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Gianfranco Nicora

Teriofobia

La foto di una donna che allatta un cucciolo appartenente ad un’altra specie ha suscitato diverse critiche: addirittura c’è chi l’ha trovata “perversa” e chi “disgustosa”. Io la trovo bellissima. Una donna che allatta un agnellino è quanto di più altruista e meraviglioso possa esistere. E non si pensi che in natura sia un gesto poi così raro, accade di frequente che specie diverse di animali si prendano cura di cuccioli di altre specie, spesso anche se le une sono predatrici e gli altri prede. Così come ci sono comunità indiane ed africane le cui donne allattano anche cuccioli di altre specie. Evidentemente l’istinto materno non conosce remore.

Ciò' che suscita stupore e ribrezzo non è tanto il fatto che si dia del latte materno ad un agnellino - e del resto sull’inverso nessuno avrebbe da ridire, visto che il consumo di latte di animali vari (mucca, capra, pecora) è pratica ben diffusa - quanto il contatto fisico che si viene ad instaurare tra i due. Eppure non c’è nulla di più tenero, grazioso, indifeso ed innocente di un agnellino o di qualsiasi altro cucciolo. Perché dunque quest’immagine “scandalizza” così tanto? Perché addirittura arrivare a parlare di “perversione”?

La risposta è ovvia e su Asinus Novus se n’è discusso a lungo.

La risposta è la cosidetta “paura degli animali", da Marco Maurizi definita per l'appunto Teriofobia. Non paura nel senso che essi, gli animali, ci suscitano terrore per qualche motivo, bensì paura dell’animalità che è nell’uomo da cui deriva una rimozione di tutto ciò che ci possa ricondurre sul loro stesso piano (tra cui l'amore interspecie, la naturale empatia: emozioni e sentimenti che tendono ad essere soffocati in nuce, sin dalla nascita. L'uomo che prova amore per gli animali e si immedesima con la loro sofferenza è un patosensibile. Chi si rifiuta di mangiarli è, idem, un patosensibile e così via). Paura di ciò che possa assimilare noi agli animali. Paura quindi di essere animali. Di tornare animali, che è anche paura di perdere il controllo, di non riuscire a gestire le proprie pulsioni o di tornare a sperimentare di nuovo quel terror panico primordiale scaturito dall’immedesimazione totale dell’uomo con la natura.

Se l’ego è separazione, è dunque nel momento esatto in cui l’uomo ha cominciato a separarsi dalla natura che ha acquisito anche consapevolezza di un proprio - illusorio - sé; ciò che gli ha dato la sensazione di essere altro dagli animali. Questa separazione ha creato nei secoli una frattura inavvicinabile, ha stabilito una distanza incolmabile. Soprattutto ha contribuito al formarsi di un concetto di umanità in antitesi con la natura e con il resto del mondo animale e direttamente proporzionale per cui tanto più ci si allontana dall’animale - e lo si depotenzia riducendolo ad oggetto - tanto più si festeggia il trionfo dell’umano.

La presunta superiorità dell’uomo sugli animali, l’antropocentrismo, ciò che poi conduce di fatto allo specismo, non è altro infatti che il risultato di un percorso di differenziazione dagli animali che l’uomo - la cultura dell'umano - ha attuato nei secoli. La Teologia cattolica tradizionale poi ci ha messo del suo, adducendo a pretesto la creazione dell’uomo da parte di Dio a sua immagine e somiglianza ed il dono di un’anima immortale che invece gli animali non avrebbero.

Vale a dire che un gesto quale quello di nutrire con il proprio latte un agnellino è visto ancora nell’ottica della maggior parte dei teologi (fatta eccezione per gli studiosi della Teologia della Creazione e degli Animali, egregiamente rappresentati oggi da Paolo De Benedetti) non per quello che è - ossia un gesto di amore senza confini - ma come un abbassamento, un degradarsi dell’uomo verso l’animalità. Affermando che l'uomo è un animale come gli altri si negherebbe l'immortalità dello stesso, la nostra salvezza.

Per questo molti cattolici e molti paesi le cui radici sono intrise di cattolicesimo ci tengono così tanto a mantenere vive alcune tradizioni particolarmente cruente nei confronti degli animali, o a rimarcare la loro avversione per gli ecologisti, gli animalisti, ed i vegani, così come a sottolineare - iconograficamente e simbolicamente - la natura "animale" del maligno; oppure, semplicemente, a manifestare un ribrezzo o meglio indistinto odio per tutto ciò che non è umano (a meno che non si trovi nel piatto).

Questa è la spiegazione per cui un contatto ravvicinato tra uomo ed animale, a meno che non sia quello atto a sancire la pretesa superiorità dell’uno sull’altro - quindi mangiare la carne va bene, bere il latte di mucca va bene, tenere il cagnolino al guinzaglio ed addomesticarlo va bene - nei più provoca ribrezzo e turbamento. Quel che si teme è la propria animalità (Freud direbbe che la civiltà è soppressione degli istinti), quel che si mette in atto è una rimozione della nostra natura animale, quel che inconsciamente manifestiamo è la distruzione dell'animale per meglio esaltare la nostra presunta umanità.

Le reazioni di disgusto all’immagine sopra descritta dovrebbero quindi far riflettere. Far riflettere sul perché ci teniamo così tanto a distinguerci dagli animali, visto che siamo animali anche noi, e del perché essi ci facciano così “paura”, dal momento che sono ANIMAti dallo stesso soffio vitale del Creatore.

In sostanza forse è semplicemente di noi stessi che abbiamo paura. È la nostra incapacità di essere abbastanza umani che temiamo. Senza capire che l'amore e l'empatia estesi a tutte le altre specie sarebbero non ciò che ci degrada, ma ciò che ci eleva e ci permette di attuare l’invito del Creatore a prenderci cura dei nostri fratelli minori.

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