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Dell’insostenibilità ontologica ed etica dell’assolutezza della vita

Cristian Fuschetto

Il puntuale auspicio di superare l’impasse cui si va incontro quando si comincia a discutere di sacralità e di qualità della vita è un auspicio tanto (inefficacemente) invocato da poter essere paragonato ad uno di quei vecchi rituali propiziatori ormai decaduti al rango di mere superstizioni. In tutta onestà va riconosciuto che, stabilita la fonte dell’eticità di un atto nel comandamento divino piuttosto che nell’autonomia decisionale, i margini di incontro sul tema della disponibilità della vita (vita come dono vs. vita come progetto) diventano strettissimi, per non dire nulli. Per un elementare principio di coerenza chi ritiene che la vita sia sacra non potrà mai ritenere eticamente lecito qualcosa che si approssimi ad un «diritto di morire», così come, per lo stesso principio, chi ritiene che la vita sia un continuo progetto di esistenzializzazione messo in atto dal soggetto attraverso la sua libertà, non potrà mai acquietarsi di fronte a chi gli nega la possibilità di esistenzializzare, con una scelta estrema, oltre che la propria vita anche la propria morte.
Per questo motivo, anziché impegnarmi in una discussione che affronti in modo diretto la questione dell’eutanasia (sollevando problemi come il diritto di autonomia del paziente, l’attualità o meno delle sue pregresse disposizioni, i doveri/diritti del medico, la distinzione tra uccidere e lasciar morire, ecc.), vorrei provare ad “aggredire” questo tema in modo apparentemente più laterale, e cioè ragionando sulla nozione di vita.
In una delle più importanti opere di filosofia della biologia degli ultimi anni, Jonas ha illustrato come la soglia da cui prende il via il pensiero moderno possa essere fatta corrispondere al passaggio da un pensiero panvitalistico ad un pensiero panmeccanicistico[1]. L’interpretazione dell’essere è stata per lunghissimo tempo segnata dall’evidenza, a noi oggi tutt’altro che familiare, secondo cui tutto ciò che è è per ciò stesso anche vivo. Per l’uomo primitivo, sovrastato dalle forze naturali, la vita non costituiva un’eccezione ma la regola. A costituire scandalo era piuttosto la morte, e ciò non solo nei termini di un’istintiva repulsione nei confronti di un corpo divenuto cadavere, ma innanzitutto in termini che si potrebbero definire logici: la morte appare come una palese contraddizione in un universo in cui domina la vita. In una tale cornice la vita è naturale e comprensibile mentre la morte è innaturale e incomprensibile. Il fatto che l’essere fosse comprensibile solo attraverso la vita è il motivo fondamentale dell’importanza che il culto tombale ha certamente avuto agli inizi della civiltà: la morte viene interpretata per venire immediatamente negata nella credenza di una vita che la supera. L’enigma della morte poteva così superare i limiti della sua incomprensibilità.
Il pensiero moderno è in netta antitesi con tutto questo. L’essere è fatto coincidere con estensione e movimento, insomma con l’inerte, tanto da far apparire la morte come ciò che è comprensibile e naturale, a fronte dell’innaturale e inspiegabile realtà della vita. La scienza moderna ha assimilato ciò che della natura è realmente conoscibile, cioè le qualità dell’estensione, a ciò che in essa è veramente reale: l’inerte diviene la realtà vera, la regola, mentre la vita una enigmatica eccezione. Nel nuovo contesto teoretico il primato ontologico appartiene all’inerte e ogni fenomeno organico non può che essere interpretato in termini meccanicistici. A proposito della interpretazione della vita a partire da ciò che alla vita si oppone, oltre che alla nota figura dell’homme machine, si pensi anche al processo per cui, come ci ha spiegato Foucault, la nascita della clinica si fonda sull’anatomia patologica, cioè si accompagna a una crescente perizia nella dissezione dei cadaveri, per cui la morte diventa «strumento per far presa sulla verità della vita e della natura del suo male»[2].
Ovviamente il passaggio da un monismo, quello dell’ontologia della vita, all’altro, quello dell’ontologia della morte, conosce un anello di congiunzione: il dualismo. Il pensiero dualistico svolge un ruolo storico impareggiabile nello sviluppo del pensiero occidentale, consentendo di superare il primitivo panvitalismo attraverso la progressiva attribuzione del motivo della morte verso l’esterno di un universo inanimato e, inversamente, del motivo della vita verso l’interno di un’anima interiore esclusivamente umana (orfismo, cristianesimo, gnosi). All’iniziale scissione religiosa tra spirito e natura fa da pendant, in età moderna, la divaricazione tra scienze della natura e scienze dello spirito, le una dedite alla fisica dell’estensione e le altre alla fenomenologia della coscienza. Contrariamente a quanto si possa istintivamente ritenere, la divaricazione tra questi due differenti ambiti del sapere non ha affatto favorito né una comprensione né un apprezzamento del fenomeno vita. Non solo le scienze della natura ma anche le scienze dello spirito sanciscono il primato dell’ontologia della morte, riducendo la nozione di vita a nient’altro che a una pura astrazione descrittiva. E ciò perché entrambe non fanno i conti con la concreta realtà del corpo organico. È questo il punto decisivo: nonostante la sua attenzione venga rivolta all’interiorità, e cioè a quanto di più lontano dalla inerte e morta materia possa esserci, anche l’atteggiamento idealistico misconosce la vita. Ma la mera interiorità dello spirito non è forse più viva della mera esteriorità della materia? A tal proposito l’osservazione di Jonas è stringente: «La coscienza pura è tanto poco viva quanto la materia pura che le sta di fronte, in compenso anche altrettanto poco mortale»[3]. Dunque il dualismo non comporta un incremento di vita per mezzo della concentrazione dei tratti vitali in uno dei due domini dell’essere, ma implica l’incomprensione della vita; anzi la sua rimozione per mezzo dello smembramento di quel concreto centro vitale che ogni volta esperiamo: il singolo corpo organico.
Le neuroscienze oggi non fanno che confermare con prove sempre più evidenti «l’errore di Cartesio»[4], l’impossibilità di una separazione tra sentimento e architettura cerebrale, tra l’esteriorità del proprio corpo e l’interiorità del proprio cogito. Il corpo attesta una indiscutibile unità psicofisica, una palese inscindibilità tra estensione esterna e sensibilità interna, un intreccio inestricabile tra inerzia e volontà. Quindi non è la generica presa d’atto dell’esistenza di un che di vitale all’interno di una totalità meccanicisticamente strutturata che rende insostenibile il primato ontologico della morte (si pensi ancora alla figura dell’homme machine e alla connessione tra sapere sulla vita e l’anatomia patologica), ma è il fatto del singolo corpo vivo che costringe a superare ogni forma di dualismo così come ogni forma di ontologia che non voglia fare i conti con le indicazioni sempre più complesse fornite dai saperi scientifici.
Ecco allora che pare profilarsi un tremendo paradosso: difendere la vita a prescindere dal corpo che la incarna, nonostante e oltre questo corpo, significa ricacciarsi in una vera e propria ontologia della morte. L’assoluta indisponibilità della vita, quindi un’indisponibilità che oltrepassa il corpo che l’accoglie fino a potervisi anche opporre, rimuove della vita il dato originario per cui essa o è realtà incarnata o non è. Determinarsi per l’assolutezza rischia quindi di implicare il determinarsi per il non essere. L’impossibilità di pensare una vita al di là della concretezza del corpo che la sostanzia dovrebbe invece costringere a considerare, in determinate condizioni, come decisiva la volontà di chi sente che la propria vita stia per compiersi e che, perciò, debba compiersi. Quella volontà esprime il sentimento di una totalità psicofisica in cui la vita si fa realtà concreta e senza di cui rischia di diventare feticcio. L’uscita dal dualismo non autorizza più alcun discorso che pretenda di porsi sul piano dell’assolutezza. Appare evidente come le attuali acquisizioni ci spingano verso la necessità di ripensare i nostri paradigmi fondamentali, pena l’impossibilità di strutturare un’etica adeguata. L’impossibilità di parlare di vita a prescindere dal singolo corpo organico, se non al prezzo, ripeto, di ricadere in insostenibili dualismi o in obsolete ontologie, dovrebbe quindi suggerirci di essere cauti quando si sostiene l’impossibilità di riconoscere a qualcuno il diritto di morire in nome della assolutezza della vita. Il corpo del malato terminale, a mio parere, testimonia fino in fondo la crisi di ogni dualismo e di ogni ontologia: il paziente che chiede ripetutamente e coerentemente di non differire ulteriormente la propria morte sente coincidere l’estensione del proprio corpo con l’interiorità della propria anima. E sente questa coincidenza con acutezza incomprensibile solo a chi non ha mai fatto esperienza della malattia. La malattia, infatti, rende tremendamente viva la presenza a sé del proprio corpo. Imporre la respirazione artificiale a un paziente senza più alcuna speranza di veder mutata la propria sorte e, ovviamente, liberamente e coerentemente decisosi per l’interruzione del trattamento, significherebbe allora negargli la possibilità di coincidere con sé stesso, rendendolo una terza volta prigioniero. Prigioniero della sua malattia, prigioniero della volontà di un terzo (al fine di compiere ciò che altri, impregiudicati nelle proprie facoltà fisiche, possono autonomamente porre a termine), prigioniero di una astrazione. Opporre la causa superiore della vita al malato terminale che esprime la propria determinazione all’atto estremo, significa imporre un’astrazione a chi sperimenta l’insostenibilità, ontologica ed etica, dell’astrazione medesima.
Dell’insostenibilità ontologica si è detto, dell’insostenibilità etica mi pare opportuno ricordare quel che Piovani afferma a proposito del gesto fondativo di ogni etica, e cioè la scelta per l’esistenza[5]. Il soggetto si scopre come volente non volutosi e quindi come cosa tra cose; è la decisione per l’esistenza che libera il soggetto dalla cosalità originaria e lo spinge verso un processo di soggettivazione, processo che nella morale troverà il suo mai compiuto cammino. «Nell’esistenza, l’oggetto che si è liberato dalla propria mera oggettività grazie alla volontarizzazione della decisione esistenziale realizza paradossalmente la propria soggettività oggettivandosi»[6], e cioè emancipandosi dalla originaria datità per mezzo di una dinamica e inarrestabile oggettivazione etica. Ecco allora profilarsi un nuovo paradosso: trasformare il diritto alla vita in dovere di vivere equivale a privare il soggetto della possibilità fondamentale di uscire dalla sua cosalità. Se c’è un dovere di vivere non c’è più spazio per alcuna scelta, per alcuna oggettivazione nello spazio dinamico dell’eticità, e dunque viene troncata alla radice la possibilità per il soggetto di soggettivarsi, di uscire dallo stato di cosalità e di esistenzializzarsi. È chiaro che nella scelta eutanasica il soggetto sceglie di porre fine alla propria esistenza, ma se questo gli è impedito in nome di un dovere di vivere che la società può da lui sempre esigere, allora ciò significherebbe quanto meno erodere retrospettivamente il senso della sua originaria scelta esistenziale, quella che è alla base di tutto l’insieme di scelte che costituiranno la trama etica della sua esistenza. Un incondizionato dovere di vivere che la società potesse esigere nei confronti di chicchessia finirebbe con l’annichilire la premessa fondamentale dell’uscita del soggetto dalla sua datità originaria, uscita che può avvenire solo a seguito di una autonoma decisione, svalutando, con ciò, la sua stessa esistenza. Il diritto di vivere e quello di morire devono essere coniugati in modo che nessuno dei due possa tramutarsi in dovere incondizionato di vivere o di morire.
Pur rimanendo senz’altro profondamente problematica, la nozione di vita si pone sicuramente al centro delle nostre valutazioni sulla liceità o meno dell’atto eutanasico. Per questo Jonas può affermare che «è il concetto di vita, non quello di morte, che in definitiva governa la questione del diritto di morire»[7].

[1] Cfr. H. JONAS, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica (1994), tr. it. a cura di P. Becchi, Torino, 1999, pp. 15-35.
[2] M. FOUCAULT, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico (1963), tr. it. di A. Fontana, Torino, 1998, p. 157.
[3] H. JONAS, op. cit., p. 30.
[4] Cfr. A. R. DAMASIO, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, 1995. Si vedano anche le pagine che lo stesso Jonas dedica a questo problema nell’appendice Il significato del cartesianesimo per la teoria della vita, in H. JONAS, op. cit., pp. 75-80.
[5] Cfr. P. PIOVANI, Principi di una filosofia della morale, Napoli, 1972, pp. 9-76; ID., Oggettivazione etica e assenzialismo, a cura di F. Tessitore, Napoli, 1981.
[6] ID., Oggettivazione etica e assenzialismo, p. 53.
[7] H. JONAS, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, tr. it. a cura di P. Becchi, Torino, p. 205.

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