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Donne e diritti. L’UE non neghi la cittadinanza di genere

(da “Il Secolo XIX” Domenica 8 marzo 2015)

Una data indubbiamente importante quella del 9 marzo – immediatamente successiva alla festa della donna – che vede l’Europarlamento chiamato a esprimersi sulla mozione Tarabella, riguardante la libertà di contraccezione e di aborto. A leggerne i punti principali – il riconoscimento del pieno controllo da parte delle donne dei loro diritti sessuali e riproduttivi, in particolare attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto; il sostegno delle misure e delle azioni volte a migliorare il loro accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva; una migliore informazione sui loro diritti e sui servizi disponibili; l’attuazione di misure e di azioni rivolte a sensibilizzare gli uomini sulle loro responsabilità in materia sessuale e riproduttiva – non si può non salutare con favore una normativa che sembra configurare finalmente una ‘cittadinanza di genere’.
Guardando al dibattito sui diritti riproduttivi - a partire dalla legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza fino alla legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita – emergono in effetti una serie di interrogativi sia sul potere delle donne che sulla possibilità di una cittadinanza di genere. Un primo quesito, relativo al potere, mette al centro la possibilità da parte delle donne di decidere liberamente in relazione ai propri progetti di vita e alla proprie scelte riproduttive. Un secondo quesito, relativo alla cittadinanza, si interroga sul fatto se tale concetto tenga oggi conto delle pari opportunità di genere relativamente alla salute psico-fisica delle donne e ai loro diritti riproduttivi. Ne discendono talune (amare) riflessioni su quanto le ideologie e le credenze abbiano condizionato la costruzione delle leggi – si pensi, in particolare, alla legge 40 e al pesante impianto dottrinario su cui è stata modellata – e quanto, invece, tale costruzione sia ispirata ai concreti bisogni delle persone cui le leggi dovrebbero essere rivolte.
Nel nostro paese l’affermazione dei diritti riproduttivi è stata al centro di un aspro conflitto che non ha tardato ad assumere i toni di una vera e propria crociata. Si riproporrà anche ora tale scontro, come sembrano annunciare certi bollettini di guerra? Ancora una volta una biopolitica autoritaria pretenderà di ingerirsi nella vita privata, entrando nelle decisioni più intime e sofferte della vita personale? E’ così difficile riconoscere che ogni persona ha una propria scala di valori che dovremmo rispettare, anche se personalmente non la condividiamo? L’esistenza di una netta separazione tra la sfera della morale personale e la sfera giuridica o, se si vuole, tra ciò che può essere giudicato ‘peccato’ e ciò che viene definito ‘crimine’ è ciò che caratterizza lo stato liberale.
Occorrerebbe infine ricordare che tali diritti devono essere ricompresi a pieno titolo tra i diritti umani sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e connessi, pertanto, ad una serie di altri diritti come quello alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale, a un trattamento equo, a ottenere lo standard di salute più alto possibile. Si tratta di diritti che, in quanto bioeticamente rilevanti, sono da collocare tra i diritti di cittadinanza e, in tal senso, rivestono un irrinunciabile significato per la popolazione femminile. La quale vedrebbe finalmente garantita quella sfera di liceità che dovrebbe consentire ad ognuno, in piena libertà di coscienza, di assumere decisioni relative ai suoi progetti, anche procreativi, che corrispondano alla sua idea di ‘vita buona’.

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