su posizioni di chiusura acritica (come è il caso di molta bioetica religiosa, non solo cattolica), ed evitando nel contempo di scadere nel trionfalismo scientista che talora affligge alcuni settori della bioetica laica.
PV - Per me una criterio distintivo tra i credenti che sono realmente disposti al dialogo e quelli che non lo sono è il fatto di pretendere che le proprie siano verità di fatto oppure accettare che siano semplici costruzioni metaforiche. Fa una grande differenza sostenere che la Genesi descrive letteralmente la creazione del mondo e degli esseri viventi o invece accettare i libri sacri come una grande metafora che ha un valore antropologico, uno sfondo narrativo piuttosto che conoscitivo. Come laico ho il massimo rispetto per le narrazioni che i popoli si sono dati per conferire un senso al mondo. Dirò di più: benché io sia del tutto contrario all’idea che si debba inserire nella Costituzione Europea un riferimento alle radici cristiane – non ne vedo francamente la necessità – sono d’accordo nel pensare che Dio “stia ancora morendo” (non sia interamente morto) nelle nostre società: non si è cioè ancora esaurita la spinta di creazione e articolazione di valori fondanti da parte del Cristianesimo. Mi pare che questo sia anche un tema caro a Habermas: i valori di cui oggi ci nutriamo sono ancora largamente, e molto più di quanto non pensiamo - di matrice giudaico-cristiana. Ma questa è una constatazione antropologica: sono le nostre società che si sono evolute così, ed è in questo orizzonte di categorie che dobbiamo necessariamente muoverci; per esprimersi con un termine della filosofia della scienza, il cristianesimo è ancora largamente il nostro paradigma morale di riferimento. Pensiamo a una corrente etica contemporanea, quella dell’”etica delle virtù”, che ricorre a molte delle categorie Cristiane della “vita buona”, che di fatto sono ancora largamente presenti nelle nostre valutazioni morali quotidiane (anche se per esempio nella sfera sessuale altre categorie sono state del tutto abbandonate).
Se i laici prescindono da questa constatazione, cioè che si sta parlando di orizzonti culturali di riferimento, di tradizioni, di categorie ricevute e radicate nel senso comune, insomma di metafore, e si affannano a confutarne il “valore di verità” commettono un duplice errore. Il primo è di scendere sul terreno dell’avversario, che non può essere preso sul serio se ha una pretesa “realistica”, di parlare cioè nel nome della verità – come nel caso della creazione, dell’anima, ecc -. Credo che si possa a buon diritto pretendere che le Chiese ammettano di non parlare di entità concrete (la Creazione) ma di grandi metafore antropologiche. Altrimenti nessun dialogo è possibile sulla base di un presupposto realistico. Ma non vedo molta chiarezza su questo versante, se non in teologi anomali come Hans Kung. Posso accettare per esempio il quadro che Kung dipinge per giustificare la fede: “ … una fede illuminata dal fatto che l’universo e l’uomo non rimangono senza spiegazione rispetto alla loro origine, che essi non sono insensatamente gettati dal nulla nel nulla, ma che sono pieni di senso e di valore in quanto totalità, non caos ma cosmo …” (L’inizio di tutte le cose, Rizzoli, 2006, p.148). Ma si tratta appunto di una metafora, non di una cosmologia realistica.
Il secondo errore è quello di non vedere la necessità, anche in casa propria, di trovare categorie sostitutive soddisfacenti e altrettanto pregnanti di quelle tradizionali. Problema ben visto da Nietzsche quando non descriveva la morte, bensì l’agonia di Dio, il progressivo dissolversi dei valori dell’Occidente senza un’apparente proposta sostitutiva. Mi pare evidente che gli anni che stiamo vivendo siano proprio all’insegna del nichilismo in questo senso forte.
LS - Il tuo argomento è, se capisco bene, duplice. Da un lato tu sostieni che, se vogliamo che la conversazione morale continui, per i credenti il ricorso a Dio non può diventare un argomento forte, ma va inteso, nella migliore delle ipotesi, come una metafora o un appello a sentimenti condivisi, magari significativi sul piano simbolico, ma che non possono assurgere allo status di verità fattuali. Dall’altro, i laici dovrebbero riconoscere che parte dei concetti con cui operiamo sono di origine cristiana, che il cristianesimo rimane pur sempre “il nostro paradigma morale di riferimento”.
Sono d’accordo con te, ma con alcune precisazioni. Se il tuo discorso dovesse essere inteso alla stregua di una definizione del fatto religioso, il rischio sarebbe quello di ridurre il cristianesimo a fenomeno antropologico, svuotandolo di quel valore veritativo che ogni religione pretende di avere. Come credente, a questo mi è difficile acconsentire. Mi spiego meglio: la fede nella resurrezione di Cristo non è la fede in qualcosa di metaforico che permette – e storicamente ha permesso – di dare senso al mondo, ma la fiducia, certo paradossale e razionalmente incomprensibile, che Cristo sia “davvero” risorto. Mi pare tuttavia che la tua intenzione sia quella di trovare un terreno comune su cui discutere, una base di partenza che consenta di rendere comprensibili differenti posizioni su questioni etiche fondamentali e di affrontare le questioni cui siamo posti di fronte.
Fra tutte, quella decisiva mi sembra sia: chi controlla lo sviluppo tecnologico? Per più aspetti, ci troviamo di fronte ad un paradosso, tale solo in apparenza: il pensiero liberale, che vuole difendere l’individuo dai soprusi dell’autorità umana, finisce per restare vittima dell’autorità, ben più temibile, dei processi impersonali di tecnica ed economia. La situazione non sembra del resto molto più felice se si guarda al fronte dei critici della tecnologia, che spesso fanno uso di argomentazioni non scientifiche, pensando di risolvere i problemi posti dalla tecnica con gli occhi rivolti al passato e non al futuro: propongono in altre parole l’idea di un’uscita non tecnica dalla civiltà della tecnica, un’idea che molto spesso si rivela un semplice mito reazionario.
Un autore che ha analizzato con grande lucidità l’interazione di tecnica ed economia è Michel Foucault. Mi riferisco in particolare alle tesi espresse alla fine degli anni settanta in un corso al Collège de France, recentemente tradotto in italiano con il titolo Nascita della biopolitica. Il discorso di Foucault riguardava la genetica. Ciò che lo preoccupava era il possibile passaggio dall’applicazione medica a quella sociale delle nuove tecnologie, con la conseguente difficoltà di distinguere chiaramente tra una genetica negativa, esclusivamente rivolta a fini terapeutici, e una genetica positiva, vera e propria realizzazione del sogno prometeico di perfezionare l’evoluzione della specie umana. Secondo Foucault, l’eugenetica liberale è figlia dell’interazione di sviluppo tecnologico e di una determinata concezione antropologica, tipica del neoliberismo americano. Quando una comunità comprende se stessa e i propri membri in termini di capitale umano – di attitudini e competenze che rendono il soggetto-lavoratore capace di produrre reddito – si pone il problema di come tale capitale possa essere costituito e accumulato. Foucault si riferiva ad una serie di problemi che già allora definiva “attualmente allo stato di emulsione”: in un futuro più o meno prossimo, scriveva, la genetica permetterà di stabilire la probabilità di contrarre certe malattie piuttosto che altre, diventerà possibile riconoscere gli individui a rischio e il tipo di rischio che essi corrono. Non è difficile ipotizzare che gli individui a basso rischio diventeranno qualcosa di raro e potranno entrare nel circuito economico delle scelte alternative. “E’ evidente che noi non dobbiamo pagare per avere il corpo che abbiamo, o per avere il patrimonio genetico che è il nostro. Esso non costa niente”, almeno finché la tecnologia non lo renderà possibile e la logica economica desiderabile. Per questo motivo, gli sviluppi della genetica non destano inquietudine nei termini tradizionali di una genetica di stampo razziale, ma vanno compresi su un piano differente: l’intera problematica dell’ereditarietà è passibile di intreccio con una logica economica sulla base del presupposto della scarsità del buon patrimonio genetico. Come se la tecnologia rendesse finalmente possibile ciò che la logica economica da sempre ha reso desiderabile, pagare per migliorare il proprio patrimonio genetico. Il campo della biopolitica – era questa la sua conclusione – registrerà imponenti sviluppi non solo sotto il profilo del capitale umano ereditario, ma anche di quello acquisibile, attraverso investimenti nel campo dell’educazione, della sanità, della giustizia (Foucault analizza diffusamente l’analisi neoliberale del mercato della droga) e delle politiche migratorie. L’uomo e il suo corpo sono diventati un investimento economico: una politica del capitale umano è una politica della vita.
PV - Che cosa ha dunque da offrirci la cultura laica, in una prospettiva di “Etsi Deus non daretur”? Ci può indubbiamente fornire una sofisticata etica procedurale adeguata a un mondo pluralista. Ma questa è sufficiente a sostituire le grandi narrazioni e in particolare quella Cristiana? Si noti bene, non mi sto riferendo al carattere consolatorio della religione, a una doppia morale, l’una per le masse e l’altra per le élites smaliziate. Mi riferisco alla proposta di un insieme minimo di valori fondanti introdotti esplicitamente, in assenza dei quali altri si impongono per pura occupazione degli spazi lasciati vuoti. L’attuale “nichilismo realizzato” (come i socialismi reali) non è soltanto assenza di espliciti riferimenti valoriali, ma in realtà una forma particolare di quest’assenza, il predominio delle regole e delle forme dello scambio economico capitalistico, con episodiche manifestazioni di un’incoerente “nostalgia dell’essere”.
Proviamo a fare un esempio concreto derivante dalla mia pratica professionale. Sono state avviate o sono in corso di avvio numerose ricerche sui fattori di rischio genetici e ambientali per malattie comuni come il cancro. Queste ricerche, che spesso coinvolgono centinaia di migliaia di persone, tendono a trarre vantaggio dal carattere multiculturale delle nostre società, per esempio quella inglese. Ricerche come UK Biobank (500.000 persone che verranno “reclutate” in Inghilterra) consistono nel raccogliere informazioni molto dettagliate sugli stili di vita – incluse le abitudini sessuali - e campioni di sangue su cui vengono effettuate indagini genetiche. Benché tutte queste ricerche siano ormai precedute da un complesso “rituale” etico in cui si consultano comitati etici e si sottopongono ai volontari complessi moduli di “consenso informato”, di fatto viene solo scalfita la superficie dei problemi quando si tratta di multiculturalismo. E’ verosimile per esempio che molti uomini islamici non lasceranno partecipare le proprie mogli, il che può comportare una considerevole selezione e distorsione del campione, e anche la perdita ai fini della ricerca dei sottogruppi più interessanti sul piano comportamentale e genetico. Si cade così in un paradosso: da un lato si sfrutta la variabilità genetica e comportamentale per studiare le cause delle malattie, dall’altro si affronta il rapporto con le altre culture sulla base di uno schema etico che è quello dell’autonomia individuale, di una concezione occidentale di “rispetto” dell’altro e di “dignità” personale (certo non è così semplice, ma si potrebbe dire che l’islamico impedisce alla propria moglie di partecipare alla ricerca proprio per tutelarne la dignità!). Il punto è che in un caso come questo esigenze di promozione della ricerca – talvolta con implicazioni commerciali- precedono il chiarimento delle modalità con cui trasporre i nostri concetti occidentali di dignità e rispetto della persona nelle relazioni con un’altra cultura.
Il problema è ovviamente molto più generale, e la sua matrice può essere identificata in ciò che Engelhardt teorizzava già parecchi anni fa: in un società multietnica non è pensabile di trovare una base valoriale comune, dobbiamo accontentarci solamente di alcune procedure che garantiscano almeno dai maggiori abusi. Engelhardt proponeva dunque di separare la procedura dalla sostanza, dalla discussione sui valori di riferimento. Ma in questo modo costruiamo società, come quella inglese e quella americana, che sono sempre più a compartimenti stagni, nelle quali non solo le singole culture non comunicano, ma addirittura accentuano enfaticamente la propria diversità. Il nihilismo laico ha una responsabilità in questo, perché tende a confinare i valori alla sfera delle credenze individuali non indagabili: mi ha sempre colpito il fatto che negli Stati Uniti, per esempio, sia considerato di cattivo gusto – quasi una violazione della privacy – parlare di politica; ed è probabile che tra breve possa diventarlo anche parlare di religione o di morale se non in termini appunto “procedurali” (il consenso informato come sostituto di un’esplicitazione delle credenze).
LS - Foucault ha anticipato di molto anni le tesi di Habermas sull’eugentica liberale, contenute ne Il futuro della natura umana. I rischi di un’eugenetica liberale. Secondo Habermas siamo di fronte a un’alternativa drastica: sfruttare i nuovi margini decisionali messi a disposizione dalle nuove tecnologie (in questo caso le tecniche genetiche) in maniera “autonoma” o farlo in maniera soggettivamente arbitraria. Arbitrario sarebbe un utilizzo regolato dalle preferenze individuali degli utenti del mercato, cioè dalla legge della domanda e dell’offerta. Al contrario, l’autonomia è definita dalla possibilità di pensare un limite e una disciplina, sul piano etico e legislativo, al fine di evitare che “una dinamica sistemica di scienza, tecnica ed economia” produca “fatti compiuti” non più discutibili sul piano normativo, perché non sottoposti a discussione nella sfera pubblica.
L’aspetto più interessante del discorso di Habermas consiste nel fatto che un autorevole esponente della cultura laica e illuminista consideri necessario il ricorso a categorie di origine religiosa – o meglio post-religiosa – per fondare un orizzonte normativo che il pluralismo valoriale liberale (il riferimento qui è Rawls) non riuscirebbe adeguatamente a tutelare. Il ragionamento di Habermas è più o meno il seguente: nella misura in cui l’etica post-metafisica si rassegna al pluralismo delle visioni del mondo, rinunciando a elaborare un modello di vita giusta, essa è in grado di giudicare il “come” ma non il “che cosa”, la modalità ma non la direzione delle differenti forme di vita: richiede la coerenza formale interna dei vari progetti esistenziali, ma rinuncia a valutarli da un punto di vista esteriore. Allo scopo di recuperare una valenza normativa del discorso etico, occorre rivolgersi a Kierkegaard, sostenitore di una prospettiva post-metafisica, certo, ma che va parimenti reintepretata in chiave post-religiosa. Habermas propone insomma di leggere il Dio di Kierkegaard in modo deflattivo, nel tentativo di elaborare una versione debole e proceduralista dell’Altro, inteso come linguaggio, come discorso entro cui siamo collocati e che ci trascende. Proprio questa versione secolarizzata del totalmente Altro definisce il limite normativo dell’etica: non è lecita alcuna azione che mette in pericolo l’auto-comprensione etica del genere umano come insieme di soggetti dotati di azione e discorso. Quello che non convince appieno è l’orizzonte normativo e universalistico che è centrale nel discorso di Habermas. A ciò si aggiunga il sospetto che un simile recupero del discorso sul Sacro il più delle volte maschera il tentativo, strumentale, di reperire un fondamento per ovviare al problema della “volontà etica”, vale a dire del movente necessario a convertire nella prassi i giudizi morali.
Diverso il discorso per quanto riguarda un altro laico aperto alla problematica religiosa, come Richard Dworekin. L’intento (e gli esiti) del discorso di Dworkin ne Il dominio della vita mi sembra divergano almeno in parte da quelli di Habermas, nella misura in cui egli mira innanzitutto a trovare un terreno di discussione comune tra credenti e non credenti, e solo secondariamente a fondare un nuovo quadro normativo. Non va dimenticato che il libro di Dworkin è scritto da un filosofo del diritto e mira a dirimere (o meglio ad offrire gli strumenti per farlo) le principali controversie su aborto ed eutanasia che laceravano e tuttora lacerano il panorama costituzionale americano. Secondo Dworkin anche coloro che sono contrari all’aborto non lo sono perché sostengono una tesi giuridico-metafisica, vale a dire che l’embrione sia, sin dal momento del concepimento, una persona, vale a dire un ente giuridico portatore di interessi e diritti. Nella maggior parte dei casi, ciò che motiva tali posizioni è un sentimento religioso di rispetto nei confronti della sacralità della vita umana. Il criterio che Dworkin utilizza per comprendere la nozione di sacro è di origine estetica: è sacro tutto ciò che non è riproducibile o rimpiazzabile, al modo in cui il valore di un’opera d’arte è legato alla sua unicità ed la rende non-negoziabile. La vita umana è intrinsecamente sacra, dunque degna di rispetto, e per questo motivo ci rattrista il pensiero della sua possibile distruzione. Dworkin fa appello, in altre parole, ad un sentimento religioso potenzialmente universale, che in tal modo accomuna credenti e non credenti e che consente di spiegare differenti atteggiamenti verso questioni etiche delicate come aborto ed eutanasia. La differenza di posizioni su simili questioni, infatti, non è assoluta, ma relativa: deriva dal fatto che esistono differenti gradi di sacralità. Identificare il carattere spirituale del disaccordo potrebbe aiutare a trovare un accordo, certamente a raggiungere una tolleranza maggiore e un maggiore riconoscimento.
Ciò che indubbiamente accomuna le due posizioni è l’idea di un recupero della nozione di sacro in chiave post-metafisica (e post-religiosa) che rifiuta l’idea di un fondamento ontologico assoluto, troppo spesso legato a prospettive etiche autoritarie che mettono in discussione l’autonomia dell’individuo. Nel tuo ultimo libro tu parli diffusamente di questo problemi e riconosci che simili preoccupazioni sono rilevanti sul “piano simbolico”, dal momento che hanno da fare con qualcosa come il “senso” dell’esistenza umana. Nei confronti delle nuove tecnologie i due atteggiamenti possibili sono la creatività e la gratitudine . Potremmo ritradurli con creatività e creaturalità: da un lato il mito prometeico di un’umanità che ha la pretesa di auto-prodursi, dall’altro il riconoscimento della precarietà umana, da cui discendono “tre componenti chiave del nostro sentire morale, l’umiltà, la responsabilità e la solidarietà, derivanti dalla più o meno confusa consapevolezza che ‘la vita è un dono, anche se da un donatore ignoto”. Occorre essere consapevoli – mi pare questa la tua tesi – della costitutiva ambivalenza e dialetticità di questi due atteggiamenti fondamentali.
Non posso che essere d’accordo con te, magari segnalando un aspetto del tuo discorso che a mio parere richiederebbe un sovrappiù di approfondimento e discussione: qual è lo statuto veritativo di ciò che viene definito “piano simbolico” e, a ciò connesso, quale il suo effettivo valore normativo? Nel libro sembri propendere per una teoria evoluzionistica, riveduta e corretta in senso non riduzionista, che fa della comunicazione simbolica uno dei fattori fondamentali dello sviluppo evolutivo della specie umana, un fattore che va dunque tenuto in seria considerazione. Ma, si potrebbe obiettare, la resistenza simbolica al mutamento tecnologico non è forse un fenomeno di ogni tempo? E il progresso tecnico-scientifico non è avvenuto a spese di una domanda di senso che, in determinate epoche e in certi contesti, era certamente giustificata e umanamente comprensibile, ma di cui, per molte buone ragioni, non si è tenuto conto? Quando e fino a che punto essa diventa vincolante? La rinuncia alla metafisica e la ricerca di un consenso intersoggettivo pongono, in altre parole, il problema di un criterio di massima nelle scelte etiche che non le rimetta esclusivamente al “peso” specifico che individui singoli, gruppi o comunità riescono di fatto ad esercitare.
PV - L’alternativa alla ricerca di un “appiglio esterno” (cioè un “communication stopper”) è riconoscere che non c’è nulla al di fuori della intersoggettività umana come unica forma di conoscenza e di elaborazione di un linguaggio morale. Peraltro questo è ormai un principio acquisito nella pratica scientifica: non c’è un punto archimedeo esterno, ma solo un continuo confronto tra teorie ed osservazioni nell’ambito di scambi intersoggettivi. La scienza ha un vantaggio metodologico, cioè tende (ma non sempre) ad essere consapevole dei propri limiti e predica due principi molto salutari: attenersi ai fatti e mantenere un minimo di coerenza logica. Anche se questo sembra il programma del Circolo di Vienna (l’empirismo logico era appunto la combinazione di un riferimento ai fatti empirici e dell’uso di una logica rigorosa), in realtà oggi viene interpretato in un senso debole: per “fatto” non si intende qualcosa di oggettivo, esistente “là fuori”, ma piuttosto un accordo intersoggettivo; e la stessa logica è stata grandemente indebolita per esempio dalla introduzione di leggi probabilistiche e dalla logica dei “fuzzy sets”.
Come nella teoria della conoscenza così nella morale si potrebbe dire dunque che non esiste nulla al di fuori dell’intersoggettività; al tempo stesso, tuttavia, gli strumenti sono chiaramente diversi da quelli che sorreggono la conoscenza (fatti e coerenza logica). Nella costruzione di un sistema morale contano i simboli, gli esempi, le “virtù”. La religione ha molto avuto a che fare con questo processo, ma non ne è una componente necessaria; soprattutto non lo è – se non in modo altamente simbolico – il riferimento a Dio. Il grande scrittore cattolico Graham Greene, in uno dei suoi capolavori (Il potere e la gloria) vede benissimo la distinzione fra tre componenti della religione per come si incarnano nella figura di un sacerdote sfortunato e tormentato: l’”investitura”, la consacrazione da parte dell’autorità religiosa; il potere magico attribuitogli dal popolo, che si aspetta capacità taumaturgiche; e la sua propria coscienza morale, come elemento che può confliggere con gli altri due. Il sacerdote si rende benissimo conto del fatto che la coscienza e le scelte morali non dipendono in modo causale né dal potere conferitogli dall’investitura, né da presunti poteri magici attribuitigli dalla religiosità popolare, e resta tragicamente solo con se stesso. Le religioni mi paiono spesso una mescolanza di questi tre aspetti, il potere, la speranza e la coscienza morale (uso il termine speranza come sostituto più blando della magia; Kung ha proposto di vedere la fede anche come una forma di “fiducia”). Al potere possiamo e dobbiamo rinunciare, alla speranza e alla fiducia chiaramente no, proprio perché la morale presuppone una intersoggettività che richiede il ricorso a queste categorie. E’ possibile pensare a un’etica laica che accolga – come nell’”etica delle virtù” – questi concetti (fede, speranza e carità) come costitutivi dell’esperienza morale senza la componente magica e senza la componente del potere delle chiese?
LS - Mi spiego l’atteggiamento della Chiesa cattolica, il riferimento all’ordine naturale che viene ribadito con tale insistenza, come il timore nei confronti della libertà individuale di fronte a scelte estremamente complesse. Resto convinto che esista, in particolare in Italia, un problema di “educazione” scientifica, ma trattare gli individui come fossero in permanente stato di minorità non aiuta certo alla crescita collettiva che, ne sono certo, la Chiesa stessa sarebbe la prima ad auspicare. Di fronte ai problemi etici posti della scienza non vedo altra soluzione se non il tentativo, precario e sempre da rinnovare, di cercare il consenso in un dialogo con gli scienziati, un dialogo che non può significare una delega in bianco, ma che certamente deve fondarsi sul riconoscimento del valore umano indispensabile della ricerca scientifica. Un salutare richiamo alla sobrietà, insomma, nella consapevolezza che la realtà è complessa e anche la bioetica non possiede risposte definitive. Nel mezzo lo sforzo, continuamente rinnovantesi e sempre problematico, di cercare di “pensare a ciò che facciamo”, nel tentativo di esercitare la nostra responsabilità di credenti e di esseri umani.

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