Sfondo emotivo e orizzonte etico della libertà di scelta nel rapporto terapeutico
Rossella Bonito Oliva
Il termine libertà di scelta acquista una sua specifica valenza nel momento in cui viene individuata la centralità del soggetto nella determinazione dell’azione. In questo orizzonte la libertà costituisce più l’esito fortunato che la condizione originaria di un rapporto terapeutico. Il soggetto della scelta e della libertà produce una articolazione, o meglio una cesura nell’ambito della datità biologica e del contesto socioculturale, introducendo un dato assolutamente innovativo. D’altra parte il concetto di libertà nella nostra tradizione si connota nel senso negativo della liberazione da, piuttosto che nel senso positivo e produttivo del termine. Se dovessimo seguire Hegel, le cui parole sono riprese da Foucault, dovremmo dire che il disagio mentale è , per ciò assenza di un soggetto capace di autodeterminarsi liberamente ai fini del raggiungimento di uno scopo. In definitiva la libertà presuppone un soggetto capace di scegliere in vista di un bene, condizione dell’umano, ma non di tutti gli uomini considerati nella concretezza delle storie personali, che si scrivono nella mediazione tra struttura psichica, orizzonte etico come trama interpersonale di poteri e norme e facoltà individuali.
Nel poco tempo a nostra disposizione vorremmo interrogarci su due elementi fondamentali legati al tema della libertà di scelta nel rapporto analitico, in cui la condizione di disagio rende problematico l’ultimo e decisivo momento della libertà di scelta. Possiamo concordare sul fatto che il rapporto analitico, come ogni rapporto di cura, implica originariamente una asimmetria tra i due soggetti interessati, in cui la cornice normativa è orientata nel senso di una liberazione dall’inibizione in vista dell’espressione e della riacquisizione dell’autonomia del soggetto. In altri termini l’asimmetria e il potere del terapeuta non giocano nel senso di un disciplinamento, piuttosto in quello della determinazione delle condizioni che restituiscono al soggetto più debole, il malato, la capacità di operare scelte. La cura dispone l’individuo verso il terapeuta a partire da una serie di aspettative, di desideri non del tutto consapevoli in vista di una sorta di progetto di riacquisizione del governo unitario di sé. L’oggetto della cura è la cura del soggetto in vista della riacquisizione di un’autonoma cura di sé.
Si può affermare che la cura è lo specifico dell’umano, nella misura in cui costituisce il passaggio dall’indeterminato alla determinazione personale attraverso la capacità di orientarsi nel mondo. Aristotele affermava che la sfera del comune – politica – determina la vita dell’uomo, né bestia, né Dio, dando misura al , né naturale, né divina, del desiderio. Detto in termini contemporanei si tratta di cogliere l’instabilità come caratteristica peculiare dell’uomo, che si apre al mondo e all’altro secondo il duplice e ambiguo registro della dipendenza e della trascendenza. Originariamente collocato in un mondo e in un tempo non scelti, insieme eccedente ogni spazio e tempo nella sua singolarità, l’uomo è con le parole di Jaspers intervallo tra un non-più e un non-ancora, processualità aperta a partire da un movimento di negazione, di dialettica integrazione del principio di piacere che regola la vita e il principio di sospensione o di inbizione del soddisfacimento, che rende la vita umana più che vita. L’umano è propriamente cura che si estende dal mondo proprio al mondo comune delineando ogni volta un profilo personale. Ogni nuova vita umana disegna partizioni di un universo comune e riarticolazioni del comune nel proprio. Se la sospensione non può riguardare il principio di piacere – il che interromperebbe in modo assoluto la vita – apre però un varco rispetto all’oggetto di investimento di questo principio. L’uomo cioè agisce sul doppio registro dell’apertura e della chiusura, dell’esterno e dell’interno, secondo una metabolizzazione regolata dal ripresentarsi sempre insieme della vita e della morte, di eros e thanatos. Sicurezza e stabilità dell’interno, del proprio giocano contro l’insicurezza e l’inaffidabilità dell’esterno, la sospensione della soddisfazione che lo espone all’esterno non chiude l’apertura, ma la orienta su oggetti resi familiari nelle forme della rappresentazione.
Nella misura in cui la libertà si dà nel poter essere altrimenti, in cui sono implicate le datità del mondo e della vita psichica. Non a caso l’uomo individua il bene in modo peculiare, lavorando in vista di un esonero dal peso inquietante dell’esterno produttore di frustrazione. Pensiero e vita umana si intrecciano a partire dalla capacità umana di riconfinare il mondo traducendo l’esterno in immagini proprie, che compensano del limite della prospettiva umana rispetto allo smisurato. Le rappresentazioni sono schemata nel caso della scienza, fantasmata nel caso della più generale attività psichica che traducono l’estraneo nel familiare, interrompendo l’inquietante dipendenza da altro e sospendendo la spinta cieca del bisogno. (Kant, Metafisica dei costumi.)
Tutta la sfera dell’agire, perciò della libertà dipende da questa articolazione. Inutile ricordare come il processo sia legato alla filogenesi e all’ontogenesi dell’umano, che nel loro intreccio non risolvono né l’instabilità nel senso dell’egosintonia, né l’egosintonia nel senso della stabilità. Questo non vuol dire altro che la libertà si radica nella processualità dell’umano per tutto quanto si configura a partire da processi che denotano insieme la plasticità e la fragilità della natura umana. Basti pensare qui a Freud, a Winnicott, a Laing e altri per ricordare come l’enigma dell’uomo rimane irrisolvibile quanto più si cerca di andarvi a fondo, perché il più profondo altro non rivela che il non essere padrone dell’Io, il suo fragile aprirsi al mondo attraverso sintesi o oggetti e fasi transizionali che segnano la difficoltà primaria di un essere bisognoso di padronanza, dipendente dall’Altro, capace di creare ibridi fantasmatici, in grado di vicariare l’esterno smorzando l’ansia dell’instabilità e della precarietà. La storia stessa del genere umano si scrive su questa articolazione dialettica sempre aperta sia nel senso del futuro che nel senso del destino degli individui. L’antico non è sufficiente a fornire certezze, dal momento che il Sé è terreno di iscrizione delle esperienze e di riassettamento continuo tra l’interno, non necessariamente proprio, e la risultante dei rapporti con l’altro visti nell’ampio raggio di tradizioni, poteri e discipline. Lo sbilanciamento verso l’interiorità del singolo o verso la pubblicità del comune si possono orientare pericolosamente verso la destabilizzante doppiezza del , recidendo alle radici la condizione specifica della vita umana come poter essere altrimenti come ponte tra passato e futuro.
In questo orizzonte va inidividuato lo sfondo da cui procede la tensione che indichiamo con il termine libertà, là dove legandolo alla scelta lo connotiamo nel senso positivo di libertà per qualcosa e non da qualcosa. Ogni individuo nel proprio fondo come ricorda Freud – (Analisi terminabile e interminabile) – affastella una serie di residui contenutistici, di trame che mantengono la traccia dell’esterno – in termini di inconscio storico, di investimenti emotivi – che danno la sfumatura specifica alla trama pulsionale che muove la struttura desiderante dell’individuo. Da questo altro da sé, da questa contingenza assoluta con cui si dischiude ogni vita individuale si origina la trama transindividuale di ogni storia personale, riemergendo in momenti ricorrenti, dalla crisi dell’identificazione fino ai fenomeni di primitivismo culturale, nell’attitudine fondamentalmente simbiotica di ogni esperienza umana. Simbiosi vuol dire tanto attaccamento a figure di passaggio, a filtri che proteggono dall’immediata esposizione all’esterno, quanto attitudine alla ricerca di un’omologazione e digestione di tutto quanto si manifesta come altro. Questa struttura protettiva sorregge l’articolarsi delle differenze tra maschile e femminile, proprio e altrui, interno e esterno, in cui procede il difficile cammino dell’individuazione. La neotenia è la manifestazione più propria della crescita umana intesa come ritardo della maturazione, che attutisce e rinvia l’assunzione della difficile condizione umana sospesa tra la spinta alla ripetizione e alla stabilità e il bisogno della scelta e del riconoscimento.
Inutile ricordare come la prima crisi di questo momento di trapasso scaturisce al suo interno, per l’ambiguità del legame simbiotico. La simbiosi sorregge la fragilità della vita immatura inibendo i processi di autonomizzazione: non regge dinanzi alla complessità, alla originaria differenza che segna ogni esistenza, segnata dal distacco, dell’esposizione allo scacco del negativo. L’unione simbiotica si infrange contro la processualità della vita, che porta al suo interno il positivo della protezione e il negativo del limite intrinseco per cui ogni più-che-vita in termini di sicurezza comporta un sacrificio. Basti pensare al passaggio del complesso edipico per comprendere come il principio di realtà comporti la canalizzazione dell’eros originario fuori dalla polarizzazione di amore e odio in direzione di una triangolazione, in cui la capacità dell’uomo di creare fantasmata, immagini, consente di superare la frustrazione dell’interdetto, dell’incesto. Il padre immaginario sostituisce il padre reale, il desiderio scivola dalla simbiosi alla rottura senza abbandono, amore e odio si proiettano altrove rispetto al plesso pulsionale che paralizza l’individuo, definendo nel disciplinamento e nella legge la misura del desiderio.
E’ il momento in cui certo si decide della libertà come possibilità di essere altro, in cui la patologia mette a nudo la contingenza del passaggio e decide dell’orientamento della stessa libertà di scelta dell’individuo. Se la frustrazione è la strada maestra della identificazione, la libertà dell’uomo si esprime anche nel sapere metabolizzare la frustrazione assumendola in un gioco in cui l’assunzione in proprio, attraverso i meccanismi di rimozione e metabolizzazione, traduce l’impatto traumatico nel dilazionamento, nell’ambiguità del rendere presente ciò che è assente e assente ciò che è presente. Il gioco è la prima forma di conoscenza, ma anche di libertà nella misura in cui l’uomo in esso progredisce in direzione di un orientamento nel mondo. Il pericolo della conservazione del legame simbiotico è nel surrogare i propri desideri nel desiderio dell’altro, mancando il contatto con il proprio desiderio. E’ qui che il medio che consente la comunicazione e la costruzione del ponte tra il non-più e il non-ancora rischia di tramutarsi nella forma inibente del massaggio e della spersonalizzazione, facendo facilmente rovinare la virtualità come possibilità e libertà nel virtuosismo e la plasticità della natura umana nella assoluta malleabilità indifferente a legami e radici. Sono gli effetti distorcenti e patogeni di una civiltà delle immagini, il cui potere seduttivo si gioca nella possibilità di gettare l’amo a viventi che non sanno né soltanto nuotare, né soltanto camminare, ma si muovono continuamente tra la terra e l’acqua, tra la stabilità e l’avventura.
Riandando con la mente alle tragedie greche a cui anche Freud si richiamava per leggere il disagio dell’umana contingenza si potrebbe dire che la vita umana sia segnata da timore e speranza e che soltanto il superamento della polarità di questi due sentimenti produce l’articolazione libera della vita umana. L’azione dell’eroe antico va nel senso dell’adesione a una passione, intesa come pathos, in cui all’elemento originario dell’affettività – quella plasticità umana segnata in senso transindividuale – si accompagna l’adesione piena, in cui l’azione produce un taglio, una svolta che tocca tutto il mondo circostante, in cui ne va dell’espressione della tensione al proprio bene come al proprio desiderio. La passione decide operando e opera decidendo, là dove l’eroe vive calato nella propria contingenza andando al di là della paura e della speranza, che dilazionando il bene, lo impegnerebbero in direzione di uno spostamento troppo in alto o troppo in basso rispetto al proprio presente. L’azione dell’eroe, però, si infrange contro un ordine più alto, ciò che ne fa un morto da vivo e un vivo da morto, colui che pur decidendo incorre nel riequilibrio della dike come terzo, che decide della ricaduta dell’azione che infrange ogni legge. Libertà indica appunto emancipazione, ma emancipazione non in senso soltanto distruttivo e negante, quello che popola il futuro di fantasmi che compensano il vuoto di soddisfazione del proprio presente. Il terzo è l’oggetto stesso della acquisizione di un bilanciamento tra principio del piacere e principio di realtà, il terzo risolve perché è il fantasma su cui si orienta il desiderio, senza che ne possa derivare frustrazione. L’eroe antico dà figura al tragico dell’esistenza umana, ate è Antigone come Edipo, scellerata e colpevole insieme non rispetto alla legge e all’ordine della disciplina, ma rispetto al destino, vittime della polarizzazione, esistenze mancate perché incapaci di elevarsi a quel terzo in cui soltanto si determina il limite produttivo della libertà.
Non certo necessariamente eroi gli individui possono scegliere nel senso della libertà, là dove il senso pieno di questo termine non si gioca soltanto nello spazio del da venire di un mondo che compensi dell’implosione del desiderio e della mancanza di bene. E’ in questo spazio che si colloca il potere della fantasia che permette di ritornare al mondo a partire da una condizione di sospensione mai assoluta, ma in vista di un attutimento della frustrazione della realtà che, segnando i limiti, confina il senso assoluto, ma insieme inquietante della libertà come salto. La fantasia è in definitiva un escamotage che sottrae alla legge e all’ordine della distribuzione del bene, al potere disciplinare che aderisce al desiderio dall’esterno e in maniera omologante. Ciò che è decisivo è proprio questa capacità di sottrarsi tanto all’assolutismo del desiderio di vita, quanto all’assolutismo del desiderio di morte nella configurazione del territorio proprio in cui l’intervallo tra il poter essere tutto e il non poter essere nulla acquista il profilo e i confini che consentono plasticità e instabilità come diritto dell’umano. Basta sfogliare le pagine dei testi di scienze umane per comprendere come il sogno umano sia stato quello della fissazione e del calcolo preveggente di quanto è il connotato dell’esistenza umana. D’altra parte tutta la storia umana si gioca all’interno di un gioco di poteri in vista della distribuzione ordinata dei beni in senso lato. Ideale del disciplinamento e pratica del disciplinamento, libertà sotto legge allude alla difficoltà della libertà di scelta.
Crediamo che la relazione terapeutica possa essere paradigmatica in questo senso per comprendere lo scacco o l’impotenza della libertà d’azione, costituendo una situazione-limite dell’esperienza della libertà di ognuno (Jaspers). Essa ovviamente si colloca nella continuità di una vita, non scioglie le sue difficoltà, non costituisce l’emancipazione nel senso della tranquilla individuazione del proprio bene. Non esiste la fine dell’analisi come fine dell’analisi, altrimenti si dovrebbe parlare soltanto di una dilazione di una possibile trasparenza del soggetto a se stesso, della possibilità che l’Io guadagni totalmente la proprietà dell’inconscio e la solidarietà del Superio realizzando il sogno della pienezza del tempo. L’incontro con il terapeuta certamente mette in gioco l’immanenza di una vita, la lascia scorrere nella sospensione del tempo e dello spazio della frustrante realtà, ma non elimina il circuito di spostamenti, rimozioni e sublimazioni in cui si è configurata l’identità anche nella sofferenza.
Quello che si definisce transfert come investimento di fiducia da parte del paziente non è di per sé risolutivo per la liberazione della corrente del desiderio. Non si tratta di venire a capo di un gioco di simulazione, piuttosto di creare uno spazio di espressione dei fantasmata, svincolandoli dalla frustrazione del disconoscimento. Il terapeuta è il terzo, il punto esterno in cui l’interno acquista il potere di espressione, ciò che è nominato padre, che ha il potere del padre svincolato dal timore del padre reale. Lo spazio terapeutico può, ma non necessariamente è, il luogo di costituzione di un potere personale nella misura in cui il terapeuta si dispone all’ascolto e all’empatia ricevendo gli investimenti immaginari del paziente. Se questo non implica immediatamente l’emancipazione dell’Io in quella casa di cui non sarà mai padrone, costituisce la via attraverso la quale si riattiva il circuito tra l’inconscio e il soggetto. Una forma di consapevolezza da cui non dipende una cosiddetta guarigione, ma una familiarizzazione con il proprio limite, come principio di individuazione. La capacità del terapeuta di plasmarsi sui fantasmi dell’Io non darà accesso alla fantasia del paziente, ma ricollocherà i prodotti di quella fantasia nell’interazione con la realtà in cui la polarizzazione del senza misura e della misura assoluta si scioglierà nella riappropriazione della trama della propria storia nella propria narrazione. In tutto questo determinante sarà l’investimento di fiducia, ma una fiducia che implica in definitiva la liberazione dell’istinto di libertà come diritto di ciascuno non contro gli altri, ma con gli altri.
Fiducia e libertà sono il comune amico del processo di identificazione in cui l’esistenza umana si dà la sua trascendenza non nel senso del timore e della speranza, ma nell’intervallo tra passato e futuro in cui sempre la libertà dell’uomo acquisisce il suo spazio e la sua configurazione. In fondo aderire al proprio destino non implica più sacrificio, ma adesione a se stesso, alla propria contingenza come né troppo da sacrificare a una misura esterna, né troppo poco da compensare in un al di là, ma nella misura che è il medio come luogo di comunicazione e di espressione del proprio.