L’eredità di Gandhi antidoto alla rabbia.
La strategia della non violenza nasconde una profonda sapienza di psicologia sociale.
I 70 anni della morte del Mahatma
Luisella Battaglia
Il Secolo XIX—Xte Domenica 28 gennaio 2018 p. 1 e p.43
Settant’anni fa, il 30 gennaio 1948, Gandhi fu ucciso dall’estremista hindu Nathuram Godse. Un Memoriale, eretto nel luogo stesso dell’assassinio, ricorda la ‘Grande Anima’, l’uomo che – secondo Albert Einstein – le generazioni future avrebbero faticato a credere che fosse mai esistito. Ma cosa rimane, oggi, del suo insegnamento, nella più grande democrazia del mondo, in cui l’ostilità religiosa alla quale il Mahtma contrapponeva l’ahimsa, il principio della non violenza, resta ancora sotto traccia? E, soprattutto, come è stato inteso il significato della non-violenza? Malgrado la particella negativa, si tratta – per Gandhi – della “più grande e più attiva forza del mondo”. Perché allora è stata sovente definita come resistenza passiva e accettazione della sofferenza? L’enfasi sulla spiritualità della rassegnazione trascura, in effetti, un elemento fondamentale della visione gandhiana: la sua distinzione tra violenza del forte, del debole e del codardo. La prima poggia sul rifiuto morale della violenza e richiede la presenza di tutte quelle virtù – coraggio, abnegazione, autodisciplina – che sono proprie del guerriero. La seconda è la cosiddetta resistenza passiva, una scelta tattica adottata da chi ritiene, per ragioni politiche, che l’impiego della violenza non sia funzionale ai suoi obiettivi. La terza, infine, è l’atteggiamento di chi si astiene dalla violenza per pura vigliaccheria: è quest’ultima la posizione che Gandhi condanna più aspramente arrivando addirittura a scrivere di preferire la violenza alla codarda sottomissione. E, tuttavia, il modo in cui è stata recepita in Occidente l’opera gandhiana ha rafforzato l’idea che la non violenza non possa essere che un ideale morale e non un metodo di azione. Gandhi è stato spesso presentato come un mistico che invita alla conversione piuttosto che come un uomo politico intento a delineare una strategia efficace. Certo, la sua è una figura molto complessa (Nehru stesso lo definiva “uno straordinario paradosso”) a partire dalla sua ferma convinzione che nella sfera politica si possa essere efficaci senza rinunciare ai principi etici. Basti riflettere a come le stesse condizioni di lotta del satyagraha (“la forza della verità”) - astensione dall’uso e dalla minaccia della violenza; impegno costante di attenersi alla verità; esigenza di imparzialità ; formulazione di obiettivi precisi--rappresentino un sovvertimento radicale delle regole tradizionali del gioco politico. Ma esse, - occorre aggiungere - oltre a testimoniare una straordinaria tensione etica, manifestano una profonda sapienza in fatto di psicologia sociale in quanto mirano a controllare e a ridurre la violenza dell’oppositore: la menzogna, la distorsione, la clandestinità sono tutti elementi che ingenerano sospetto e paura, rendendo quindi più probabile il suo ricorso alla violenza. In tal senso, la non violenza si iscrive in un gioco di forze e, in quanto alternativa costruttiva all’estinzione reciproca, può rappresentare una forma efficace di soluzione dei conflitti sociali e politici.
Sono passati tanti anni dall’assassinio di Gandhi e oggi viviamo nell’età della “grande rabbia”. Ne sono drammatica conferma non solo il terrorismo internazionale ma anche gli scontri politici che tendono a degenerare in risse e i risentimenti irosi di cui si nutrono i social network. Un contagio che avvelena la vita quotidiana e alimenta una sindrome rivendicativa che vede nella rabbia la via per ottenere la riparazione dei torti subiti. Ma è possibile – e come – sfuggire alla trappola della rabbia? La lezione gandhiana può esserci d’aiuto? Una famosa filosofa americana, Martha Nussbaum, nel suo ultimo libro, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, si interroga sulla giustizia rivoluzionaria rifacendosi proprio agli scritti di Gandhi. Nella sua esplorazione delle emozioni, la rabbia sembra avere una valida funzione sia come segnale del fatto che gli oppressi riconoscono l’ingiustizia loro inflitta, sia come spinta alla protesta e alla lotta. E’ la cosiddetta “rabbia di transizione”,che induce a esclamare: “E’ terribile, non deve succedere più” e denuncia un’ingiustizia, concentrandosi sul futuro e non sulla rivalsa. L’accento andrebbe, invece, posto sull’importanza di dichiarare la responsabilità dei trasgressori, come ingrediente cruciale per la costruzione della fiducia pubblica e sul riconoscimento di valori condivisi. E’ la via seguita da Gandhi e, successivamente, da Luther King e Nelson Mandela che delineano un quadro dell’agire rivoluzionario non rabbioso e strategicamente efficace. Una via, questa, difficilmente praticabile solo se continuiamo a pensare che la rabbia sia un sentimento connaturato all’essere umano e a incoraggiare scelte politiche e giuridiche basate sulla sua presunta positività. Proviamo invece, come suggerisce Nussbaum, ad allenarci a contrastarla. Il dilagare del cancro – è il suo esempio – non è una buona ragione per non dedicare sforzi massicci alla ricerca. Perché tendiamo a pensare che la salute e il benessere meritino il massimo sforzo personale e politico e la rabbia no? La politica della rabbia ha alterato il corso della storia di tante nazioni e anche il futuro dell’Europa dipenderà dal richiamo della rabbia o dal prevalere di sentimenti non distruttivi.