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L’eredità di Gandhi antidoto alla rabbia.
La strategia della non violenza nasconde una profonda sapienza di psicologia sociale.
I 70 anni della morte del Mahatma

Luisella Battaglia

Il Secolo XIX—Xte Domenica 28 gennaio 2018 p. 1 e p.43

Settant’anni fa, il 30 gennaio 1948, Gandhi fu ucciso dall’estremista hindu Nathuram Godse. Un Memoriale, eretto nel luogo stesso dell’assassinio, ricorda la ‘Grande Anima’, l’uomo che – secondo Albert Einstein – le generazioni future avrebbero faticato a credere che fosse mai esistito. Ma cosa rimane, oggi, del suo insegnamento, nella più grande democrazia del mondo, in cui l’ostilità religiosa alla quale il Mahtma contrapponeva l’ahimsa, il principio della non violenza, resta ancora sotto traccia? E, soprattutto, come è stato inteso il significato della non-violenza? Malgrado la particella negativa, si tratta – per Gandhi – della “più grande e più attiva forza del mondo”. Perché allora è stata sovente definita come resistenza passiva e accettazione della sofferenza? L’enfasi sulla spiritualità della rassegnazione trascura, in effetti, un elemento fondamentale della visione gandhiana: la sua distinzione tra violenza del forte, del debole e del codardo. La prima poggia sul rifiuto morale della violenza e richiede la presenza di tutte quelle virtù – coraggio, abnegazione, autodisciplina – che sono proprie del guerriero. La seconda è la cosiddetta resistenza passiva, una scelta tattica adottata da chi ritiene, per ragioni politiche, che l’impiego della violenza non sia funzionale ai suoi obiettivi. La terza, infine, è l’atteggiamento di chi si astiene dalla violenza per pura vigliaccheria: è quest’ultima la posizione che Gandhi condanna più aspramente arrivando addirittura a scrivere di preferire la violenza alla codarda sottomissione. E, tuttavia, il modo in cui è stata recepita in Occidente l’opera gandhiana ha rafforzato l’idea che la non violenza non possa essere che un ideale morale e non un metodo di azione. Gandhi è stato spesso presentato come un mistico che invita alla conversione piuttosto che come un uomo politico intento a delineare una strategia efficace. Certo, la sua è una figura molto complessa (Nehru stesso lo definiva “uno straordinario paradosso”) a partire dalla sua ferma convinzione che nella sfera politica si possa essere efficaci senza rinunciare ai principi etici. Basti riflettere a come le stesse condizioni di lotta del satyagraha (“la forza della verità”) - astensione dall’uso e dalla minaccia della violenza; impegno costante di attenersi alla verità; esigenza di imparzialità ; formulazione di obiettivi precisi--rappresentino un sovvertimento radicale delle regole tradizionali del gioco politico. Ma esse, - occorre aggiungere - oltre a testimoniare una straordinaria tensione etica, manifestano una profonda sapienza in fatto di psicologia sociale in quanto mirano a controllare e a ridurre la violenza dell’oppositore: la menzogna, la distorsione, la clandestinità sono tutti elementi che ingenerano sospetto e paura, rendendo quindi più probabile il suo ricorso alla violenza. In tal senso, la non violenza si iscrive in un gioco di forze e, in quanto alternativa costruttiva all’estinzione reciproca, può rappresentare una forma efficace di soluzione dei conflitti sociali e politici.
Sono passati tanti anni dall’assassinio di Gandhi e oggi viviamo nell’età della “grande rabbia”. Ne sono drammatica conferma non solo il terrorismo internazionale ma anche gli scontri politici che tendono a degenerare in risse e i risentimenti irosi di cui si nutrono i social network. Un contagio che avvelena la vita quotidiana e alimenta una sindrome rivendicativa che vede nella rabbia la via per ottenere la riparazione dei torti subiti. Ma è possibile – e come – sfuggire alla trappola della rabbia? La lezione gandhiana può esserci d’aiuto? Una famosa filosofa americana, Martha Nussbaum, nel suo ultimo libro, Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, si interroga sulla giustizia rivoluzionaria rifacendosi proprio agli scritti di Gandhi. Nella sua esplorazione delle emozioni, la rabbia sembra avere una valida funzione sia come segnale del fatto che gli oppressi riconoscono l’ingiustizia loro inflitta, sia come spinta alla protesta e alla lotta. E’ la cosiddetta “rabbia di transizione”,che induce a esclamare: “E’ terribile, non deve succedere più” e denuncia un’ingiustizia, concentrandosi sul futuro e non sulla rivalsa. L’accento andrebbe, invece, posto sull’importanza di dichiarare la responsabilità dei trasgressori, come ingrediente cruciale per la costruzione della fiducia pubblica e sul riconoscimento di valori condivisi. E’ la via seguita da Gandhi e, successivamente, da Luther King e Nelson Mandela che delineano un quadro dell’agire rivoluzionario non rabbioso e strategicamente efficace. Una via, questa, difficilmente praticabile solo se continuiamo a pensare che la rabbia sia un sentimento connaturato all’essere umano e a incoraggiare scelte politiche e giuridiche basate sulla sua presunta positività. Proviamo invece, come suggerisce Nussbaum, ad allenarci a contrastarla. Il dilagare del cancro – è il suo esempio – non è una buona ragione per non dedicare sforzi massicci alla ricerca. Perché tendiamo a pensare che la salute e il benessere meritino il massimo sforzo personale e politico e la rabbia no? La politica della rabbia ha alterato il corso della storia di tante nazioni e anche il futuro dell’Europa dipenderà dal richiamo della rabbia o dal prevalere di sentimenti non distruttivi.

Inserire pdf

 

http://www.istitutobioetica.org/Bioetica%20generale/diritti/Paglia_caregiver%20la%20cura%20dei%20diritti.pdf

Le Metamorfosi della salute e i nuovi diritti

Raffaele Prodomo

La salute, come ci assicura anche il famoso proverbio, è tra i beni prioritari cui tende l’azione umana. L’interesse a prevenire e curare le principali malattie è sia al centro di decisioni individuali e private sia oggetto di dibattito pubblico, come tale comportante un livello etico-politico di decisione. La salute come sentire diffuso nelle società sviluppate è interpretata sempre più come un diritto umano fondamentale da tutelare almeno entro un livello minimo di decenza e con un margine di tolleranza per forme e stili di vita individuali. Inoltre, siccome l’arretratezza economica di molti paesi del mondo si associa a una incidenza maggiore di malattie e handicap, non si può trascurare il problema di un’azione internazionale di sostegno ai paesi poveri e svantaggiati.
Le due questioni, di cui la prima si colloca all’interno delle singole società ricche mentre l’altra ha il suo scenario nell’ambito della cosiddetta globalizzazione (caratterizzata da forti squilibri economici), sono complicate e aggravate dal fatto che, entrambe, vanno a interagire con una dinamica interna al progresso medico in sé considerato, ossia la tendenza a sviluppare tecnologie sempre più sofisticate e costose la cui utilità marginale si riduce progressivamente. In altri termini, si spende sempre più con vantaggi in termini di salute sempre meno evidenti e, soprattutto, con una evoluzione del quadro epidemiologico in cui prevalgono malattie croniche e invalidanti che riducono la qualità della vita.
La nostra tesi è che, così stando le cose, il progresso medico ha avuto la conseguenza di far proliferare non solo nuove tecnologie ma anche una pluralità di concezioni della salute che, se non proprio conflittuali, certamente sono tra loro diverse. Anche in questo ambito si sarebbe passati da un conflitto di tipo distributivo, in qualche modo classico, a un conflitto più propriamente identitario, secondo una interpretazione corrente dell’evoluzione delle controversie politiche particolarmente autorevole e plausibile[i].
Questa tesi, per ora solo enunciata, merita un maggiore approfondimento analitico.
Le metamorfosi della salute
La definizione di salute è fonte di controversie interpretative.
Da un lato abbiamo le definizioni scientifiche che tendono a delineare la perdita della salute in funzione dell’allontanamento da parametri fisiologici normali, ritenuti assoluti e tipici della specie. Questo modo di considerare il binomio salute-malattia fa della prima uno stato misurabile oggettivamente di corretto funzionamento del corpo come organismo. Di conseguenza, anche la malattia è uno stato oggettivo di squilibrio o disfunzione quantificabile e misurabile nell’ambito della conoscenza oggettiva fornita dalla medicina scientifica.
Dall’altro lato, invece, pur non rinnegando la metodologia scientifica (retaggio recente della medicina), si tende a pensare che non sia possibile definire la salute in modo descrittivo-oggettivo ma si debba sempre partire da un’opzione normativa. In questo modo si considera la salute più un valore che un fatto, ossia si pone al centro il carattere dinamico della relazione uomo-ambiente con la variabilità di fini e di interessi, la cui mancata realizzazione per cause fisiche pone in essere uno stato percepito come patologico. In questo modo si chiamano in causa nella definizione di salute percezioni soggettive, contesti culturali e situazioni storico-evolutive, tutte condizioni, come è facile prevedere, che comportano modifiche continue nella fisionomia del binomio salute-malattia.
Il dibattito tra queste due prospettive culturali è particolarmente acceso. La concezione normativa della salute è, in vario modo, sostenuta da filosofi della scienza, come Georges Canguilhem (che fin dagli anni cinquanta si interrogava sul normale e il patologico) ma non mancano incursioni epistemologiche da parte di antropologi come Byron Good o sociologi, come ad esempio Ivan Cavicchi, tutti riuniti dalla comune polemica contro un modello riduzionista e scientista della salute e della medicina alla cui difesa, al contrario, negli ultimi anni si sono posti autori come Giovanni Azzone e, con maggiore sincretismo, Paul Thagard[ii].
Il carattere relazionale e mutevole della salute appare corroborato anche da considerazioni di tipo evoluzionistico che più di recente si stanno affermando nel campo del sapere medico attraverso gli studi di Nesse e Williams, di cui si sono avuti echi anche nel nostro paese[iii].
Le stesse critiche all’OMS circa il carattere utopico della propria definizione di salute, vista non come semplice assenza di malattia ma come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale” sono valide se riferite a un’idea di salute quale stato di cose perfettamente realizzabile e addirittura programmabile nel tempo (come voleva il progetto, prima fallito poi ridimensionato, che prometteva la salute per tutti entro il 2000), mentre colgono meno nel segno se ci si colloca nella prospettiva di vedere nella salute un valore e un ideale al quale, per definizione, si può solo tendere asintoticamente senza che sia mai possibile raggiungerlo ed esaurirne completamente le manifestazioni. I nuovi diritti
Il carattere relazionale e contingente della nozione di salute-malattia emerge con evidenza paradossale nel momento in cui si esaminano i casi diametralmente opposti di due nuovi diritti affacciatisi alla coscienza collettiva negli ultimi anni: il diritto a rifiutare le terapie (fino alla rivendicazione estrema di un diritto a morire) e il diritto a un’assistenza minima.
Vediamo più da vicino come sono nate e come si sono configurate queste aspirazioni così lontane tra loro.
La prima rivendicazione è concepibile unicamente nel contesto di una società opulenta, ossia una società, come quella occidentale, dove si è consumata la transizione epidemiologica associata alla crescita economica. Si tratta del cambiamento, rilevato dalla statistica ma percepibile anche dall’esperienza comune, nella distribuzione delle cause di morte, con la prevalenza delle malattie cronico-degenerative rispetto alle malattie acute, segnatamente quelle infettive, che avevano sempre avuto un tragico primato storico. La trasformazione nella distribuzione statistica delle varie malattie, le cui cause principali sono da ricercare nelle migliorati condizioni igieniche dei centri urbani e nel più elevato tenore di vita complessivo, si è accompagnata, inoltre, al tumultuoso sviluppo della medicina scientifica. Le capacità terapeutiche sono cresciute in modo esponenziale abbattendo limiti che sembravano invalicabili, con un interventismo tecnologico non privo, tuttavia, di risvolti negativi. Spesso i medici si sono concentrati nel compito di riparare e ripristinare nel loro funzionamento organi e apparati malati ma hanno trascurato la considerazione del benessere individuale complessivo al quale dovrebbe tendere l’azione medica. Come conseguenza di tali comportamenti, non potendo sempre guarire si finisce col ritardare o prolungare il decorso di una malattia, in modo tale, però, da prolungare spesso anche le sofferenze e i disagi che ad essa si associano.
Tale stato di cose apre un problema di ordine generale e uno più specifico. In generale ci si deve reinterrogare circa gli scopi prioritari dell’assistenza medica, che, come si è visto, possono essere persi di vista nella foga della lotta contro le malattie. Più nello specifico ci si pone il problema di formulare un’etica di fine vita, allo scopo di capire se, di fronte a una malattia cronica o incurabile giunta a uno stadio finale, non sia più opportuno assumere atteggiamenti di accettazione realistica dell’inevitabile piuttosto che ostinarsi in assalti prometeici[iv].
Scopi e priorità della medicina, il rapporto tra il medico e la morte, la possibilità di rifiutare le cure o, addirittura, di chiedere un aiuto a morire, sono problemi tipici di società che vivono in condizioni di benessere diffuso con un facile accesso alle cure mediche più moderne e sofisticate. In queste circostanze si capisce come sia possibile rivendicare una sorta di nuovo e a prima vista paradossale diritto: il diritto di morire, inteso come volontà di non opporsi testardamente alla morte quando questa appare ormai inevitabile[v].
Lo spazio di scelta aperto dal riconoscere la potestà decisionale individuale in questo ambito (per ora quasi esclusivo dominio medico) è estremamente ampio e variegato. Infatti, è probabile che, di fronte a situazioni clinico-esistenziali quali quelle della malattia in stadio terminale, non ci siano reazioni unanimi e uguali per tutti: l’esperienza ci dice, al contrario, che le risposte sono varie e differenziate. Le richieste di chi deve decidere in tali drammatiche circostanze sono di vario tipo, c’è chi vuole combattere fino alla fine con le armi della medicina, accettando oneri e sofferenze anche a fronte di vantaggi minimi in termini di sopravvivenza e chi, invece, si affida alla medicina palliativa, rinunciando a lottare contro un male inarrestabile e chiedendo solo di non soffrire. Né si può escludere a priori che, di fronte a situazioni ingovernabili anche dalle migliori tecniche palliative, assuma un senso la richiesta di eutanasia attiva volontaria. Tali decisioni non possono non ispirarsi a molteplici stili di vita individuali e/o a una pluralità di concezioni complessive della vita di tipo sia religioso che filosofico, le cosiddette “metafisiche pubbliche” di cui parla Sebastiano Maffetone nei suoi ultimi scritti, per cui in ambito politico sarà necessario prevedere ampi margini di tolleranza[vi]. Assistenza sanitaria minima
Ad un estremo opposto rispetto alle questioni finora considerate si colloca il problema del minimo di assistenza medica che bisognerebbe garantire a tutti. Si tratta della questione di fornire assistenza ai popoli svantaggiati della terra, ossia in quelle realtà geografiche in cui la penuria di mezzi economici è assoluta e drammatica e ci si trova di fronte a situazioni pericolosissime da un punto di vista igienico con un armamentario medico il più delle volte, se non del tutto assente, rudimentale e insufficiente.
Come giustificare, in termini di giustizia internazionale e non come mero atto caritatevole, il dovere di fornire un minimo di assistenza in questi casi? Inoltre, ammesso che sia doveroso moralmente un intervento assistenziale, come fornire un’assistenza globale, ossia capace di manifestarsi a vari livelli della vita sociale?
Un intervento efficace e duraturo, infatti, dovrà proporsi di stimolare la crescita economica e le condizioni di vita generale se vuole modificare strutturalmente le cose. Allestire o potenziare esclusivamente l’assistenza sanitaria sarebbe una risposta miope e incompleta, in quanto è ovvio, ad esempio, che per debellare le malattie infettive bisogna sì avere a disposizione antibiotici e chemioterapici ma si deve anche puntare alla prevenzione; e la stessa prevenzione non può essere affidata solo ai programmi di vaccinazione di massa ma è molto più efficace se si nutrono meglio le persone da vaccinare e si progettano bonifiche ambientali. Si tratta di modificare radicalmente il senso dei nostri comportamenti nei confronti dei popoli svantaggiati, evitando, tra le altre cose, la tendenza a usarli come cavie privilegiate per la ricerca medica internazionale di farmaci che poi verranno usati dai paesi ricchi.
Povertà, fame, malattie sono emergenze internazionali da considerare inscindibili e da combattere globalmente con interventi medici, sostegno economico e, come indicato da autorevoli economisti, anche con robuste iniezioni di libertà e democrazia[vii].
Un diritto all’assistenza globale (comprendente anche quote di assistenza medica) è ormai quasi unanimemente riconosciuto ai paesi poveri del mondo, il correlativo dovere di aiutare è sentito in modo sempre meno eludibile dall’opinione pubblica internazionale, colpita emotivamente dalle immagini di estrema miseria che i mass-media propongono quotidianamente, e trova sempre più intellettuali e pensatori politici disposti a elaborarne le fondamenta teoriche[viii]. Conclusioni
Il diritto alla salute si declina in modi inimmaginabili fino a qualche tempo fa: quelle definite le metamorfosi della salute, ossia i cambiamenti storicamente condizionati nell’idea condivisa di salute e benessere individuale, non sono prive di conseguenze sul piano etico-politico.
Abbiamo visto che si pone il problema di stabilire un confine alla medicina sia verso l’alto che verso il basso, da un lato fissando limiti all’eccessiva intrapendenza tecnologica e, dall’altro, garantendo minimi di assistenza a chi ne è sprovvisto quasi del tutto. Una stessa esigenza di salute, quindi, per l’enorme variabilità dei contesti si manifesta con richieste contrapposte e apparentemente contraddittorie. Da qui sorge la necessità di pensare a forme federali di tutela della salute che, da un lato, ne salvino il valore universalistico (costituzionalmente protetto nel nostro Paese), dall’altro ne consentano la modulazione delle realizzazioni concrete in sede locale[ix].
Sembra quasi che la dignità umana possa, allo stesso modo, essere messa in discussione sia da troppa che da troppo poca medicina!
Dobbiamo abituarci a convivere con queste richieste conflittuali elaborando metodi per governarle. In questo senso sarebbe sbagliato collocarle sullo sfondo tradizionale dei conflitti di interesse, quello definito il conflitto distributivo, che si concretizza quando in ambito sociale si discute su come redistribuire beni relativamente scarsi. Il problema in questo caso della salute e dei nuovi diritti ad essa associati non è di redistribuzione quantitativa di risorse ma è più complesso. Sono chiamate in causa, infatti, identità individuali e collettive che, oltre a concezioni complessive della vita, elaborano anche idee della salute diverse tra loro. In definitiva, sembra che anche nel mondo della salute il conflitto sociale e politico si sia spostato dal terreno delle rivendicazioni economiche (conflitto distributivo) a quello della disputa sulla rilevanza e sul grado di accettabilità delle diverse culture presenti in un ambito statale circoscritto o, nel caso della giustizia tra i popoli, in ambito internazionale (conflitto identitario)[x].
Purtroppo questa evoluzione non significa che non ci siano, in ambito sanitario, anche problemi economici di allocazione di risorse scarse: in realtà il nuovo livello di problematicità non si sostituisce ma si somma a quello precedente, rendendo sempre più complessa la galassia dei nuovi diritti oggi potenzialmente rivendicabili grazie allo sviluppo scientifico della medicina.

[i] Si fa riferimento all’opera di Rawls e al dibattito da essa suscitato, in particolare il problema dei conflitti tra identità culturali diverse e la necessità di tollerare un pluralismo ragionevole è affrontato in J.Rawls, Il liberalismo politico, Comunità, Milano 1994. Per una interpretazione dei conflitti bioetici come conflitti tra diverse concezioni di valori con la conseguente necessità di tolleranza, si veda R.Dworkin, Il dominio della vita, Comunità, Milano 1994. Un utile resoconto delle principali questioni teoriche in riferimento alle questioni bioetiche si trova in F.Manti, Bioetica e tolleranza, ESI, Napoli 2000.
[ii] G.Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998; B.Good, Narrare la malattia, Comunità, Torino 1999; I.Cavicchi, La medicina della scelta, Bollati Boringhieri, Torino 2000; G.F.Azzone, La rivoluzione della medicina, McGraw-Hill, Milano 2000; P.Thagard, La spiegazione scientifica della malattia, McGraw-Hill, Milano 2001. Per un’analisi più accurata di questa controversia epistemologica, sia consentito il rinvio a R.Prodomo, La medicina tra misurazione e narrazione, in AA.VV., Medicina e multiculturalismo, Apeiron, Bologna 2000 pp. 4-25; Id., Oltre la dicotomia arte-scienza: la medicina come sapere storico integrato, in AA.VV., Le metamorfosi della salute, Apeiron, Bologna 2001 pp. 3-17.
[iii] R.M Nesse, G.C.Williams, Why We Get Sick. The New Science of Darwinian Medicine, Times Books, New York 1994 (trad. italiana: Perché ci ammaliamo, Einaudi, Torini 1999); G.Corbellini, Idee evoluzionistiche per la medicina, in AA.VV., Medicina e multiculturalismo, Apeiron, Bologna 2000 pp.25-49.
[iv] D.Callahan, La medicina impossibile. Le utopie e gli errori della medicina moderna, Baldini & Castoldi, Milano 2000; F.Voltaggio, L’arte della guarigione nelle culture umane, Bollati Boringhieri, Torino 1992; AA.VV., La fine della vita. Per una cultura e una medicina rispettose del limite, Apeiron, Bologna 2001
[v] H.Jonas, Il diritto di morire, Il Melangolo, Genova 1991.
[vi] S.Maffettone, Il valore della vita, Mondadori, Milano 1999; Id., Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzo millennio, Il Saggiatore, Milano 2001; esempi della variabilità di risposte individuali alle situazioni esistenziali di fine vita si possono trovare in R.Dworkin, Il dominio…, cit.; M.Coltorti, Informazioni per un consenso. Riflessioni derivate dall’esperienza clinica, in AA.VV. , Le metamorfosi … , cit. pp. 33-51 e in P.Borsellino, La malattia terminale: un difficile banco di prova per il consenso-informato, in AA.VV., Le metamorfosi … , cit. pp.77-97.
[vii] A.Sen, Lo sviluppo è Libertà, un libro dove si sostiene la tesi che libertà e democrazia non sono, come banalmente si tende a credere, meri effetti dello sviluppo economico ma ne possono, anzi, essere anche la causa più efficace. Una tesi che capovolge, a nostro avviso, le tesi iperliberiste della globalizzazione selvaggia a favore di una globalizzazione prima etico-politica che economica.
[viii] J.Rawls, Il diritto dei popoli, Comunità, Torino 2001. In questo libro il noto filosofo della politica americano immagina come utopia realistica una società dei popoli bene ordinati capace sia di tenere a freno l’arroganza e la violenza dei cosiddetti popoli fuorilegge che di aiutare concretamente i popoli più poveri e sfortunati.
[ix] I.Cavicchi, Salute e federalismo. Forma e contenuti dell’emancipazione, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
[x] Per un’utile introduzione a questo tema si veda di A.E.Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999; M.A. La Torre, Il multiculturalismo come problema etico-filosofico, in AA.VV., Medicina e multiculturalismo, cit., pp.105-129.

L’Enciclica “Laudato sì” di Papa Francesco. Riflessi giuridici

Paolo Maddalena

1. La grandezza di questa straordinaria Enciclica, che ha il fine precipuo di offrirci una visione del mondo in contrasto con l’attuale immaginario collettivo, si nota già nella scelta del filo conduttore dell’intero discorso: la bellezza. Se ne parla all’inizio (par. 1), ricordando “la casa comune come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia”, e se ne riparla frequentemente, come quando si ricorda che “suolo, acque, montagne, tutto è carezza di Dio” (par. 84), o quando si afferma che “Dio ha scritto un libro stupendo, le cui lettere sono la moltitudine delle creature presenti nell’universo” (Par. 85).
Sappiamo che definire “intellettualmente” la bellezza non si può. Lo aveva detto Kant qualche secolo fa e lo si deve ribadire anche oggi, nell’imperante relativismo filosofico secondo il quale è bello ciò che piace a ciascun individuo, indipendentemente da qualsiasi canone o regola estetica.
Ciò non ostante, se non è possibile una definizione concettuale, è certamente possibile affermare che il bello è certamente qualcosa che “si percepisce” in modo intuitivo da parte di ogni uomo. Lo conferma il fatto che l’educazione alla bellezza non può essere espressa in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello. D’altro canto, è intuitivo anche il concetto opposto alla bellezza: la bruttezza, che deve essere intesa come la percezione di una mancanza di bellezza, o un accumulo di imperfezioni, che suscita indifferenza o dispiacere e genera una percezione negativa dell’oggetto. La scelta di Papa Francesco di mantenere la bellezza come punto fermo di riferimento ha dunque anche un significato, per così dire, di comunicazione diretta. Tutti infatti sono in grado di distinguere il “bello” dal “brutto”, trattandosi di una scelta intuitiva e non intellettualistica.
Tuttavia, se la bellezza la si percepisce intuitivamente, ciò non significa che non si possa definire quale cosa possa essere “oggetto di bellezza”. E qui è da porre in evidenza che per la nostra cultura occidentale (Aristotele, Platone, Vico, Kant) il “bello” esiste “nella natura” e “nell’arte”. Nella Critica del giudizio Kant definisce il “bello naturale” come il “bello d’arte” e il bello d’arte come il bello di natura. Insomma gli oggetti di un “giudizio” di bellezza possono essere la Natura nel suo complesso e l’attività artistica dell’uomo.
A questo punto, considerando il “bello” (che proviene da una intuizione) come oggetto di una riflessione intellettuale, ci si accorge che c’è un elemento comune nei caratteri di qualsiasi cosa noi definiamo “bella”: è “l’armonia” tra le varie componenti dell’oggetto e tra l’oggetto e il contesto naturale nel quale l’oggetto si trova. E, a questo proposito, è puntuale il richiamo dell’Enciclica a S. Francesco d’Assisi: “Egli manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati. Amava ed era amato per la sua gioia, la sua dedizione generosa, il suo cuore universale. Era un mistico e un pellegrino che viveva in semplicità e in una meravigliosa “armonia” con Dio, con gli altri, con la natura e con se stesso” (par. 10).
L’armonia, come agevolmente si capisce, è espressione,nel campo del “bello”, di un principio universale che governa il mondo e l’universo intero: “l’equilibrio”. Qualità che riguarda, sia il mondo naturale, sia il mondo delle attività umane. Equilibrio, armonia, bellezza, appaiono, dunque, come concetti strettamente connessi, per cui si può capire perché taluni studiosi hanno parlato di bellezza, non solo per la natura e per l’arte, ma anche per le forme di governo, le strategie, i modelli matematici e così via dicendo. D’altro canto quante volte noi stessi abbiamo detto “questo articolo è bello, questo libro è bello”, per dire che si tratta di un’opera ben fatta, che segue i criteri della logica e che raggiunge i fini che l’autore si era proposto di perseguire. Anche a questo proposito, sono puntualissime le affermazioni di Papa Francesco, che richiama, insieme, “l’armonia”, gli “equilibri naturali” e le “leggi di natura”, che dell’armonia e dell’equilibrio sono la massima espressione. L’Enciclica osserva infatti che “la legislazione biblica si sofferma a proporre all’essere umano diverse norme, non solo in relazione agli altri esseri umani, ma anche in relazione agli altri esseri viventi: se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti. Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova, non prenderai la madre che è con i figli (par. 68). Ed è sempre la legislazione biblica “che ha cercato di assicurare l’equilibrio e l’equità nelle relazioni dell’essere umano con gli altri e con la terra dove viveva e lavorava”, ponendo in evidenza che “il dono della terra con i sui frutti appartiene a tutto il popolo”(par.71).
Se i concetti di equilibrio, armonia, bellezza investono l’universo intero, esprimendosi nelle leggi di natura, non si può fare a meno di ricordare, nel contesto su cui andiamo riflettendo, che tutto l’universo non è immobile, ma scorre nello spazio e nel tempo, mentre tutti gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono sempre rinnovando la loro specie. Insomma, se ne deve dedurre, come diceva Platone, che “questo mondo è davvero un essere vivente dotato di anima”, o, se si preferisce, che la Natura è essenzialmente “vita”. Del resto, la parola “natura” deriva dal participio futuro del verbo “nascor”, e significa, dunque, ciò che nasce, nel momento in cui nasce, e, quindi, la vita. Altrettanto è da dire per la parola greca “fusis”, che significa “natura”, e viene dal verbo “fuo”, che significa generare, per cui “natura” è ciò che viene generato, considerato nel momento in cui è generato, e, dunque, significa vita. Ed è sintomatico che l’Enciclica “Laudato sì” si concluda proprio con un inno alla vita, osservandosi che “la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da se stessa “per vivere” in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature” (par.240), osservandosi ancora che “la vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati” (par. 243).
Eppure questa “madre bella”, continua Papa Francesco (par. 1 e par. 2), “protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi”.
Sull’onda di questo grido di dolore, l’Enciclica passa a considerare le cause di questo abuso e di questo saccheggio. “Osservando il mondo notiamo che questo livello di intervento umano, spesso al servizio della finanza e del consumismo, in realtà fa sì che la terra in cui viviamo diventi meno ricca e bella, sempre più limitata e grigia, mentre contemporaneamente lo sviluppo della tecnologia e delle offerte di consumo continua ad avanzare senza limiti” (par. 34).
L’Enciclica continua su questa via con delle affermazioni di grandissimo rilievo. Essa sottolinea che “la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana”. (par.189). E’ arrivato il momento di opporsi decisamente “all’idea di una “crescita infinita o illimitata”, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la “menzogna” circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a spremerlo fino al limite e oltre il limite. Si tratta del falso presupposto che esiste una quantità illimitata di energia e di mezzi utilizzabili, che la loro immediata rigenerazione è possibile e che gli effetti negativi delle manipolazioni della natura possono essere facilmente assorbiti” (par. 106). D’altro canto, sottolinea Papa Francesco, “i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente …. oggi qualunque cosa che sia fragile come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta” (par.56).
Al contrario, incalza Papa Francesco, “dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un “dominio assoluto” sulle altre creature …. i testi biblici si invitano a “coltivare e custodire” il giardino del mondo … custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare” (par. 67).
Di qui la grande e innovativa affermazione secondo la quale “quando parliamo di ambiente facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra natura e la società che la abita”. Questo non deve farci “considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, “siamo parte di essa” e ne siamo compenetrati”. (par 139). “La relazione originariamente armonica tra essere umano e natura si è trasformata in un conflitto. Per questo è significativo che l’armonia che S. Francesco d’Assisi viveva con tutte le creature sia stata interpretata come una guarigione di tale rottura” (par. 66).
Alla luce di questi fondamentalissimi principi, l’Enciclica entra poi direttamente anche nel campo giuridico, affermando che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il “diritto di proprietà privata”, e ha messo in risalto la “funzione sociale” di qualsiasi forma di proprietà … Dio ha dato la terra a tutto il genere umano perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno … non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli …. la chiesa insegna che su ogni proprietà privata grava sempre “un’ipoteca sociale”, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha dato loro” (par. 93). Di conseguenza, “l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti” (par. 95).
Sempre sotto il profilo giuridico, Papa Francesco, dando molto risalto al concetto di “comunità”, sia che si tratti di quella che noi chiamiamo “comunità biotica”, sia che si tratti di quella che noi chiamiamo “comunità politica” o Stato, sottolinea con molta chiarezza che “sono funzioni inderogabili di ogni Stato quelle di pianificare, coordinare, vigilare e sanzionare all’interno del proprio “territorio”(par. 177), mentre le relazioni tra gli Stati devono salvaguardare la “sovranità di ciascuno” (par. 173). Per Papa Francesco, dunque, la “globalizzazione” riguarda solo la “transitabilità” dei confini e non fa venir meno l’idea stessa della “comunità politica”, cioè l’essenzialità dei Popoli e dei territori, e, quindi l’importanza “degli Stati nazionali”, “che, purtroppo, perdono potere a causa della dimensione economica finanziaria” (par.175). Né è da sottovalutare l’importanza che l’Enciclica dà alla “partecipazione” popolare(par. 181 e par.183) e alle “comunità locali”, nelle quali “possono nascere una maggiore responsabilità, un forte senso comunitario, una speciale capacità di cura e una creatività più generosa, un profondo amore per la propria terra” (Par. 179). In altri termini, secondo Papa Francesco “se riconosciamo il valore e la fragilità della natura, e allo stesso tempo le capacità che il Creatore ci ha dato, questo ci permette oggi di porre fine al mito moderno del progresso materiale illimitato”, ed alle sue conseguenti devastazioni ambientali (par. 77).
Dunque, ben diverso deve essere il comportamento che l’uomo deve mantenere verso la natura. Anzi si deve necessariamente ritenere che uomo e natura, agendo entrambi sul piano della soggettività, sono naturalmente stretti da un “patto” inviolabile secondo il quale il “dono” immenso che la natura fa all’uomo porgendogli, con i servizi ambientali, tutto ciò di cui ha bisogno, compreso il soddisfacimento dell’insopprimibile desiderio di “bellezza”, deve essere ricompensato dall’uomo, non solo con il rispetto della natura, ma anche e soprattutto con una sua completa dedizione alla cura e al benessere della natura stessa. E questo “patto”, come sottolinea papa Francesco, deve consistere in una “conversione ecologica”, che deve avvenire riconoscendo “il mondo come dono ricevuto dall’amore del Padre con l’amorevole sicurezza di “non essere separati dalle altre creature”, ma di formare una “stupenda comunione universale” (par. 191). E se si tiene conto che oggi la terra è abitata da settemilioni e duecentomila abitanti, e che la stessa, come hanno affermato gli scienziati, dal 2 agosto 2012 non è più in grado di rigenerare quanto noi consumiamo, appare evidente che in queste parole di papa Francesco deve scorgersi un invito a quella che noi chiamiamo “decrescita”. Occorre cambiare gli “stili di vita”. Si deve respingere il “consumismo”, si deve, in ultima analisi ristabilire un “equilibrio” tra l’azione dell’uomo e la vita di tutti gli altri esseri viventi.

2. – Il problema, a questo punto diventa necessariamente giuridico. Ci si deve chiedere, infatti, quali devono essere i comportamenti che l’uomo deve seguire per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni. E qui la risposta non può non essere che quella di un “giusnaturalista”, fondata, cioè, sul “diritto naturale”, al quale Papa Francesco riserva tanta rilevanza. Infatti, non è chi non veda come una risposta data secondo i criteri del “positivismo giuridico”, oggi degradato a “nichilismo giuridico”, non avrebbe senso, per il semplicissimo fatto che il positivismo toglie alla natura ogni valore e ritiene che l’uomo può fare tutto ciò che vuole, purché obbedisca a leggi emanate secondo particolari procedure preventivamente stabilite.
Insomma, è inevitabile rivolgersi al “diritto naturale”, secondo il quale il comportamento dell’uomo deve essere indiscutibilmente conforme alle “leggi di natura”, poiché soltanto queste consentono alla natura e all’opera dell’uomo di esplicitarsi nella “bellezza”, che appare come supremo valore da conservare e proteggere.
E si deve sottolineare a questo punto che l’antica diatriba tra positivismo e giusnaturalismo è stata risolta dal costituzionalismo moderno del secondo dopoguerra, che ha dato nuovo impulso al giusnaturalismo, inserendo nelle Costituzioni europee il valore della natura e dell’arte. Lo afferma esplicitamente l’art. 9 della nostra Costituzione, secondo il quale “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e storico della Nazione”, mentre l’art. 33 della stessa Costituzione sancisce che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Né è da sottovalutare il fatto che l’art. 117, del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione, novellato con legge costituzionale n. 3 del 2001, ha assegnato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie dell’“ambiente, ecosistema e beni culturali”. Il “giusnaturalismo”, dunque, è entrato a pieno titolo nella Costituzione e la “bellezza”, che si esprime nella natura e nell’arte, è da ritenere, dunque, a sua volta, “valore costituzionale”.
Nel giusnaturalismo costituzionale (anche se taluno lo nega) risiede, a nostro avviso, la “bellezza” della nostra Costituzione: infatti, il dar rilievo, non solo al “lavoro” umano, considerato il “fondamento” della Repubblica, ma anche al paesaggio, ai beni artistici e storici, all’arte e alla scienza, nonché all’ambiente, all’ecosistema e ai beni culturali in genere, vuol dire che la Costituzione stessa pone in “equilibrio”, e quindi in “armonia” tra loro, il valore uomo e il valore natura, considerando entrambi indispensabili per lo “sviluppo della persona umana” e il “progresso materiale e spirituale della società” (art. 3 e art. 4 Cost.). Oggetto di regolamentazione, in altri termini, è la “vita nel suo complesso”, che, come sopra si notava, è la massima espressione della “bellezza”. E a questo punto non si può sottacere che la “bellezza” della quale è ammantata la nostra Costituzione deriva anche da quella che è stata definita “l’etica repubblicana”, il fatto cioè che tutte le disposizioni costituzionali si ispirano ai principi di “libertà, eguaglianza e solidarietà” (“l’eguaglianza” soprattutto), principi che costituiscono, per così dire, l’asse portante del “bello” che si ritrova nella nostra Carta costituzionale.
Dunque, per ricompensare la Natura dei suoi immensi doni, la via è già tracciata: è scritta nella Costituzione, che è impostata secondo le linee di papa Francesco, poco sopra esposte, e che è, come si accennava, “equilibrata” e “armonica” e, quindi, “bella”.

3. – Vien fatto di chiedersi, a questo punto, come mai con una Costituzione così bella, armoniosa e equilibrata, ci troviamo in un mondo nel quale sono aumentati oltre i limiti della sostenibilità il degrado ambientale e le difficoltà di trovare un lavoro. Oggi, infatti, non c’è lavoro, ma disoccupazione, specie quella giovanile, e il “bello” in natura è sempre più raro e limitato.
La risposta è complessa, e anche molto amara e preoccupante: ci troviamo in questa situazione, poiché, per un verso il “sistema economico finanziario” è diventato un sistema “deviato”, e, quindi “squilibrato”, e per altro verso, specie nell’ultimo ventennio e a causa della subordinazione della politica alla finanza, si sono ammassate numerose leggi incostituzionali, che hanno avuto come scopo, non il perseguimento degli interessi generali, ma il perseguimento degli interessi particolari delle multinazionali e delle banche, ed hanno dato luogo a un confuso “ordinamento giuridico” del tutto “squilibrato”, che arreca danni incalcolabili all’ambiente e alla vita individuale e sociale.
Cominciamo dal sistema economico finanziario. Questo sistema, prima che Nixon, nel 1971, annunciasse la non convertibilità del dollaro in oro, era fondato sullo scambio di “beni reali”. Era un bene reale anche la moneta, poiché, dopo il Trattato di Bretton Wood del 1944, al quale noi aderimmo nel 1947, tutte le divise del mondo occidentale erano convertibili in dollari, e questi erano convertibili nell’oro custodito nel Forte Knox. Sennonché, quando Nixon, come si è accennato, si accorse che erano stati stampati tanti dollari da superare tutto il corrispettivo in oro conservato dalla Banca Centrale Americana e decise la non convertibilità in oro anche del dollaro, venne a crearsi un altro tipo di economia, si passò in altri termini dall’”economia dello scambio” a quella che poi è stata denominata “l’economia della concorrenza”. Infatti, a quel punto, la moneta, non essendo più convertibile in un bene reale (l’oro) e avendo perso il suo valore intrinseco, divenne in sostanza un “titolo di credito”, più precisamente un “diritto cartolare di prelievo”, dalla ricchezza esistente, di una certa quantità di beni reali il cui valore corrispondesse a quello stampato sulla moneta. Importante divenne allora, non tanto acquistare beni reali, ma acquistare diritti di credito, con la conseguenza della “finanziarizzazione” dei mercati, nel senso che divenne più conveniente investire in “prodotti finanziari”, fatti valere come “titoli commerciabili” (in Italia vi provvide la legge n. 130 del 1999), piuttosto che in “attività produttive”. Insomma al tradizionale percorso “finanza-prodotto-finanza” venne a sostituirsi il percorso “finanza-finanza”, il cui fine, ovviamente, non è quello di produrre “beni reali” e “occupazione”, ma quello di “raschiare” i beni esistenti in tutti i casi in cui i debitori non fossero in grado di pagare i loro debiti. A questo punto, paradossalmente, assunse valore il “debito”, poiché il rovescio del “diritto di credito” è, per l’appunto il “debito”, e la ricchezza di un individuo è venuta a misurarsi, non più con la quantità di moneta convertibile in oro, e, quindi, con i beni reali, che un determinato soggetto possiede, ma con la quantità dei “diritti di credito”, trasformati in “titoli commerciabili”, in possesso dello stesso soggetto. E non è da sottovalutare il fatto che, normalmente, i debiti vengono acquistati a basso prezzo, e che le “valutazioni” di mercato possono anche aumentarne il valore dei “titoli commerciabili” dei quali essi sono a fondamento, qualora si ritenga che si tratti di “debiti” certamente, o quasi certamente, esigibili.
A questo punto, come agevolmente si nota, i “giudizi” di mercato non sono più basati sulla previsione dell’andamento dei prezzi di determinate merci, in relazione alla loro “quantità” prodotta e disponibile (ad esempio, acquisto grano nel momento del raccolto quando ce n’è grande quantità e, per questo, il prezzo è più basso, e penso di rivenderlo durante l’inverno, quando la quantità del raccolto è diminuita e il prezzo, conseguentemente, si è innalzato), ovvero sulla previsione dell’esito positivo di un programma di investimento produttivo da parte di una certa impresa, ma sul “gioco e la scommessa”, che possono avere ad oggetto la previsione della “solvibilità” del debito (e questo avviene per i “derivati” e le “cartolarizzazioni dei crediti”), o la previsione di “vendere” tutti gli immobili acquistati per un prezzo corrispondente a quello della somma dei titoli commerciabili collocati sul mercato per raccogliere danaro prima della vendita degli immobili stessi (il che avviene con la “cartolarizzazione degli immobili”), o la previsione dell’aumento di valore di determinate aree a seguito della costruzione di una data opera pubblica (il che avviene con la collocazione in mercato dei “projet bond”), e così via dicendo. In tutti questi casi, il valore del “titolo commerciabile” non dipende più dalla quantità dei beni reali disponibili sul mercato, o da programmi di investimento nella produzione di beni, e in ultima analisi dalla legge della “domanda e dell’offerta”, ma dal verificarsi o non dell’evento sul quale si è scommesso, cioè, in buona sostanza, dal “caso”. Se il gioco riesce, l’operatore finanziario guadagna, ma, lo si deve sottolineare con forza, se il gioco non riesce, chi perde (è questo l’assurdo) non è l’operatore finanziario, ma chi ha acquistato i titoli commerciabili collocati sul mercato. In sostanza, si gioca, come dice Luciano Gallino, con i soldi degli altri, provocando molto spesso veri e propri disastri finanziari.
In questa maniera, si disancora il mercato dalla realtà dei beni concreti (materiali o immateriali che siano) e lo si ancora invece al rischio del gioco e della scommessa. Il dato più sconcertante è che questi “titoli commerciabili”, che sono rischiosi e non offrono sicure garanzie, sono espressione di una “ricchezza fittizia”, e più precisamente di una “ricchezza creata dal nulla”, che tuttavia il mercato accetta come espressione di una “ricchezza reale”, e sono usati come se avessero un “valore intrinseco”, sino al punto che una legge del governo Berlusconi, ispirata dal Ministro delle finanze Giulio Tremonti, ha concesso ai Comuni di “pareggiare” i loro bilanci anche con i “derivati”, cioè con titoli tossici ad altissimo rischio di insolvenza. In questi casi, come agevolmente si capisce, il crollo dei derivati provoca lo stato di insolvenza dei Comuni (e non è da dimenticare al riguardo anche il caso del Monte dei Paschi di Siena, ritenuta una banca troppo importante per fallire), con la conseguenza che a pagare siano gli incolpevoli cittadini che vengono costretti al pagamento di nuove imposte dei tipi più disparati.
E’ evidente, a questo punto, come il “sistema economico finanziario” ha dato ingresso al mercato a una quantità enorme di titoli commerciabili che non hanno un valore reale, ma solo fittizio, creando uno “squilibrio” oramai incolmabile tra beni reali e beni fittizi (si parla di trilioni e trilioni di derivati in dollari e in euro) ed abbia posto tutte le premesse affinché la speculazione finanziaria possa arricchirsi agevolmente, scaricando sulla collettività le conseguenze nefaste del suo spericolato agire. Il risultato è stato la formazione di una classe di operatori economici e finanziari, che ha acquistato un potere immenso, accentrando la ricchezza nelle proprie mani e condizionando le scelte dei politici a proprio vantaggio e ai danni dell’intera popolazione. E’ la conseguenza diretta dell’affermazione di una teoria del tutto illogica, ma che ha saputo conquistare l’immaginario collettivo, il cosiddetto “neoliberismo economico”, secondo il quale l’unica forma di appartenenza è la “proprietà privata”, lo “stato sociale” deve essere abbattuto, l’”accentramento” della ricchezza nelle mani di pochi giova a tutti (Bauman ha risposto: “è falso”) e la “libertà del mercato” deve essere incondizionata.

4. – E’ inoltre da porre in evidenza che questa “deformazione” del mercato ha riguardato, non solo la “creazione dal nulla” di una “ricchezza fittizia”, ma anche l’affermazione, presto diffusasi nell’immaginario collettivo ad opera delle citate teorie neoliberiste, di una tendenza volta a portare tutto sotto il “giudizio dei mercati”. Ed è stato a causa di questa tendenza che nell’autunno del 2011 gli speculatori finanziari, in aperta violazione di tutti i trattati internazionali che tendono ad assicurare la stabilità dei prezzi, e senza che nessun governo si opponesse, hanno potuto attaccare i “debiti sovrani” e cioè di incidere sui “tassi di interesse del debito pubblico” dei Paesi da loro ritenuti economicamente più deboli. Questo attacco deve essere stato necessariamente concordato dagli speculatori, poiché, per quanto ci riguarda, sul finire del 2011 l’economia italiana era ancora in ottima salute ed è stata solo la firma e poi l’esecuzione del “fiscal compact” da parte del governo Monti (che si è inchinato ai voleri della “troica”) a gettarla nella “recessione” e poi nella “deflazione”, dalle quali, nella persistenza dell’attuale stato delle cose, è impossibile uscire. Non sfugge, infatti, che qui non si tratta di una crisi economica ciclica, ma dello”squilibrio” del sistema finanziario, causato dall’estrema libertà degli operatori economici, “squilibrio” che si potrebbe sanare solo con una nuova legislazione a livello internazionale, europeo e nazionale, che ponga limiti a questa estrema libertà dei mercati.
Inoltre, come si accennava, la situazione italiana è complicata dalla posizione dominante della Germania, la quale, impone agli Stati membri (Grecia e Italia in primo piano) una politica di “austerity”, che provoca recessione e miseria, mentre essa stessa, come gli altri Paesi del nord Europa, mantiene indenne il suo Stato sociale e persegue una politica di investimenti produttivi, facilitata dal fatto che i mercati, ritenendo il suo debito pubblico agevolmente solvibile (eppure si tratta di due miliardi di euro, più o meno come il nostro debito pubblico) praticano su di esso un bassissimo tasso di interesse, con la conseguenza che in Germania è facile avere credito dalle banche, e, quindi, investire in attività produttive, che producono occupazione e benessere collettivo, mentre il contrario avviene nei Paesi del sud Europa, costretti alla recessione e alla miseria, come poco sopra si diceva.
Il fatto è che la Germania ha raggiunto, in anticipo sugli altri Paesi Europei, questa sua posizione di dominio economico, perché i suoi governi hanno sempre seguito una politica di interesse nazionale, anche a costo di violare gli impegni assunti in sede internazionale.
Infatti, essa, per un verso ha pagato in minima parte i suoi danni di guerra, mentre ha fatto pagare a tutta l’Europa il costo della riunificazione tedesca, e, per altro verso, ha più volte violato i limiti posti dai Trattati Europei.
Quanto ai danni di guerra, questi erano stati valutati dal Trattato di Londra del 1953 in 23 miliardi di dollari, che furono poi ridotti a 11,5 miliardi di dollari da pagare in 30 anni, somma che, con il benestare tra l’altro dell’Italia e della Grecia, non fu rivalutata e che fu pagata nel 2010 con il versamento di poco più di 69 milioni di euro, praticamente il costo di una ventina di appartamenti nel centro di Roma. Quanto alla riunificazione tedesca, è da ricordare che Kohl pose il principio “una sola Germania un solo euro”, per cui, mentre il rapporto tra il marco della Germania est e quello della Germania ovest era di 1 a 5, egli considerò entrambi di pari valore, imponendo però degli altissimi tassi di interesse per evitare l’inflazione, contagiando così le economie degli altri Paesi europei e in particolare la nostra, che si vide aumentare i tassi di interesse fino al 25%.
Quanto alla violazione dei Trattati europei, la Germania ha superato per quattro anni i limiti del 3% del deficit rispetto al PIL, imposti dal Trattato di Maastrich; ha violato il divieto di “aiuti di Stato” alle imprese, concedendo a queste altissime elargizioni da parte di una banca pubblica istituita molti anni prima in attuazione del piano Marchal; e infine ha nascosto il suo avanzo commerciale, che ha toccato l’8%, mentre, secondo i Trattati, esso non deve superare il 6% nel triennio. In questa maniera, la Germania ha mantenuto indenne il suo Stato sociale, è riuscita ad accattivarsi la simpatia dei mercati, i quali considerano il suo debito pubblico (che è quasi pari al nostro) un debito sicuramente solvibile e, quindi, soggetto a bassissimi tassi di interesse, ha potuto, in virtù di questa fiducia da parte dei mercati, investire in attività produttive capitali concessi a credito da parte delle banche e, conseguentemente, ha potuto mantenere un basso tasso di disoccupazione. Né deve essere sottovalutato il ruolo che ha svolto a favore dell’economia tedesca l’esistenza della moneta unica, e cioè di un “cambio fisso” tra i vari Paesi dell’Unione Europea, poiché, come è evidente, il cambio fisso ha impedito ai Paesi in condizioni economiche svantaggiate di svalutare la propria moneta per favorire le esportazioni, mentre la Germania, essendosi creata, nel modo che si è visto, un’economia più forte di quella degli altri Paesi europei, non ha avuto problemi nell’esportazione dei suoi prodotti.

5. – Diversamente dalla Germania, i governi italiani hanno invece sempre perseguito una politica poco ispirata agli interessi nazionali e decisamente favorevole ai poteri finanziari. C’è un dato importante che ha caratterizzato questa politica ed è il grande impulso che essa ha dato, dal 1990 in poi, al disastroso fenomeno delle “privatizzazioni”, le quali hanno immensamente impoverito il nostro Paese e hanno altresì fortemente contribuito alla affermazione della potenza del mercato globale. Sia ben chiaro che “privatizzare” i beni, le aziende e le industrie italiane, significa impoverire le nostre risorse economiche e, fatto questo importantissimo, eliminare il collegamento tra beni, aziende e industrie con il “territorio”, poiché, come è evidente, un bene intestato non più allo Stato o a un Ente pubblico territoriale, ma a un privato cittadino, specie se si tratta di un cittadino straniero, significa porre tutte le premesse affinché quel bene giri per il mondo secondo la volontà del suo proprietario, come suol dirsi, “si delocalizzi”, producendo, in Italia, licenziamenti, disoccupazione e miseria.
La triste storia del nostro impoverimento comincia con una lettera del febbraio 1981 con la quale il Ministro delle finanze Beniamino Andreatta comunicava al Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi che il Tesoro rendeva autonoma la Banca d’Italia e, soprattutto, la scioglieva dall’obbligo di acquistare i titoli del debito pubblico italiano rimasti invenduti sul mercato. Fu un fatto gravissimo. Infatti, da quella data lo Stato, per pareggiare le proprie spese, non ebbe altra via se non quella di rivolgersi al mercato, sottoponendosi ai “tassi di interesse” che questo imponeva, tassi di interesse che furono la causa prima dell’innalzamento del nostro “debito pubblico”, e cioè del nostro impoverimento, cui si collegava l’aumento di potere dei mercati sull’andamento della nostra economia.
Il secondo passo fu compiuto dal Ministro del tesoro del Governo Andreotti, Giuliano Amato, il quale nel 1990 pensò di “privatizzare” le banche italiane pubbliche o di interesse nazionale, privatizzando così anche la Banca d’Italia (che oggi è formata da 50 banche private con a capo Unicredit e Banca Intesa). In tal modo l’organismo pubblico che dovrebbe difendere la nostra moneta è caduto nelle mani di banche private, le quali, ovviamente, gestiscono il tutto, non nell’interesse nazionale, ma nell’interesse delle banche stesse, e, quindi, del mercato in generale.
L’attacco proditorio all’economia italiana fu consumato, tuttavia, il 2 giugno del 1992 sulla nave Britannia, il panfilo della regina D’Inghilterra, che aveva gettato l’ancora a Civitavecchia, dove salirono a bordo i nostri politici, tra i quali Draghi, e, come sembra, Prodi e Tremonti, insieme al Presidente dell’IRI Bernabé e molti altri esponenti dell’industria italiana. Su quel panfilo, i nostri rappresentanti incontrarono un centinaio di esponenti finanziari specie britannici e decisero la “privatizzazione” dei gioielli italiani. Così il governo italiano, presieduto da Giuliano Amato, privatizzò le Aziende di Stato: Enel, Eni, Iri, e le industrie di Stato Alitalia e Pirelli. Seguirono poi infinite altre privatizzazioni e ora l’Italia si trova nello Stato che sappiamo.
E non si può nascondere che abbiamo toccato l’assurdo con il governo Berlusconi, il quale, con il decreto legislativo n. 85 del 2010, istitutivo del cosiddetto “federalismo demaniale” ha reso “vendibili”, e quindi “privatizzabili” i “demani” idrico, marittimo, culturale e minerario, nonché, con altre numerose leggi, ha, per così dire, “messo all’asta” gli immobili pubblici statali, regionali e comunali, consentendo la “svendita”, specialmente a stranieri, anche di veri e propri monumenti artistici e storici, come la “Zecca” di piazza Verdi a Roma e la famosa Casina Valadier del Pincio sempre a Roma. Ma sono stati venduti anche tratti di spiaggia e interi territori di incantevole bellezza.
Così, è bene ripeterlo, i nostri governi hanno impoverito l’Italia e arricchito gli speculatori finanziari, aumentando la potenza dei mercati. E questa politica, è inutile nasconderlo, è stata proseguita ed è in atto anche dall’attuale governo Renzi.
Si deve comunque osservare che le “privatizzazioni” dei beni e dei demani pubblici italiani, molto lodati dalla “troica” e dalla Germania (che si guarda bene dall’effettuarle nel suo Paese), sono anche una diretta conseguenza della deviazione del sistema economico finanziario, che, come si è visto, tollera il “debito pubblico tedesco”, ma non tollera il “debito pubblico” italiano o Greco, poiché, essendo prevalsa l’idea che l’Italia non offre “adeguate garanzie” e che pertanto deve “tenere i conti a posto”, non c’è altra via per gli amministratori pubblici per tentare di “pareggiare i bilanci”, se non quella di vendere i nostri gioielli, e cioè i nostri beni di maggior pregio e di più esaltante bellezza.
E’ da sottolineare, inoltre, che la politica dei governi italiani non si è fermata alle “privatizzazioni”, ma ha anche in mille modi favorito la “devastazione” del territorio italiano. Sempre per fare cassa si sono concesse permessi di costruire ovunque, sulle spiagge, sugli alvei di fiumi e torrenti, sui terreni coperti da boschi e foreste, e persino sui vulcani, specie da quando una legge ispirata da Bassanini ha consentito ai Comuni di destinare gli oneri urbanistici anche a spese correnti. Né di può dimenticare che le leggi emanate nell’ultimo ventennio, dalla legge obiettivo di Berlusconi fino allo Sblocca Italia di Renzi, per favorire le imprese e le multinazionali, hanno concesso una enorme quantità di “deroghe” alle norme urbanistiche, fino a stabilire con la recente legge sulla riforma della pubblica amministrazione, che il principio del “silenzio assenso” si applica anche nei territori gravati da vincoli paesaggistici, urbanistici, idrogeologici e cosi via dicendo, mentre le Soprintendenze non sono più organi indipendenti, ma sono sottoposte alla vigilanza dei Prefetti.
Né si può dimenticare che, sempre per seguire le prescrizioni della “troica”, i governi degli ultimi anni hanno fortemente indebolito lo Stato sociale, “tagliando le spese” per la sanità, l’istruzione, la ricerca, la protezione dell’ambiente, e persino le spese per la sicurezza e la giustizia. Si direbbe che la politica italiana concorda con la politica della grande finanza, delle multinazionali e delle banche, le cui reali intenzioni sono rivelate dai contenuti del Trattato tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, di prossima attuazione, che prevede “l’immunità”, penale, civile e amministrativa, degli operatori economici e finanziari, come del resto già è stato fatto per il Meccanismo Europeo di Stabilità, organismo europeo che concede i prestiti agli Stati membri in difficoltà, i cui componenti e i cui archivi sono “immuni” da qualsiasi ingerenza dei giudici nazionali.
La tendenza, favorita dai nostri governi, è dunque quella di abbattere gli Stati nazionali per creare un mondo globalizzato, nel quale, come predica il “neoliberismo”, non esistono più “territori” o “Popoli”, ma uno “spazio libero”, nel quale si realizza l’obiettivo unico del “massimo profitto” degli operatori economici e finanziari, i quali possono agire con la massima libertà anche se le loro azioni di carattere economico finanziario producono distruzioni ambientali e veri e propri genocidi. Infatti, come prevede il citato Trattato transatlantico di prossima emanazione, essi sono indenni da qualsiasi responsabilità, anche penale. Insomma, stiamo camminando verso una configurazione del mondo in cui il “valore” della “Natura” è completamente calpestato e, con la Natura, è schiacciato anche il ”valore” dell’uomo inteso come essere vivente dotato di intelletto e volontà, mentre viene configurandosi il modello, cui mira l’ideale neoliberista, dell’uomo “auto imprenditore”, la cui attività deve essere rivolta all’accumulo del danaro e all’abbattimento di tutti vincoli che frenano questo tipo di attività.
A questo punto si capisce come e perché ci sia stato un travaso di ricchezza dagli Stati ai privati che agiscono nel mercato e perché “la ricchezza privata supera ora di 12 volte la ricchezza di tutti gli Stati del mondo”. La premonizione di Roosevelt, secondo la quale “una democrazia non è salda, se consente a uno dei suoi componenti di possedere una ricchezza maggiore di quella dello stesso Stato democratico”, si è verificata a livello globale e la conseguenza, che è purtroppo sotto gli occhi di tutti, specie dopo le recenti riforme costituzionali, è la fine della “democrazia”. Dal punto di vista giuridico, si può affermare che la “sovranità”, cioè la somma dei poteri da far valere in ultima analisi con la forza, è passata dagli Stati o dalle Unioni di Stati al “mercato”, e cioè alla “finanza”, la quale determina il livello dei prezzi e dei tassi di interesse e, di conseguenza, ha nelle sue mani la nostra vita e il nostro futuro.

6. – E’ urgente, dunque, correre ai ripari. E la soluzione è a portata di mano:si tratta di applicare la nostra Carta costituzionale, la quale è stata violata e addirittura vilipesa dalle sopra citate leggi in contrasto con gli interessi di tutti gli Italiani. Si deve in sostanza affermare che la “potenza” della “finanza” è come un gigante dai piedi di argilla, che si può senz’altro neutralizzare se, anziché andar dietro le inconcepibili teorie neoliberiste, si realizza lo “Stato sociale” che la Costituzione prevede, dando reale attuazione alle norme del Titolo III della I Parte della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”.
L’obiettivo fondamentale da raggiungere è far capire che l’arma di cui si serve la finanza per accentrare tutta la ricchezza nei mercati e indebolire gli Stati nazionali togliendo loro pezzi di demani e di estesi territori, è l’istituto giuridico della “proprietà privata”, la quale non è affatto quello “strumento acuminato” al quale è impossibile resistere, che la propaganda neoliberista vorrebbe far credere, ma è, in base alla Costituzione, un tipo di “appartenenza” subordinato all’”utilità sociale” e controbilanciato da un altro tipo di appartenenza che è la “proprietà collettiva del territorio”, che spetta al Popolo a titolo di sovranità.
Conviene innanzitutto mettere in evidenza che “in principio” non esisteva la “proprietà privata”, ma la “proprietà collettiva”, come inconfutabilmente ha dimostrato il Niebuhr sin dal 1811. Quando l’uomo branco, che viveva di caccia e di rapina combattendo altri uomini branco, divenuto più maturo, decise di diventare uomo “civile” e costituì la prima “Comunità politica”, intuì subito che nell’ambito dei tre elementi di cui la Comunità era costituita (Popolo, territorio e sovranità) un dato indefettibile era l’”appartenenza del territorio al Popolo”, a titolo di sovranità. Infatti, se, venendo ai tempi storici, si guarda alla fondazione di Roma, si vede subito che l’utilizzazione da parte dei singoli di piccole zone del territorio fu possibile solo a seguito di un atto sovrano del Popolo, la Lex centuriata o un plebiscitum, che era presupposto necessario della divisio et adsignatio agrorum, che questo uso consentiva. “La correlazione tra sovranità e appartenenza del territorio” fu mantenuta anche nel medio evo, quando la sovranità passò al Sovrano e si distinse tra “dominium utile” del coltivatore della terra e “dominium eminens” del Sovrano, e fu recisa solo dalla restaurazione borghese, quando il Tomalis diresse i lavori di compilazione del code civil del 1804 in base al principio “l’imperio al Sovrano, la proprietà ai privati”. Fu allora che avvenne una “cesura” tra proprietà collettiva del territorio e sovranità e si cominciò a parlare di “proprietà privata” come di un diritto originario, pieno e assoluto. La questione è stata, tuttavia ricomposta dalla nostra Costituzione, per la quale il “territorio” appartiene al Popolo a titolo di sovranità.
Ciò si ricava da una lettura letterale e logica dell’art. 42 Cost. Secondo questo articolo “la proprietà è pubblica e privata”. L’aggettivo “pubblica”, come da tempo rilevò Massimo Severo Giannini, significa “del popolo”, si tratta cioè di un’appartenenza riferita a tutti i cittadini e inerente, quindi, a “beni fuori commercio”, mentre l’aggettivo “privata” fa riferimento alla proprietà disciplinata dal diritto privato, che riguarda i beni “commerciabili” e può appartenere a qualsiasi soggetto, sia pubblico, sia privato. Lo conferma il seguito dell’art. 42, che così di esprime: “I beni economici (e cioè i beni commerciabili) appartengono allo Stato, a enti o a privati”. Si tratta, come agevolmente si nota, di “due tipi di proprietà”, caratterizzati da una ben diversa disciplina.
Quanto alla “proprietà privata”, è molto significativo quello che si legge nel secondo comma di questo stesso comma, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ei limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ ovvio che qui si parla solo della grande proprietà, cioè della proprietà dei beni che producono un’utilità esuberante rispetto ai bisogni strettamente individuali e familiari (che sono diritti fondamentali ai sensi dell’art. 2 Cost.) del proprietario privato e il limite che si pone è di grande importanza, poiché afferma che questo tipo di proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge solo e in quanto “assicura” il perseguimento della “funzione sociale”, con l’ovvia conseguenza che “il mancato perseguimento della funzione sociale” fa venir meno la “tutela giuridica” del bene stesso, il quale torna là da dove era venuto, cioè nella proprietà collettiva del Popolo, senza bisogno di esproprio e indennità di espropriazione. E’ un discorso questo di grande attualità, poiché riguarda un’immensità di industrie e terreni privati abbandonati che coprono migliaia di Km quadrati del nostro territorio senza essere utilizzati. E’ urgente che i sindaci promuovano adatte procedure per l’acquisizione di questi beni al patrimonio comunale e per la loro utilizzazione per fini sociali. Il Comune di Napoli, con due delibere approvate dalla Giunta comunale, si è già posto su questa strada.
Dunque, in base alla nostra Costituzione, che è legge fondamentale della Repubblica, la “proprietà privata” non ha quella portata che il pensiero neoliberista vuol far credere ed esistono tutti i mezzi giuridici per ricomporre il grande “squilibrio” che si è verificato tra “proprietà del Popolo” e “proprietà dei privati”. Né si dimentichi che la ricostituzione dello Stato sociale comporta anche “un’economia mista”, nella quale le industrie di appartenenza del Popolo cooperano con i proprietari di industrie e aziende private. In tal modo si assicura anche ai giovani di poter accedere a concorsi, poiché “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, come prescrive l’ultimo comma dell’art. 97 Cost., concorsi che, ovviamente, sono spariti con le “privatizzazioni”, le quali, tra l’altro, sono state operate in aperto contrasto con quanto prescrive l’art. 43 Cost., riguardo alle imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia e a industrie che possano dar luogo a situazioni di monopolio. Per dettato costituzionale, questi tipi di impresa dovrebbero essere in mano pubblica o di “Comunità di lavoratori o di utenti”. La loro privatizzazione, come anche la privatizzazione di una quantità enorme di imprese e territori, ha reciso il collegamento dell’attività produttiva con il territorio, e ha dato ingresso a licenziamenti di operai, lavori saltuari, “delocalizzazioni”, disoccupazione e miseria.
Da quanto sin qui esposto risulta inoltre evidente che la proprietà collettiva non solo ha una precedenza storica sulla “proprietà privata”, ma ha anche una “prevalenza costituzionale” sulla stessa, poiché la tutela giuridica del proprietario privato è subordinata al perseguimento della “funzione sociale”. Insomma è l’interesse pubblico, è l’interesse del Popolo che deve prevalere su quello dei privati e non viceversa, come oggi avviene. Lo conferma anche l’art. 41 Cost., secondo il quale “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. L’interesse pubblico, dunque, deve prevalere sul privato e sono illecite le “privatizzazioni”, poiché perseguono un fine opposto.
Un dato molto importante da porre in evidenza è che la titolarità della proprietà privata immobiliare non porta con sé il potere di edificare, il “ius aedificandi”, o di scavare nel sottosuolo, il “ius fodiendi””. Ciò significa che il Popolo sovrano, nel “cedere” a privati piccole zone del suo territorio, non ha ceduto il potere di “trasformare” il territorio stesso, né in superficie, modificando il “paesaggio”, né in profondità, modificando il sottosuolo, le falde acquifere e così via dicendo. Dunque, nel contrasto tra un privato che vuol costruire in base al suo diritto di proprietà privata, ed un cittadino che vuole impedirglielo in quanto comproprietario di una proprietà collettiva che spetta a tutti a titolo di sovranità, è quest’ultimo che si trova in posizione molto più forte, poiché esso fa valere, come “parte” di tutto il Popolo, un potere sovrano che il privato non ha.

7. – Dunque, per “riequilibrare” il grande “squilibrio” che si è verificato tra conservazione e valorizzazione della Natura e speculazione edilizia distruttiva dei suoli agricoli e della bellezza del paesaggio, è necessario far valere il “diritto collettivo di tutti” alla tutela dell’ambiente e del paesaggio” contro i sopraffattori di questi beni, che sono “beni comuni” in appartenenza di tutti.
Per far sì che la “Natura” si esprima in tutta la sua “bellezza”, la Costituzione ci dà un efficacissimo aiuto, ponendo nelle mani del Popolo la possibilità di ricostituire un “equilibrio” sia del “sistema economico finanziario”, sia dell’”ordinamento giuridico”. Si tratta, in sostanza di abrogare le leggi illegittime sopra menzionate che stravolgono sia il sistema economico che quello giuridico e occorre soprattutto far capire all’immaginario collettivo la posizione subordinata che, nell’ordinamento costituzionale, occupa la “proprietà privata” rispetto alla “proprietà collettiva del Popolo”.
A questo fine, lo strumento giuridico che ci offre la Costituzione è quello della “partecipazione popolare”, che mai come oggi, nel comportamento anomalo dei pubblici poteri, ha assunto il valore di un vero e proprio “contropotere” per correggere gli errori dei governanti. E si badi bene che questo potere si esercita sul piano legislativo con la proposta di legge popolare (art. 71 Cost.) e con la richiesta di un referendum abrogativo (art. 75); sul piano amministrativo costituendosi davanti al responsabile del procedimento amministrativo come “portatori di interessi diffusi”, ai sensi della legge n. 241 del 1990; sul piano amministrativo e giudiziario facendo valere i poteri di cui all’ultimo comma dell’art. 118 Cost., secondo il quale: “Stato, Regioni, Città metropolitane, province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, in base al principio di sussidiarietà”.
E si badi bene che di un “contropotere” rispetto alle prescrizioni della “troica” dispone anche la Corte costituzionale, la quale può vietare l’ingresso nel nostro ordinamento di normative europee che violino i “diritti dell’uomo”. Si tratta della teoria cosiddetta dei “controlimiti”, affermata costantemente dalla stessa Corte costituzionale.

8. – In conclusione, può dirsi che il volontariato italiano, che è tanto attivo in tutti i campi, deve assumersi due importanti carichi: l’uno sul piano sociale, l’altro sul piano politico e giudiziario.
Sul piano sociale, l’obiettivo deve essere, in conformità a quanto si legge nell’Enciclica “Laudato sì”, quello della “decrescita”. Come sopra si accennava, gli scienziati hanno già detto che, a partire dal 2 agosto 2012, la Terra non è più in grado di “rigenerare” quanto viene consumato da 7 miliardi e 200 milioni di abitanti. E’ impossibile pensare che si possa andare avanti secondo gli schemi neoliberisti di uno “sviluppo senza fine”, essendosi ormai esaurita la capacità rigenerativa della Terra, e essendo sulla via dell’esaurimento anche le risorse non rinnovabili. Qui, come è ovvio, non ci sono ricette miracolose e la stessa tecnologia può esserci di aiuto solo fino a un certo punto. Il provvedimento da adottare è solo “il cambiamento degli stili di vita”, che significa evitare gli sprechi, incrementare l’agricoltura biologica e l’artigianato, gestire il turismo in modo accorto e consapevole, evitare completamente il consumo dei suoli agricoli con altre edificazioni, impedire le emissioni di gas tossici e così via dicendo.
Sul piano politico e giudiziario, anche questa volta in perfetta consonanza con L’Enciclica di Papa Francesco, occorre far capire che potremo salvarci da quella che viene chiamata crisi, abolendo la nostra sottomissione ai voleri della finanza (la quale si esprime soprattutto con le prescrizioni della BCE e del Fondo monetario internazionale, formati entrambi da banche private), ricostruendo lo Stato sociale, vietando le privatizzazioni, le delocalizzazioni e le liberalizzazioni, tutti strumenti micidiali che hanno come fine i guadagni delle multinazionali e l’impoverimento del popolo italiano.
E c‘è, infine, per riattivare l’economia, la necessità di un intervento statale nell’economia attraverso la realizzazione di una grande opera pubblica di risanamento dello “squilibrio” idrogeologico d’Italia, un’opera pubblica che diffonda ricchezza su una vasta platea di lavoratori, i quali certamente chiederebbero prodotti ai negozi, costringendoli a rivolgersi alle imprese, le quali, a loro volta dovrebbero, per necessità, assumere operai, ricreando così un circolo virtuoso. Ben altro che gli aiuti diretti alle imprese e alle banche, che si trovano, non alla base, come i lavoratori, ma alla fine del ciclo economico, e che certamente non ritengono conveniente investire i capitali ricevuti in attività produttive.
E’ questo che potrà far crollare il gigante dai piedi di argilla della finanza internazionale. E’ indispensabile, a questo fine, capovolgere l’immaginario collettivo, ponendo al centro dell’attenzione la “proprietà collettiva del territorio” e non la “proprietà privatala”; è necessario abrogare quel fiume di leggi incostituzionali che difendono gli interessi della finanza e non quelli del Popolo; occorre, in una parola, restaurare lo Stato sociale, che, secondo il pensiero di Papa Francesco, è da considerare come una “famiglia”, nella quale si evitano distorsioni e si distribuisce la ricchezza secondo criteri di assoluta “eguaglianza”.
Se si riuscirà a cambiare l’attuale stato di cose, se gli Italiani sapranno far valere la loro intelligenza creativa e la loro integrità morale, potremo risalire la china e fare del nostro Paese un luogo nel quale domina l’armonia, l’equilibrio, la bellezza,la vita.

Bioetica e diritti individuali

Giorgio Berchicci

(intervento al XV Corso di Formazione in Bioetica dell'Istituto Italiano di Bioetica - Campania)

“Vorrei ricordare a Paola Binetti che è una eletta ( al Parlamento ndr.) della Repubblica italiana e non una nominata dello Stato Vaticano”.[1]
Non c’è dubbio: una tegola sulla testa del nuovo Governo presieduto da Romano Prodi, tanto da costringerlo ad istituire un “Commissione per i problemi di carattere bioetico” che sarà coordinata da Giuliano Amato e sarà costituita da Ministri di estrazione laica e cattolica: lo scopo è quello di cercare una onorevole mediazione su questi argomenti tra le due fazioni che costituiscono la attuale maggioranza di Governo.
Ma che cosa è successo di tanto straordinario da scatenare questa tempesta tra “ laici “ e “ cattolici ” dell’ Unione, e le reazioni stizzite del Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, Prof. Francesco D’Agostino e di alcuni componenti che, di fatto, si vedono scavalcati nel loro ruolo, e nelle funzioni, da questa istituenda Commissione? Semplicemente, il Ministro della Ricerca Scientifica, Mussi, aveva modificato la posizione assunta dall’Italia nei confronti delle sperimentazioni promosse dall’Unione Europea sulle cellule staminali. Il precedente Governo Berlusconi, come è noto, aveva rifiutato la possibilità che l’Italia partecipasse a queste sperimentazioni e, con esse, rinunciato anche ad avere i fondi necessari stanziati dall’Unione Europea (ma tutti zittivano sul fatto che fosse possibile continuare la sperimentazione su embrioni acquistati all’estero, che notoriamente non sono “persona”, né hanno “anima” né sono “vita”). Il ministro Mussi non ha ritenuto che si potesse continuare ad avere questa posizione politica ed ha ritirato la firma dell’Italia tra i Paesi non partecipanti, ma, non essendo stata la sua una decisione collegialmente presa dal Consiglio dei Ministri, è stata duramente attaccata dalla Parlamentare cattolica Binetti, assolutamente favorevole all’iniziativa del precedente Governo.
Ho voluto dare conto di questa simpatica, e decisamente italica “querelle” perché, pur nella sua estrema semplicità, contiene tutte le motivazioni dell’argomento che ci accingiamo a trattare e che riguarda il rapporto tra Bioetica e diritti individuali.
L’art 2 della Costituzione “riconosce e garantisce il rispetto dei diritti inviolabili dell’Uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (…)“ riprendendo quel complesso di documenti come la “ Carta dei Diritti Umani”, la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, il Patto sui Diritti Civili e Politici, il Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali.
Di solito, per motivi di carattere espositivo, i diritti umani vengono distinti in tre generazioni:
a- diritti civili e politici, o diritti di prima generazione, che realizzano l’autonomia dell’individuo nella società e la partecipazione alla vita politica e riguardano essenzialmente le libertà individuali sia in senso positivo (come la libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di associazione etc etc) sia in senso negativo (inteso come mancanza di qualcosa, e consistono nel non dover subire tortura, schiavitù, arresto arbitrario, discriminazioni etc.)
b- diritti economici, sociali e culturali, o diritti di seconda generazione, come il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, alla tutela sindacale, alle cure mediche,
c- diritti di solidarietà, o diritti della terza generazione, come il diritto alla pace, all’autodeterminazione , al godimento delle risorse della terra e dello spazio, ad un ambiente sano ed equilibrato.
In un lungo ed interessante capitolo redatto per un documento del CNB, “Etica, sistema sanitario e risorse”, il Dott. Giovanni Incorvati inserisce il diritto alla tutela della salute, descritto all’art 32 della Carta Costituzionale, come un diritto di quarta generazione, intendendo in questo modo definirlo come un diritto opponibile ed ottenibile dallo Stato. All’inizio la tutela della salute si è presentata sotto le sembianze dei diritti di libertà opponibili allo Stato, come habeas corpus, diritto all’integrità fisica. Successivamente, si è valutato che poteva essere considerato tra i diritti di eguaglianza che si possono far valere nei confronti dello Stato, come il diritto all’assistenza sanitaria per tutti i cittadini. Oggi si sarebbe tentati di inserirlo fra i diritti di terza generazione, quelli universali, realizzabili attraverso la cooperazione di tutti e che riguardano tutti, comprese le generazioni future. L’inserimento tra i diritti di quarta generazione nasce dalla considerazione che, laddove è inscritto nelle Carte Costituzionali, il diritto alla tutela della salute è un diritto opponibile allo Stato ed esigibile dallo Stato. “Mentre l’Art.32 comma 2 della Costituzione italiana richiede il “rispetto della persona umana”, l’Art.3 comma 2 ne rivendica “il pieno sviluppo” e pone a carico della Repubblica l’obbligo di farsi parte attiva in tale processo. Si può dire anzi che il diritto alla tutela della salute è tanto più esigibile quanto più opponibile…”.
A questo punto, dopo aver esaminato il concetto di diritti - che non sono affatto equiparabili a “capricci” di adulti un po’ prepotenti, come a volte sembra affiorare dalle righe dei giornali – proviamo a ricollegarci con la “querelle” di cui sopra, e partiamo con una domanda di quelle che vengono definite provocatorie. La Carta Costituzionale è il patto scritto che regola i rapporti tra il cittadino e lo Stato, ed in essa sono ampiamente garantite la libertà di culto religioso e di idee politiche . Non solo, ma ogni cittadino può dare il suo contributo ideale alla vita del Paese partecipando in forma attiva alla vita politica e, magari, risultando eletto in uno qualunque degli organismi previsti. Ebbene, mi domando se sia lecito che un gruppo abbastanza ampio di Parlamentari, che ispira la sua azione politica ad una fede religiosa, possa, in nome di quella, condizionare pesantemente il diritto di tutti i cittadini a vedersi riconosciuti una serie di diritti individuali che pure sono garantiti a tutti dalla Carta Costituzionale.
Più brevemente e più direttamente: ci si può candidare al Parlamento di uno Stato di diritto essendo portatori di una convinzione religiosa e non intendendo scindere, nell’esercizio del proprio mandato, i convincimenti politici dalla fede religiosa? Non è questa, una gestione “islamica” del potere politico, che noi tanto vituperiamo? E si può tollerare che, in uno Stato multietnico, i rappresentanti eletti di una fede religiosa facciano aggio anche su quelli che osservano altre fedi religiose?
L’Italia non è uno Stato laico, come tanti in Europa, in primis la Francia, perché è uno Stato Concordatario: e questo è sempre stato avvertito come un limite profondo alla completa realizzazione dei diritti individuali nel nostro Paese. Non è un caso che le battaglie per i diritti civili qui da noi hanno sempre avuto un percorso estremamente travagliato!
Quando fino a tredici anni or sono, c’era il partito della Democrazia Cristiana che rappresentava, con il suo circa 40% dei voti, l’unità politica dei Cattolici, era abbastanza facile per gli oppositori, ma anche per gli alleati, indurre questi uomini al rispetto della Carta Costituzionale e della “laicità” dello Stato. Oggi che è terminata questa unità politica dei cattolici, ed i suoi aderenti sono presenti in tutti i partiti, ci troviamo di fronte ad una sorta di schieramento trasversale che scavalca completamente i programmi di governo per affermare una supremazia religiosa che avvicina tantissimo l’Italia ai Paesi islamici.
In questo quadro, parlare del rapporto tra Bioetica e diritti individuali diventa forse un puro esercizio dialettico, certamente gradevole e, come si era soliti dire fino a qualche anno fa, “culturalmente impegnato”. A meno che non si voglia sottolineare, in maniera inequivocabile, e senza possibilità di fraintendimenti di sorta, una cosa che molti sembrano non cogliere : la bioetica è politica, certamente politica alta e non partitica, ma è politica, e l’esame della Costituzione apre orizzonti impensabili, ma contraddittori sulla nostra situazione di Paese Occidentale e fondatore dell’Unione Europea ! Parlare del diritto ad un ambiente salubre, alla tutela della salute, del diritto ad avere un acqua pura e potabile, tenendo conto che le aree di desertificazione aumentano anche da noi e che le condotte comunali sono fatiscenti e disperdono più acqua di quanta ne consegnino a domicilio, è politica!
Parlare di diritti individuali, e, nello stesso tempo, vedersi contrapposti i diritti collettivi e la famiglia come contraltare al cittadino, è politica! Si potrebbe parlare, vista la mia estrazione odontoiatrica e la passione con cui seguo la bioetica nell’ambito odontoiatrico, del diritto al sorriso, o del diritto ad avere in bocca una dentiera per poter ancora mangiare in condizioni accettabili, quando non si ha più l’età per una bocca sana e bella.
Ma che valore possono avere questi pur “sacrosanti” diritti, di fronte al fatto che nei confronti dei disabili non si applicano due prerogative fondamentali della nostra Costituzione, quali i principi di solidarietà e di sussidiarietà, che tanto spesso vengono strombazzati solo come slogan elettorali? Eppure, questa martoriata categoria di persone dovrebbe essere particolarmente cara a chi, della fede religiosa, ne ha fatto una ragione di impegno morale e civile!!! Proprio recentemente la Regione Toscana ha impegnato una somma enorme di denaro, per la precisione 4.500.000,00 Euro per la prevenzione della carie dentaria nei bambini residenti nel proprio territorio: sembrerebbe una bellissima notizia, indicativa di una più spiccata sensibilità nei confronti dei più deboli, in questo caso i bambini “ normali ”. E i disabili, come fanno a lavarsi i denti, quando spesso soffrono di in coordinazione motoria agli arti? E avete mai sentito di un uguale impegno di spesa per la ricerca di un vaccino contro la carie, che potrebbe essere di beneficio a tutti, e soprattutto, non solo ai bambini italiani? Ma i fini istituzionali dell’Università, non sono la ricerca e la didattica?
Una piccolissima annotazione di “ colore ”: nel gruppo di lavoro che ha stilato il Documento ufficiale della Bioetica in Odontoiatria, costituito dal Prof. Giancarlo Umani Ronchi e da me, fu inserito un noto cattedratico proveniente dall’Università Cattolica, ed essendo stato invitato a partecipare quando i lavori di inizio erano già a buon punto, ci sembrò doveroso metterlo al corrente di quanto finora fatto per avere anche la sua preziosa opinione in merito. Quando giungemmo al punto di dover affermare, senza ombra di dubbio, che non c’era ricerca in campo odontoiatrico per debellare la carie dentaria e le parodontopatie, che si sapeva tutto su queste malattie ma non si capiva per quale motivo non ci fosse ricerca ( o forse lo si capiva benissimo ), e che questo era uno dei motivi forti per cui l’Odontoiatria è una specialità di interesse bioetico, ebbene il nostro cattedratico cattolico, facendo la faccia più sorpresa ed ingenua del mondo cominciò sottovoce a bisbigliare:” Ma no! Ma no! Non possiamo dirlo!! Non sarebbe giusto nei confronti dei colleghi! In fin dei conti si tratterebbe di far sparire una professione !”. Ed alzandosi dalla sedia, ci salutò ed andò via.. Il Prof. Umani Ronchi ed io ci guardammo per un attimo, e riprendemmo a lavorare sul nostro testo senza aggiungere altro.
In conclusione, capisco perfettamente che è estremamente difficile “liberarsi" delle proprie convinzioni ed aderire ai dettati costituzionali, quando si è portatori di istanze che ci consentono di sedere in Parlamento con tutti gli innegabili vantaggi che da questa condizione derivano. E capisco anche che ci sia una parte partitica che, dichiaratamente, si esprime in favore della Dottrina sociale della Chiesa e quindi agisce di conseguenza. Non comprendo, invece, quelli che si auto-definiscono laici, i quali, per puro calcolo elettorale, spesso non si battono con maggiore impegno sul rispetto della Carta Costituzionale, e la rispolverano solo per i problemi legati alla cosiddetta Devolution, certamente importantissimi, ma non per il rispetto dei diritti individuali.
Sarebbe opportuna, a mio avviso, una presa di posizione diversa. Io non pretendo affatto di sostituire al diritto dei fedeli il diritto della minoranza laica. Non voglio commettere l’errore di sostenere che i Cattolici, non rappresentando tutta la popolazione del Paese, non possono imporre a chi non la pensa come loro la loro visione dei problemi di carattere bioetico: né voglio sostenere che i laici, pur essendo una sparuta minoranza, devono veder premiata la loro posizione che, per altro, non è impositiva nei confronti di nessuno, al contrario di quella cattolica. Dico semplicemente che, ormai, ci avviamo sempre più ad essere una società multietnica, e siccome da parte di tanti si ritiene che la prima parte della Costituzione della Repubblica Italiana sia intoccabile, allora la si faccia rispettare!! E se su certi argomenti non si riesce a rispettarla completamente, è bene che non si legiferi, piuttosto che proporre leggi che mortificano parti consistenti della cittadinanza!
Non sta scritto da nessuna parte che lo scopo di una Legislatura Parlamentare sia solo ed esclusivamente la produzione di leggi : Bruno Leoni ce lo ha insegnato, sarebbe meglio se una legislatura trascorresse nella eliminazione dei grovigli legislativi che, spesso, ci fanno pentire di essere cittadini del nostro meraviglioso Paese.

[1] 1 Dichiarazione di Marco Rizzo, deputato dei Comunisti Italiani, riportata dal Corriere della Sera e da Il Giornale del 06- 06- 2006

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