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A proposito della polemica sul cosiddetto “aborto post-natale”

Maria Antonietta La Torre

Un articolo di due giovani dottori in filosofia, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, dal titolo “After-birth abortion: why should the baby live”, pubblicato sul “Journal of Medical Ethics” nell’aprile 2012, ha suscitato polemiche e reazioni francamente esagerate. Verrebbe da pensare che la riflessione bioetica sia a corto di argomenti se si dedica tanta attenzione a un paper di 3500 battute, non tanto e non solo in rete, ove tutto è abnormemente amplificato e trovano spazio le peggiori pulsioni aggressive (gli autori e l’editore della rivista sono stati fatti oggetto di minacce e intimidazioni), ma nell’accademia e su autorevoli quotidiani (anche l’”Avvenire” ha ritenuto di dover intervenire sul tema). Ora, se dare un nome alle cose è il modo dell’umanità di farle esistere, e se, come sosteneva Vygotskij, il linguaggio e il nominare consentono di pensare e conoscere, tuttavia cambiare nome alla cose non è sempre un modo per cambiarne la natura. Gli autori ammettono che l’uso dell’espressione “aborto post-natale” è finalizzato a rendere meno ripugnante l’idea dell’infanticidio, ma pare che il tentativo non sia riuscito. Per altro, la difesa dell’infanticidio non è un tema nuovo nel dibattito bioetico, e probabilmente solo il potere amplificativo del web ha generato tanta attenzione intorno a un testo che presenta argomentazioni piuttosto esili, a sostegno della tesi secondo la quale le stesse motivazioni che rendono lecito l’aborto andrebbero applicate al neonato. Si, proprio le stesse motivazioni, nel senso che non solo gravi deficit, ma anche la “salute fisica e psichica della madre” e persino motivi di ordine economico e disagi generici (“genitori, fratelli maggiori, società […] possono essere colpite negativamente o positivamente dalla nascita di un bambino,” si legge nell’articolo) giustificherebbero la soppressione del neonato.
L’argomento più debole, comunque è quello secondo il quale neppure l’adozione può essere considerata come alternativa all’aborto post-natale, poiché la madre “potrebbe soffrire per il fatto di dare il proprio figlio in adozione. Si è spesso dimostrato che le madri naturali sperimentano seri problemi per l’incapacità di elaborare la perdita e di convivere con il proprio dolore. È vero che il dolore e il senso di vuoto possono essere una conseguenza anche dell’aborto, così come l’adozione, ma non possiamo assumere che per la madre naturale l’adozione sia meno dolorosa.” Evidentemente, però, non si può assumere neppure il contrario, ossia che una madre in difficoltà non sia piuttosto sollevata al pensiero che qualcuno si occuperà del figlio che non si sente in grado di accudire. In ogni caso, una opzione del genere presuppone l’esistenza di un diritto assoluto della madre sul nascituro che, se è giustificato finché questo è legato dal cordone ombelicale e dunque dipende interamente da lei per la propria sopravvivenza, non sembra poter essere sostenuto dopo che esso ha una vita autonoma dalla madre (anche se magari non da apparecchiature salvavita) con l’idea piuttosto singolare che “l’interesse di chi muore non è necessariamente il primo criterio di scelta”. (Vien da pensare a quanto difficile sia nel nostro paese la battaglia per il testamento biologico che invece mira a difendere proprio il diritto individuale all’autodeterminazione.)
In verità, il sospetto diffuso era che si trattasse dell’ennesimo tentativo di mettere indirettamente in discussione il diritto di aborto, attraverso una sorta di passaggio al limite, per cui si difendeva in apparenza il diritto a sopprimere il neonato per far sì, se tra neonato e feto non vi è differenza, che il senso di repulsione generato da tale ipotesi originasse simile riprovazione nei riguardi dell’interruzione volontaria di gravidanza. Invece, leggendo l’articolo e ascoltando gli autori, invitati a presentare le proprie idee in una sorta di tour promozionale in diverse università italiane, è emerso che effettivamente la proposta era proprio di considerare moralmente lecita la soppressione del neonato, sebbene senza saper specificare fino a quale termine (giorni, settimane, mesi) il neonato debba essere considerato non portatore di aspettative di vita che possano andar deluse con l’eliminazione. L’argomento è: poiché si ha diritto a qualcosa quando si è danneggiati dalla sua perdita, ossia si ha un interesse, e poiché il neonato non ha propriamente “interessi” più di un feto, dato che neurologicamente non vi è soluzione di continuità tra le due condizioni, il neonato non avrebbe alcun diritto alla vita che meriterebbe tutela.
Posto che giuridicamente la posizione è indifendibile perché la nascita, almeno secondo la nostra Costituzione, coincide con l’acquisizione della capacità giuridica e dunque una linea di demarcazione tra feto e neonato pure esiste, l’unica giustificazione possibile per il credito che viene fornito a un simile dibattito è nella difesa del pluralismo delle idee e nel libero confronto e rispetto di tutte le posizioni. Tuttavia la filosofia morale non è un porto franco nel quale tutti i più arditi esperimenti concettuali sono consentiti pur di costruirsi una carriera accademica, e il ragionamento morale non è solo strumentale in vista di fini arbitrari: vi è un’“obiettività” della morale (che si misura in relazione, ad esempio, all’ampiezza degli interessi coinvolti, alla razionalità delle argomentazioni, ecc.) anche se essa è di natura diversa da quella scientifica. Si può, dunque, accettare la pluralità delle concezioni etiche, come un fatto, ricordare che in molte culture l’infanticidio è stato consentito, riconoscere che i valori sono culturali, ma proprio per questo non si può negare che nella nostra cultura la vita sia un valore, comunque la si voglia definire e quando la si voglia far iniziare e fino a quali creature la si voglia estendere. Negare l’oggettività dei valori nel senso scientifico non significa negare che esistano dei valori. La medesima domanda può ricevere risposte diverse in differenti contesti, ma l’appartenenza a una determinata cultura non implica che il giudizio di “verità” o di “falsità” sia una convenzione del tutto arbitraria. Se si rileva la diversità delle valutazioni morali nelle diverse culture allo scopo di concludere che non esistono valori assoluti e che tutti sono validi e rispettabili in quanto di per sé inconfutabili, in assenza di un punto di vista “neutro” per il giudizio, ne deriverà che sarebbe, ad esempio, legittimo rispettare norme discriminatorie, mutilazioni, riduzione in schiavitù, ecc. Tutto il percorso espositivo si basa sulla linea di continuità esistente tra feto e neonato, neurologicamente fondata, e sulla rivendicazione di una sorta di autonomia della morale, la quale sarebbe legittimata a ragionare e adoperare categorie estranee all’ambito giuridico. Non si comprende, però, perché gli autori rivendichino l’autonomia della morale rispetto alla legge, che, come si diceva, non consente tale equivalenza, e però non si avvalgano di questa autonomia rispetto al dato meramente neurologico, che invece viene riconosciuto come fondativo, laddove la specificità della morale dovrebbe invece a nostro avviso condurre ad altri ragionamenti, di ordine solidaristico, emotivo, comunitaristico, ecc. La bioetica ha ancora molti compiti assai più degni di questo da svolgere: sollecitare una reale formazione etica degli operatori, promuovere una sanità più equa, mostrare che le difficoltà delle scelte individuali (anche quelle abortive) possono trovare sostegno e soluzione in comunità umane più solidali.

Napoli, gennaio 2013

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