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CURARE E PRENDERSI CURA

Maria Antonietta La Torre

(questo scritto è parte di un saggio dal titolo Il modello della cura in bioetica, pubblicato in

Le nuove dimensioni della relazione terapeutica, Macro, Cesena 1999)

L'etica medica è caratterizzata da una particolare impasse, in quanto ogni ricerca scientifica finalizzata al progresso nella conoscenza, quale appunto è la ricerca medica, compie inevitabilmente un'oggettivazione del fenomeno del quale si occupa, ma l'etica, dal canto suo, annovera tra i propri compiti peculiari e caratterizzanti la tutela dell'autonomia dell'individuo e quindi della sua soggettività; da ciò deriva, per altro, un particolare interesse per la sofferenza, che è certo fenomeno non oggettivabile, ma sempre intriso del vissuto individuale. Di fatto, l'intervento medico-sanitario si concretizza nella forma di un agire su di un individuo, il quale risulta, almeno in una certa misura, ridotto alla propria corporeità, quasi fosse un mero meccanismo, contrassegnato da un numero in una tabella o in una cartella; in tal modo ogni azione finisce col trascurare la corporeità che ciascun individuo é, l'identità che la sua corporeità comporta, la sua peculiare percezione della propria situazione. Tale cognizione, preclusa al medico-osservatore, riveste pure enorme rilevanza nella dinamica della relazione medico-paziente. Ciò, ci sembra, è sufficiente a sollecitare la formulazione di principi atti a strutturare adeguatamente la relazione di cura, intesa non come mera terapia, bensì come atteggiamento di solidarietà interpersonale. Nella lingua inglese la cure, ossia la prassi terapeutica, può essere distinta con maggior facilità dalla care, vale a dire la cura intesa come sollecitudine, protezione, preoccupazione, responsabilità. To care significa curarsi di qualcuno, preoccuparsene, laddove to cure significa guarire, sanare. La bioetica solleva l'esigenza di strumenti etico-metodologici che instaurino un rapporto positivamente orientato al sostegno dell'individuo, impegnato per il bene complessivo della persona, nel quale chi detiene il "potere" terapeutico miri ad una identificazione con i bisogni del paziente, preoccupandosi del riconoscimento della sua individualità e particolarità, nel rispetto delle diversità, instaurando una relazione che sia, in breve, solidale.
L'atteggiamento tradizionale della medicina rifletteva d'altronde alcune connotazioni peculiari del pensiero occidentale nella sua dimensione scientifica, che non solo, per la sua matrice cartesiana, privilegia la razionalità di contro alla sensibilità, ma è diretto interamente ad una forma di conoscenza di tipo manipolatorio e di conseguenza "appropriante", per il conseguimento della quale si assume il presupposto di un soggetto conoscente che si pone all'"esterno" e quasi in opposizione all'oggetto dell'indagine, poiché tali condizioni appaiono indispensabili alla realizzazione della conoscenza "certa", ossia "razionale". Ad esempio, la convinzione che le leggi matematiche producano verità intuitivamente evidenti e dunque universali, la fiducia nella possibilità di elaborazione di un metodo universale che contraddistingua la specificità della scienza rispetto agli altri saperi e ne garantisca il carattere di razionalità, determinano una prospettiva dualistica e dicotomica, la quale produce contrapposizioni, piuttosto che ricercare le analogie che consentono una visione complessiva delle questioni; appare comprensibile come questa possa essere stata estesa alla relazione terapeutica: il malato viene "oggettivato", sin dal primo momento dell'indagine anamnestica. La speculazione ispirata ai criteri della scienza, che fino a non molto tempo fa si mostrava poco incline a cogliere le interconnessioni vitali e la complessità dei fenomeni, prediligendo l'analisi settoriale (tendenza che si riflette nell'evidente eccesso di specializzazione che connota oggi la scienza medica), che prende in esame i diritti e le regole piuttosto che le opzioni e riflette l'inesauribile aspirazione al superamento dei limiti teorici e pratici, riduce al minimo lo spazio per la discussione circa la valenza morale dell'agire e delle sue implicazioni. Eppure si presenta oggi il paradosso di una scienza che, avendo scoperto i limiti e l'insufficienza delle proprie categorie (come attesta la crisi dell'epistemico), mentre ha relegato la morale nella sfera separata dei valori, estraneandola dai "fatti" (contribuendo quindi alla sua delegittimazione), ridimensiona la propria aspirazione alla formulazione di una compiuta visione del mondo e pone in discussione la pretesa di una descrizione inoppugnabile dei dati empirici: in tal modo finisce col richiedere essa stessa degli orientamenti morali. Rispetto alle nuove esigenze, infatti, alla richiesta di un controllo sociale sulla scienza, alle istanze della bioetica, appaiono oramai insostenibili la neutralità etica della techne e quella della scienza stessa. Sostiene, ad esempio, H.Putnam che anche l'applicazione, la verifica, la sperimentazione delle ipotesi scientifiche dovrebbero essere sottoposte ad un controllo democratico: non è ammissibile, ad esempio, che i farmaci e le attrezzature mediche vengano sperimentati unicamente dai produttori.[i] Evidentemente, le richieste di una più ampia partecipazione ai processi decisionali rivestono implicazioni anche per la prassi della cura medica, che assume connotazioni nuove e deve rispondere ad una richiesta di sensibilità alle istanze individuali.
Talvolta il diritto del paziente appare in contrasto con altri diritti ufficialmente sanciti. Le difficoltà non riguardano solo il conflitto intellettuale sui principi, bensì le divergenze concrete di interessi, poiché ciascuno è vincolato, al di là della sua appartenenza alla comunità allargata, ad una posizione sociale che comporta assunzioni morali specifiche e personali e non mere adesioni formali. Ad esempio, la bioetica medica prevede oggi che nel rapporto medico-malato si tenga conto delle preferenze del paziente, che questi abbia il tempo di riflettere sulle opzioni che gli vengono illustrate, che si tenga conto dei fattori sociali e personali, del suo sistema di valori, della sua concezione della qualità della vita, infine, delle sue scelte. Il concetto di "consenso informato" è radicalmente nuovo rispetto al paternalismo tradizionale e rientra indubbiamente in una prospettiva di "tolleranza" intesa come apertura alla diversità delle visioni del mondo. Ma come può tale programma essere realizzato in presenza di individui che valutano la propria situazione o quella dei propri cari secondo parametri e credenze che appaiono incompatibili con i principi e i diritti sanciti nella società entro la quale egli si trova ad essere paziente? È sufficiente, in simili casi, seguire, per l'appunto, le regole del consenso informato, ossia che il paziente abbia tutte le informazioni necessarie a pervenire ad una scelta, se queste informazioni non servono, entro la sua personale visione del mondo, a operare quella scelta secondo i criteri della razionalità e della prudenza? Come si deve agire quando vi è conflitto tra le preferenze del paziente, dettate dalla sua appartenenza culturale, e i suoi migliori interessi secondo la valutazione scientifica? Se tali questioni possono essere affrontate con sufficiente convinzione nei casi di evidente violazione dell'integrità della persona, come essere certi di adottare quella che effettivamente è la soluzione migliore per quell'individuo? La richiesta di controlli e regolamentazioni nasconde il rischio non solo di abusi di potere, ma di prevaricazioni nei riguardi di chi fa appello a differenti coordinate etico-culturali.
Ma allora a quali norme o criteri è possibile fare appello in una situazione nella quale ogni regola va mediata con la concreta varietà dell'individuo-paziente? Forse si può proporre un'estensione della responsabilità morale che, innovando o per certi versi tralasciando alcuni dei parametri tradizionali dell'etica dei diritti, utilizzi la categoria della "cura" in un'accezione ampia. In linea generale con tale termine ci si riferisce ad una condotta ed un atteggiamento che comportano il rispetto per il carattere e la sensibilità o la struttura propria dell'altro (non più concepito come mero oggetto) e la disposizione a com-partecipare con esso, indipendentemente dall'utile o dal vantaggio che da tale relazione può essere ricavato e prescindendo da criteri che rischiano di ridurre il valore individuale a strumento (ad esempio, al valore sperimentale). L'"etica della cura" fa riferimento ad una modalità di rapporto che comporta in primo luogo (prima, quindi, di ogni considerazione utilitaristica) il rispetto per il modo di essere e per la natura peculiare dell'individuo del quale ci si occupa ed invita ad una disposizione che contempli la preoccupazione per il suo destino. Essa presuppone, quindi, una rinunzia alla posizione meramente manipolatoria e un interesse per la complessità di ciascun individuo. L'atteggiamento della "cura" prevede un coinvolgimento nella sorte dell'oggetto d'attenzione, poiché, ispirandosi al modello dell'amore parentale, suggerisce una modalità di accudimento dell'altro che non è riconducibile esclusivamente ad un insieme di obblighi, senza con ciò rinunziare (ma anzi sostanziando) ad un principio fondamentale nella bioetica, quello del trattamento imparziale.
Lévinas, ad esempio, del quale è nota la forte ispirazione etica, intende la cura come il principio morale fondamentale. In tal modo, e non a caso, egli introduce una modalità di riflessione morale che sembra finalmente superare i limiti dell'etica dei diritti, particolarmente di quella di origine kantiana, sovente giudicata incapace di comprendere e considerare il caso particolare, poiché basata sul rispetto astratto di principi universali. Diversamente dalla tradizione della filosofia morale di stampo kantiano, Lévinas oppone infatti all'etica dei diritti un'etica della solidarietà. "Come la solidarietà rappresenta una polarità opposta al principio della giustizia, in quanto la nutre in modo particolaristico con gli impulsi affettivi della partecipazione reciproca, così d'altro canto il prendersi cura rappresenta allo stesso modo una polarità altrettanto necessaria, poiché essa la completa mediante un principio di aiuto unilaterale completamente disinteressato."[ii] Tali criteri si collocano semplicemente su due diversi livelli e, lungi dal semplicemente contrapporli, sarebbe forse utile valorizzarne le differenze in vista dell'apporto che da essi può venire all'etica medica, la quale, se indubbiamente deve fare appello a principi condivisi e formalizzati, pure può forse prevedere un aspetto di gratuità, poiché l'atteggiamento della cura consente di oltrepassare i limiti del mero dovere terapeutico. Una morale della cura o della responsabilità "mette a fuoco i limiti intrinseci di qualunque soluzione particolare, mentre una morale dei diritti mira a una soluzione obiettivamente equanime dei conflitti, tale da ottenere il consenso di tutte le persone razionali; [...] una moralità intesa come cura degli altri pone al centro dello sviluppo morale la comprensione della responsabilità e dei rapporti, laddove una moralità intesa come equità lega lo sviluppo morale alla comprensione dei diritti e delle norme."[iii] L'etica della cura prevede la compartecipazione attraverso una compresenza di riflessione, giudizio ed emozione, differenziandosi in ciò dall'etica dei diritti, la quale crea invece le separazioni, delinea le competenze e gli ambiti in maniera rigorosa, in riferimento ad un tacito "contratto" che non contempla il coinvolgimento emotivo.
L'etica della cura è più un atteggiamento che un codice formalizzato di condotta. Battaglia definisce la cura come "la preoccupazione per la sorte di un altro essere, [...] sorretta da una conoscenza, la più appropriata possibile, della sua realtà, della situazione in cui vive, delle sue esperienze e dei suoi bisogni."[iv] Un riferimento esemplificativo di questa categoria può trovarsi anche nelle concezioni tradizionali della "simpatia", che identifica l'altro come l'altra soggettività per il cui destino si avverte la sollecitudine. Come scrive Honneth, al centro dell'etica della cura si colloca "l'idea che le nostre rappresentazioni della moralità non si esauriscono nel concetto del trattamento imparziale e della responsabilità reciproca, ma includono anche quelle modalità di comportamento che consistono negli atti asimmetrici della beneficenza, della servizievolezza e dell'amore del prossimo."[v] Facendo leva su potenzialità solitamente trascurate, si introduce insomma una connotazione "asimmetrica" dell'etica, idonea a fornire giustificazione per azioni "supererogatorie", ossia atti che non è male non compiere, ma che sarebbe bene compiere, i quali si collocano, in breve, nella dimensione della gratuità, piuttosto che in quella dei diritti/doveri o della reciprocità. La "giustizia che si prende cura nei confronti della infinita particolarità del singolo essere umano, a differenza del trattamento imparziale come anche della solidarietà, ha in sé il carattere di una propensione del tutto unilaterale, non reciproca. L'obbligazione che essa comporta andrà tendenzialmente sempre così lontano che anche la nostra propria autonomia di azione dovrà essere in alta misura limitata. In questo senso l'assunzione di una tale forma di responsabilità non può essere pretesa allo stesso modo da tutti gli esseri umani, come invece è da attendersi da loro il rispetto morale per la dignità di ogni altro. [...]Una obbligazione al prendersi cura e alla beneficenza può esserci solo là dove una persona si trova in uno stato di estremo bisogno o necessità, così che il principio morale del trattamento imparziale non possa più essere applicato ad essa in una misura bilanciata."[vi] Ecco che il principio del trattamento imparziale può talvolta risultare insufficiente e che l'asimmetria dell'unilaterale assunzione dell'onere dell'altro anche al di là della propria utilità e della reciprocità, ossia della capacità di ricambiare l'impegno morale (che è sempre stata considerata condizione necessaria perché si dia un discorso morale), e anche a costo di una rinunzia al proprio diritto viene richiesta in presenza di una condizione estrema di debolezza. Quale esempio migliore di una condizione asimmetrica di debolezza di una delle due parti che il rapporto medico-paziente?
Se proviamo a distinguere i tre livelli di moralità venuti sin qui in luce, quello dell'imparzialità nel trattamento, quello della solidarietà, quello della cura, terzo e più gratuito stadio di attenzione per l'altro, troviamo in quest'ultimo anche le tracce di una condotta che sembra guidata da motivazioni che si collocano in un certo senso prima dell'etica medesima intesa come scambio e insieme di obblighi, in quanto sembrano afferire ad una sensibilità che non necessita di codificazioni e normative. Si potrebbe dire che l'etica della cura è ispirata non al dovere, bensì alla gratuità. È pur vero che un tal genere di argomentazioni suscita solitamente perplessità e riserve in quanto sembra implicare una predilezione per l'intuizione piuttosto che per la razionalità, di difficile condivisione laddove si sia pure costretti, per fare un esempio, a ragionare in termini di calcoli costi-benefici (che la gestione della politica sanitaria non può trascurare, naturalmente). Ciò che viene sollecitato, infatti, è un coinvolgimento emotivo-sentimentale, piuttosto che un agire motivato da ragioni e argomentazioni razionali. Ma, per certi aspetti, l'etica della cura recupera proprio le istanze più recenti sia della riflessione bioetica, sia della ricerca scientifica, con la sua recente rinunzia al pensiero semplificatore e riduttore nell'ottica di una problematizzazione delle proprie certezze. Pertanto, pur evitando le tendenze emozionalistiche e simpatetiche, difficilmente condivisibili e afferenti ad un piano meramente esigenziale (i sentimenti, poiché si sottraggono alle regole della razionalità, all'argomentazione che può convincere, in breve, all'universalizzazione, non sono codificabili e la loro condivisione è affidata alla sensibilità individuale), è forse ugualmente possibile una riconsiderazione dei caratteri specifici di una relazione complessa come quella terapeutica, di contro alla riduzione di tutto al "noto" e a categorie fondate sulla ricerca della certezza, con l'obiettivo di adottare un orizzonte di "cura" piuttosto che di controllo e infine dominio. "Rivendicare il ruolo della soggettività nei processi conoscitivi o del sentimento e della cura, nella dimensione etica, non significa necessariamente imboccare una via mistica: può significare, altresì, porre criticamente in evidenza i limiti e le aporie di questa razionalità 'forte' in favore di una ragione ragionevole. Si tratta, ad esempio, di porre l'istanza di un modello di razionalità che superi quello 'tecnologico', che trova in se stesso la propria finalità, attento com'è al problema di come raggiungere i fini, ma insensibile al problema di quali fini sia doveroso perseguire e perché."[vii] La conoscenza improntata alla cura è infatti di tipo speciale, non meramente intellettuale, poiché si intreccia con un apprezzamento del valore dell'altro e si serve della categoria dell'"affidamento", per altro non estranea alla nostra tradizione culturale, già sensibile a temi come la pietà, la simpatia, il com-patire. Con ciò non intende accantonare valori moderni come quelli di libertà e autonomia, bensì oltrepassare la dimensione del mero obbligo per aprirsi ad altre modalità di accoglimento dell'altro, che non si limitino a difendere i principi di giustizia o imparzialità, ma spingano l'interesse per l'altro sino alla valutazione e considerazione particolare dei suoi bisogni. "Con ciò di cui si ha cura" scriveva Jaspers, "si instaura un tipo di rapporto, che, se anche prescinde dal linguaggio, è ana­logo a quello che esiste tra domanda e risposta,"[viii] ossia intendiamo, è dialogante e perciò aperto al rispetto delle specificità. La riflessione bioetica più recente evidenzia, ad esempio, l'aspetto dell'ascolto della situazione, il prestare attenzione alle richieste che provengono dal paziente, per rispondere a tali richieste, in opposizione alla scienza medica tradizionale, che privilegiava la cura come cure piuttosto che come care, sottolineando quasi esclusivamente la valenza e la competenza tecnica a discapito della considerazione della sofferenza, del dolore e della partecipazione, cioè di ciò che rende il paziente non mero oggetto che patisce ma soggetto di una vita, soggetto di un dolore. Ascolto, attenzione e risposta, ci sembra, richiedono sia la competenza tecnica che la considerazione attenta della sofferenza.
Anche Masullo ravvisa proprio nella "cura" la motivazione originaria e più autentica dell'etica, che è di natura affettiva e non esclusivamente razionale. Non si tratta, evidentemente, della cura per i bisogni e gli interessi quotidiani, passeggeri, per gli affanni che derivano da obiettivi illusori e sono in effetti mascheramenti dell'essenza autentica dell'uomo (la quale non si manifesta nella ricerca del potere, neanche di quello sul mondo della natura, ma nel pervenire alla consapevolezza della mancanza di stabilità di ogni certezza). Si tratta piuttosto della Cura "assoluta", ossia di un "inter-esse" inteso come "aversi a cuore, andarne di sé, trovarsi vitalmente in gioco". "Poiché dall'orizzonte delle rappresentazioni sono scomparsi miti e razionalizzazioni utilizzabili per protettive rassicurazioni, l'etica non ha più alibi per restare compiaciuta prigioniera di riflessi di difesa da lei viziosamente acquisiti. L'etica finalmente ritrova la sua primaria motivazione, che è una motivazione affettiva, ossia la cura di ricollocare l'uomo nella sua 'dimora'."[ix]
Forse è appellandosi a questo senso originario dell'aver cura di sé che può ravvisarsi una motivazione profonda per la cura nel senso che stiamo cercando di suggerire. "L'etica attiva è la cura che, attraverso la ragione, la Cura consapevolmente assume di sé, cioè della 'salvezza' dell'uomo, del suo aversi a cuore."[x] Esprimendo questa originaria inclinazione ad aver cura di sé, a noi sembra, si esperisce il senso profondo anche del rispetto dell'altro essere che quel senso originario dell'aver cura dell'esistenza dell'umanità condivide con noi; in tal modo l'uomo, lungi dal mortificare i propri desideri, esprime, appunto, la propria essenza autentica. Masullo fa appello, perciò, a due grandi principi dell'etica novecentesca, "il principio-speranza e il principio-responsabilità, i quali, separati, sono inevitabilmente inefficaci. Il principio-speranza conta sul futuro come cambiamento possibile, avvento del nuovo alle 'radici' stesse dell'umano. Il principio-responsabilità, richiamandoci al fatto dell'enorme crescita del nostro potere sul futuro della Terra e dei nostri discendenti che si troveranno ad abitarla, ci accolla un enorme peso."[xi]
In conclusione se si prende in considerazione l'eventualità che, accanto all'etica dei doveri e dei codici e delle sanzioni, si crei lo spazio per un'etica dell'aspirazione e della gratuità, questa può esprimersi nella forma di un prendersi cura degli altri inteso quale conseguenza dell'assunzione di una "co-responsabilità", ossia di una responsabilità comune e condivisa e precedente gli accordi societari convenzionali. L'"etica della cura" rappresenta, potremmo intendere, un paradigma di "avvicinamento", un modello asintotico che, quanto meno, asseconda e alimenta l'attuale tendenza alla problematizzazione delle certezze, inducendo a prestare attenzione ai caratteri specifici di ciascun individuo, di contro alla riduzione di ciascun elemento agli obiettivi della conoscenza appropriante: prendersi cura di qualcuno o di qualcosa significa anche accettare l'altro individuo come limite al proprio desiderio di uso.
"La meraviglia da cui ha origine la filosofia", ossia lo stupore dal quale nasce l'impulso alla conoscenza, secondo l'insegnamento socratico, "è prima di tutto il riconoscimento dell'alterità che misura l'esistere dell'uomo, mentre non si lascia misurare dalle sue richieste di assicurazione e giustificazione."[xii] Questa alterità sfugge sempre in qualche misura alle nostre classificazioni, ma essa, comunque intesa, è indispensabile alla costituzione della nostra identità; perciò si richiede un'inerenza alle cose e agli altri individui che si manifesta nell'esercizio della cura, nella ricerca di occasioni di valorizzazione delle istanze individuali e anche dello spazio, di modo che i limiti imposti da una natura indispensabile alla nostra sopravvivenza appaiano non una mortificazione, ma una realizzazione dei nostri fini più propri.

[i] Cfr. H.PUTNAM, Il pragmatismo: una questione aperta, Roma-Bari, Laterza 1992 p.111.
[ii] A.HONNETH, L'altro della giustizia. Habermas e la sfida etica del postmoderno, "Fenomenologia e società" 1 (1995) pp.113-4.
[iii] L.BATTAGLIA, La 'voce femminile' in bioetica. Pensiero della differenza ed etica della cura, in S.RODOTÀ, Questioni di bioetica, Roma-Bari, Laterza 1993 p.256.
[iv] L.BATTAGLIA, La 'voce femminile' in bioetica, cit., p.256.
[v] A.HONNETH, op.cit., p.110.
[vi] ivi, pp.112-3.
[vii] L.BATTAGLIA, Donne e natura. Considerazioni sull'ecofemminismo, L.MARCHETTI-P-ZELLER, op.cit., pp. 269-70.
[viii] K.JASPERS, Philosophie I. Philosophische Weltorientierung, Berlin-Göttingen-Heidelberg, Springer; 1956, tr.it. Filosofia I.Orientazione filosofica nel mondo, Milano, Mursia 1977 p.100.
[ix] A.MASULLO, Il tempo e la grazia, Roma, Donzelli 1995 pp.126,127.
[x] ivi, p.127.
[xi] ivi, p.130.
[xii] ivi, p.124.

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