Morte cerebrale ed espianto di organi
Paolo Becchi
(da "Il Giornale" 2/02/05)
Qualche giorno fa è apparsa tra le notizie di cronaca quella di una donna poco più che trentenne al quarto mese di gravidanza, entrata in coma, a seguito di una emorragia cerebrale, poco dopo Natale. Personalmente non ho notizie precise sulla condizione clinica della donna, di cui proprio oggi (31 gennaio) è stato ufficialmente comunicato il decesso, ma da quanto riportato dalla stampa sembra si possa concludere che essa corrispondesse alla morte encefalica totale. In Italia, a partire dalla legge n. 578 del 1993, l’accertamento di suddetta condizione clinica equivale alla morte della persona.
Ammettiamo dunque che i medici abbiano accertato la morte cerebrale con le modalità prescritte dalla legge e dal relativo regolamento attuativo. A questo punto per legge il paziente non è più un paziente, ma un cadavere; anche se il cuore batte ancora grazie all’uso del respiratore. A partire da quella condizione la legge prevede o che si spenga il respiratore perché il paziente è già morto o che lo si lasci ancora acceso solo per consentire, in base alla legge sui trapianti, il prelievo di organi da cadavere.
Ora, a rigor di legge, la donna era dunque già morta nel momento in cui era stata accertata la morte del suo cervello, ma se lo era già in quel momento al medico non restavano che le due opzioni suddette. Simili argomentazioni ripugnano al comune buon senso: mi limito però ad osservare che tutto quello che ho sinora scritto corrisponde fedelmente a quanto prescritto dalle nostre leggi.
Ma perché ci ripugna tanto? Perché in fondo riteniamo che quella donna definita per legge morta fosse viva, tanto viva da portare avanti una gravidanza. Ma se quella donna era ancora viva benché il suo cervello avesse smesso irreversibilmente di funzionare, allora dobbiamo ammettere che siano ancora vivi tutti quei «morti» a cui nella medesima condizione della donna incinta preleviamo gli organi.
Questo spiega il riserbo dei medici sull’attuale vicenda: puntavano per salvare il bambino sul corpo cerebralmente morto, ma con il respiratore acceso tanto vitale da poter far proseguire la gravidanza; ma se è così dobbiamo ammettere che quando si prelevano gli organi lo si fa da pazienti che, come la donna incinta, sono ancora vivi. Il fatto che questa volta, a differenza di altre, l’esperimento non sia riuscito, non muta la sostanza della cosa.
Quello che conta è che i medici facendo proseguire la gravidanza hanno scommesso sulla vita di quella donna, ci hanno creduto; come possono, invece, a partire dalla stessa condizione clinica, definirsi cadaveri tutti gli altri morti cerebrali per consentire l’utilizzo dei loro organi?