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Maria Antonietta La Torre

Questioni bioetiche in una società multiculturale

(tratto da: V Report Sasci - Servizio Attività Sociosanitarie Cittadini Immigrati - Dipartimento Sociosanitario ASL Napoli 1, 2006)

La crescente presenza di immigrati nei paesi occidentali, che richiedono l’accesso a cure sanitarie, determina la necessità di un ampliamento dell’orizzonte terapeutico, poiché le culture d’origine rivestono una considerevole importanza nel guidare e condizionare le condotte individuali (e collettive), al pari delle religioni di appartenenza, e con esse la richiesta stessa di cure e anche la disponibilità alle terapie.
L’approccio sanitario, dovendo necessariamente tener conto, ad esempio, delle differenti concezioni del corpo o della sessualità, è indotto a considerare (se si intende curare la persona) molteplici elementi socio-culturali e antropologici, non potendosi più dare per scontata una (per altro, in ogni caso presunta) comunanza nei criteri di giudizio tra l’operatore e il paziente. Spesso gli operatori sanitari avranno constatato una inedita complessità delle diagnosi, determinata dall’intreccio tra malattie acquisite nel paese ospitante, per le quali gli immigrati sono “poco attrezzati”, e malattie importate dal paese di provenienza, per le quali sono poco attrezzati gli ospitanti, eventualmente aggravate da condizioni psicologico-esistenziali non facili.[1] Pertanto, per adempiere al proprio compito il personale sanitario è indotto ad ampliare il proprio ambito d’indagine, non solo, ad esempio, per intervenire laddove siano state praticate frettolose o incaute “terapie” alternative, e non solo per affrontare patologie sconosciute o dimenticate nel mondo occidentale (le “patologie d’importazione”), ma anche per acquisire quelle nozioni di ordine psicologico, antropologico, etnologico, che consentono di inquadrare adeguatamente il paziente. Tutto ciò prospetta uno sforzo interdisciplinare di non lieve entità.
In tale ambito problematico, la bioetica non si occupa soltanto della esigenza morale di tenere in considerazione fattori specificamente connessi alle condizioni di vita (ad esempio le “patologie da sradicamento”, anche psicosomatiche, dovute, cioè, a mutamenti negli stili di vita), al fine di offrire cure adeguate alla persona, bensì anche del disagio interculturale e delle difficoltà di comprensione (linguistico-culturali) che possono incidere sull’efficacia terapeutica. Dinanzi a tali esigenze nuove, infatti, nuove difficoltà incontra l’applicazione dei principi della bioetica, che in maniera più o meno consapevole guidano ormai la prassi sanitaria nel mondo occidentale, ossia i principi di non maleficenza, beneficità, autonomia, giustizia, privacy.
Nell’applicazione dei criteri di non maleficenza e beneficità, ad esempio, si presuppone di conoscere quale sia il bene del paziente, ma adoperarsi per la sua realizzazione appare particolarmente difficile quando le condizioni critiche per la “salute” non siano connesse soltanto a situazioni patologiche, oppure a stati di salute fisiologici (ad esempio, quelli connessi a fasi della vita, come maternità, vecchiaia), bensì a posizioni/credenze/abitudini sociali che differenziano la condizione dell’immigrato da quella del cittadino da tempo integrato nella comunità.
Analogamente, il diritto all’autodeterminazione, garantito dal principio di autonomia (il quale anche in condizioni di comunanza di orizzonte culturale può dar luogo a conflitto con quello di beneficità, poiché la scelta su quali condotte sociosanitarie e scelte terapeutiche preferire è condizionata da molteplici fattori, che il terapeuta non sempre condivide), può risultare ancor meno “tollerabile” da parte del medico quando le scelte del paziente gli appaiano iscritte in un orizzonte di “irrazionalità”, poiché dettate da opzioni culturali piuttosto che da valutazioni “scientifiche”. Forse è sulla medesima formulazione di un giudizio di “irrazionalità” che l’incontro interculturale induce a interrogarsi: esso discende, infatti, dall’adozione di criteri che provengono da uno specifico orizzonte concettuale, quello cosiddetto della “scienza occidentale”, che è esso stesso una possibilità, non La Verità. Con ciò non si intende sostenere che qualsiasi richiesta terapeutica, anche la più “stravagante” (nel senso etimologico originario, dal latino medievale extra-vagante, di ciò che si pone al di fuori della norma, senza alcuna valutazione in merito alla “stranezza” o alla “stramberia”, poiché “la norma” è, ci sembra evidente, semplicemente quella che abbiamo stabilito di ritenere valida entro un determinato contesto), ossia la più aliena dai protocolli, debba essere esaudita e magari erogata gratuitamente dal servizio sanitario pubblico. Però tale consapevolezza aiuta a tener vivo un senso critico nei confronti della propria medesima sapienza e del proprio orizzonte valutativo, ossia a ridimensionarne la presupposizione (pur naturale e comprensibile) di assolutezza. Aiuta a riflettere su tale punto la questione delle medicine cosiddette “alternative”. A ben vedere, il mancato riconoscimento della validità terapeutica delle medicine non convenzionali non si basa, di norma, su considerazioni etiche, bensì piuttosto, com’è ovvio, epistemologiche: per dimostrare l’assenza di validità dei risultati ottenuti con terapie non convenzionali si adotta la logica comparativa della medicina allopatica occidentale (si fa riferimento all’effetto placebo, alla scarsa rilevanza statistica dei risultati, alla fallacia dei presupposti scientifici ed epistemologici del tipo di medicina in questione, e così via): ma la medicina non convenzionale è di fatto irriducibile ad essa, essendo totalmente “altri” i parametri, perciò occorrerebbe chiedersi se non sia possibile immaginare dei protocolli di verifica più “neutrali”. D’altronde, per certi aspetti anche la medicina è venuta sempre più a configurarsi come un sapere. Non vogliamo qui sollevare la complessa questione se la neutralità politica richiesta allo Stato riguardo le concezioni controverse della vita buona (principio che a nostro avviso va con forza sostenuto e promosso) debba essere estesa anche alle concezioni epistemologiche, tuttavia riteniamo che possa essere utile quanto meno la consapevolezza che estrapolare modelli e criteri di valutazione elaborati all’interno di un determinato contesto per applicarli a realtà totalmente “altre” non è corretto non solo da un punto di vista etico, ma neppure da quello puramente epistemologico. Ma soprattutto vogliamo suggerire che possa essere utile riflettere su come le ragioni per cui un medico o un malato scelgono una medicina piuttosto che un’altra attengano spesso assai strettamente alle loro visioni del bene e non sempre o esclusivamente ad “evidenze scientifiche”. E’ chiaro che in tal senso la rigidità del terapeuta nella fedeltà alla propria formazione può costituire un ostacolo nel rapporto medico-paziente.
Il problema tradizionale dell’etica, ossia la difficoltà ad applicare regole generali a situazioni particolari, che nell’etica medica si concretizza nella difficoltà ad individuare il punto di mediazione tra i principi e la prassi sanitaria, si amplifica, insomma, in maniera talvolta critica per la relazione terapeutica, nel caso di incontro con differenti Weltanschauungen. La possibile e non infrequente incompatibilità tra il dovere di “fare il bene” del paziente e quello di rispettarne la volontà (può accadere che il rispetto dei principi astratti, ossia dei doveri di tipo universalistico, entri in conflitto con l’esigenza di realizzare concretamente quello che appare il bene maggiore o il male minore per un determinato paziente, vale a dire con i doveri particolari inerenti a situazioni specifiche) diviene particolarmente problematica quando i destinatari dell’assistenza sanitaria sono portatori di diverse visioni morali, soprattutto (per fortuna) in una società nella quale tra i valori-guida si annovera quello di non imporre modelli ideologico-valoriali o religiosi e di non pretendere di assumere a riferimento un unico modello di etica. Sorge pertanto l’esigenza di elaborare un’etica per i problemi biomedici che possa rispondere in modo razionale e condivisibile alle domande delle diverse visioni morali. Ma tale assunto, apparentemente condivisibile, è accompagnato da un paradosso. A ben vedere, la cultura occidentale, in quanto portatrice di un’istanza di uguaglianza che considera universalmente valida, tende per ciò stesso a proporre una visione universalistica: avanza, cioè, la richiesta di un’etica universale e condivisa, che contraddice quella istanza egualitaria, poiché sottintende una preferenza per la propria cultura e i suoi risultati (i valori ai quali è pervenuta).[2] D’altro canto, la pretesa di “neutralità” dinanzi alla differenza (sostenuta, ad esempio, nel liberalismo) finisce sovente col coincidere con l’annullamento delle differenze medesime. Ad esempio, l’idea di cittadinanza universale, uno degli ideali “forti” della vita politica moderna, che riconosce eguale valore morale a ogni individuo, al di là delle peculiarità o appartenenze di gruppo, promuove l’“universalità nel senso di leggi e regole che prescrivono le stesse cose per tutti e si applicano a tutti nello stesso modo; leggi e regole che sono cieche alle differenze individuali e di gruppo.”[3] Ma l’idea di universalità come generalità o, nel senso che qui ci interessa, come eguaglianza di trattamento confligge con la forte richiesta di “cittadinanza differenziata” presente nelle attuali società multiculturali.[4]
Infatti, nel contempo, è faticosamente divenuto anche patrimonio comune il principio del rispetto della diversità. L’UNESCO, nella Dichiarazione su “Identità. Diversità e pluralismo”, affermando che “il rispetto per la diversità fra le culture, la tolleranza, il dialogo e la cooperazione, in un clima di fiducia e comprensione reciproca, costituiscono le migliori garanzie per la pace e la sicurezza internazionale”, non solo definisce la diversità culturale “patrimonio comune dell’umanità” e caldeggia le politiche per l’inclusione e la partecipazione, ma ritiene il pluralismo culturale indissociabile dalla democrazia e considera la difesa della diversità culturale “un imperativo etico, inseparabile dal rispetto per la dignità umana. Questo comporta un impegno a livello di diritti umani e di libertà fondamentali, in particolare dei diritti delle persone che appartengono a minoranze e quelli delle popolazioni indigene.” Lo straniero è storicamente “il diverso”, ma anche l’estraneo, che per essere pienamente accettato deve adottare costumi non suoi; sempre più frequentemente, però, e diversamente che in passato, egli rifiuta l’assimilazione. Robert Park, uno dei padri della Scuola di Chicago, definisce l’assimilazione come “un processo di compenetrazione e di fusione nel quale persone e gruppi acquisiscono memorie, sentimenti e modi di pensare di altre persone o di altri gruppi e, condividendone esperienza e storia, si fondono con loro in una vita culturale comune”. In tal modo, però, all’immigrato resta assegnata una marginalità che è determinata dalla liminarità irrisolta tra le due culture. Ma anche ove le politiche dell’inclusione hanno tentato il percorso dell’assimilazione, nell’attuale mondo globalizzato i contatti e i legami con le culture di origine, anche remote, sono possibili e praticati con una certa facilità, e dunque l’immigrato non rinuncia quasi mai totalmente al proprio mondo d’origine (al quale non di rado spera di ritornare[5]).
Si accennava al principio dell’eguaglianza di trattamento: ebbene, alla luce di tali considerazioni l’applicazione del principio della giustizia, ossia il dovere di offrire a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo principi di giustizia ed equità, non è di più facile realizzazione, proprio per la difficoltà di coesistenza tra uguaglianza e rispetto della diversità. Nessuno negherebbe che ciascun individuo vada rispettato indipendentemente dalla cultura o dalla fede che pratica o dall’etnia di appartenenza, ma come si traduce questa convinzione nella prassi sanitaria, soprattutto in presenza di risorse limitate?[6] La garanzia dell’eguale accesso alle cure non costituisce una certezza di equità, poiché non tutti gli individui necessitano delle medesime cure e la mera eguaglianza di trattamento potrebbe produrre (certamente produce) disuguaglianze nella salute. Il giudizio su di essa, allora, necessita di criteri attinti da altre considerazioni, anche di ordine morale. Del pari, le disuguaglianze, nell’ambito della salute, non sono di per sé ingiuste, se derivano da differenze fisiologiche, genetiche, oppure da condotte individualmente scelte. La difficoltà emerge dalla considerazione che l’appello al principio di eguaglianza presuppone una definizione di salute univoca, certa, descrittiva, mentre nelle nostre società multiculturali vi sono molti esempi di concezioni della salute diverse, se non divergenti. E se possiamo accettare che siano considerati significativi per la salute psico-fisica e meritevoli di considerazione interventi un tempo giudicati superflui, come quelli afferenti alla sfera della chirurgia estetica, significa che abbiamo già accettato l’idea che la “salute” non è qualcosa di definito una volta e per sempre, ma, anche grazie ai progressi biomedici, qualcosa di mutevole nel tempo.
Dunque: perché non anche nello spazio (culturale)? Ciò significa adottare una concezione “storica” della malattia, che si trasforma in una “narrazione”,[7] ossia in un vissuto anche soggettivo, oltre che oggettivo.[8] Da tale considerazione discende la necessità di uno studio delle patologie non solo attento alla biografia del paziente, ma anche non alieno dalla considerazione dei fattori culturali. Ciascun individuo è inserito un una rete relazionale e simbolica complessa, determinante per la strutturazione (e quindi la comprensione) del suo sistema di valori, del suo approccio al reale e, pertanto, della sua richiesta di cura. La “cultura” influenza in maniera determinante non solo la definizione delle malattie e della salute, ma anche la descrizione delle loro cause e la richiesta di interventi, così come l’idea della propria predisposizione alla malattia e persino la percezione della gravità della stessa dipendono dagli elementi che il paziente giudica importanti. L’approccio “narrativo” alla malattia (l’ascolto delle storie di vita, del racconto delle esperienze, l’attenzione alle biografie e con esse ai contesti sociali di provenienza) è una modalità per entrare in relazione e scoprire i bisogni individuali connessi alla condizione di migrante (includendo, dunque, la percezione del sé, della propria collocazione sociale, ad esempio, dell’eredità culturale che si riceve dal proprio gruppo), rinunciando ai modelli e agli stereotipi che annullano le peculiarità dei percorsi e dei progetti migratori e azzerano le originalità dei singoli. La narrazione stessa assume talvolta funzione terapeutica, poiché promuove il benessere individuale non solo in funzione della diagnosi medica, bensì come ritrovamento della propria identità attraverso le relazioni umane, dopo quella che Beck ha definito la “frattura biografica”, determinata dalla scelta di partire e abbandonare il proprio paese.
In molti casi, e gli operatori della sanità hanno innumerevoli esperienze in merito, le scelte individuali acquistano senso solo se inquadrate nella specifica visione della vita del singolo, e sono influenzate anche dalla più o meno solida rete di relazioni nella quale è inserito. “È solo entro una comunità morale particolare che si riceveranno istruzioni su quando valga la pena di smettere di fumare per avere migliori prospettive di salute, di accettare un’amputazione e un trattamento aggressivo del cancro per avere una possibilità più elevata di sopravvivere cinque anni, o di svolgere un ruolo attivo nella scelta del proprio trattamento invece di lasciar decidere il medico. È solo nell’ambito di una comunità particolare che si impara se sia giusto o sbagliato, se valga o no la pena di fare le cose che si ha il diritto morale laico di fare. […] Entro una comunità particolare, si può anche imparare se sia meglio soffrire le pene di una lunga malattia mortale o evitarle con il suicidio, se sia meglio allevare con amore un bambino handicappato o prevenire la sua nascita con la diagnosi prenatale e l’aborto, se sia meglio accettare la sterilità o affittare una madre surrogata. Tali scelte possono essere fatte solo sullo sfondo di una concezione concreta dei valori.”[9]
Di questi il medico non può, a nostro avviso, evitare di tenere conto nell’“informare” il paziente. Se poi, come riteniamo, l’informazione si traduce quasi sempre anche in un “indirizzo”,[10] dobbiamo pure osservare che non poco incidono nella relazione terapeutica le difficoltà espressive, che potremmo considerare, anzi, di primo livello. Il senso comune fa riferimento più o meno consapevolmente ad un vocabolario che considera “decisivo”, almeno per parlare di cose di rilevante importanza (e precisamente a quello adoperato abitualmente nel contesto entro il quale il parlante vive), nella convinzione che esso serva anche a giudicare di altri vocabolari e delle credenze che quelli implicano. In effetti non è così e poiché la qualità della relazione medico-paziente appare sovente determinante per il buon esito delle terapie, una cattiva comunicazione ostacola l’espressione dei bisogni e quindi l’individuazione del metodo di cura più appropriato.[11] Perciò alcune strutture sanitarie hanno attivato centri di ascolto per gli stranieri, dotati di interpreti. Il mediatore culturale, tuttavia, non è né un semplice interprete, né un assistente sociale, poiché la sua “traduzione” è un’illustrazione in termini comprensibili culturalmente dei servizi offerti dalle strutture sanitarie, cosicché egli contribuisce a gestire la comunicazione tra i sanitari e il paziente non solo in termini di differenze linguistiche. Tutto ciò costituisce, per altro, una rivoluzione nella relazione medico-paziente, tradizionalmente duale, e perciò un altro elemento di difficoltà per l’operatore sanitario che si trova in un contesto multietnico.
Prefiggersi, insomma, di garantire lo “standard etico minimo” dal punto di vista legale non equivale a garantire la miglior “cura” possibile dal punto di vista etico. Indubbiamente non è facile per gli operatori sanitari formatisi nella scienza occidentale accettare l’idea del pluralismo terapeutico, e anche applicare il principio di eguaglianza dinanzi a tali differenze, ancor più dinanzi al non infrequente contrasto tra desiderabilità etica, praticabilità politica e praticabilità allocativa.
La Stanford Encyclopedia of Philosophy definisce l’eguaglianza “la più controversa delle grandi idee sociali”, soprattutto per le difficoltà derivanti dalla necessità di definire la sua relazione con la giustizia, la sua estensione, i suoi riferimenti e i criteri per le misurazioni concrete della sua applicabilità. L’eccessiva astrattezza del criterio dell’imparzialità nei giudizi morali si manifesta in quelle situazioni che richiedono decisioni con le quali, nonostante l’appello alle regole condivise, non sembrano soddisfatti allo stesso modo il principio di autonomia e quello di beneficenza, oppure si è costretti ad accondiscendere a criteri distributivi, a discapito del migliore intervento possibile qui ed ora. L’astratta imparzialità rischia di produrre ingiustizie, mentre il diritto all’eguale rispetto non comporta un’eguaglianza di trattamento e l’eguale considerazione non impedisce che vi siano categorie maggiormente tutelate di altre per compensare condizioni di “minorità”. Le scelte strategiche complessive in merito all’allocazione delle risorse devono necessariamente essere effettuate in maniera imparziale, non preferenziale, fondarsi su calcoli economici e su una giustizia astratta che potrà andare a nocumento di alcuni; tuttavia, le nostre società democratiche presentano molti esempi dello sforzo di tener conto, all’interno delle scelte generali, di casi particolari (ad esempio, particolari patologie), che vengono trattati con interventi specifici, con agevolazioni che non suscitano alcun risentimento per la loro “parzialità” e non contravvengono al principio dell’eguale distribuzione delle risorse e dell’eguaglianza nei diritti, ma, anzi, attraverso la cura di soggetti deboli, finiscono, proprio nella loro “parzialità”, per favorire l’eguaglianza di condizioni. Dunque abbiamo modelli di riferimento concreto: il principio dell’eguale dignità di tutti gli individui, standard etico minimo condiviso nella cultura occidentale, implica una pari rilevanza dei bisogni, ma non un’identità e una negazione delle differenze: come ha ben illustrato Dworkin,[12] esso implica che si trattino le persone come eguali e non che si trattino nella stessa maniera.
Per tutto ciò, la risposta alla presenza di immigrati richiede un’evoluzione (oltre che costituire una sfida) dell’organizzazione tradizionale dei servizi alla persona. Se in un primo tempo i servizi agli immigrati sono stati strutturati necessariamente come servizi “dedicati”, sempre più essi saranno inglobati entro le prestazioni rivolte a tutti i cittadini e ciò sarà un passo in direzione dell’integrazione e della parità nella cittadinanza. In tal senso i servizi sanitari possono rappresentare non solo un luogo di scambio tra culture diverse, ma un’occasione di riduzione delle differenze e di promozione della non discriminazione e della piena integrazione. Perciò ricade su di esse una grossa responsabilità. Le politiche sociali in una società multiculturale devono necessariamente partire anche “dal basso”, ossia dalle richieste di benessere provenienti dai cittadini, ma soprattutto le azioni di sostegno devono esser parte di una “rete” di interventi finalizzati all’inclusione e alla partecipazione. Il modello di riferimento è di tipo relazionale, ossia pone solo un mutevole e transitorio limite tra qualità e quantità, poiché per affrontare le differenze culturali non è sufficiente un’analisi quantitativa dei bisogni e degli strumenti necessari a soddisfarli, ma occorre affiancarvi la valutazione dei processi comunicativi e intersoggettivi, che non riduce la persona a “utente”, ma le riconosce un ruolo attivo, e la condivisione (più che la trasmissione) di informazioni.
Da tale prospettiva, la riflessione sui problemi bioetici posti dalla multietnicità incrocia, ci sembra, le istanze della cosiddetta “etica della cura”: secondo tale prospettiva, mentre la definizione di “cura” sottintende l’attenzione alla singola patologia, al singolo organo malato, la somministrazione di terapie standard secondo protocolli consolidati e neutrali rispetto alle differenze e, entro certi limiti, alle richieste individuali, e anche una neutralità nell’approccio da parte del terapeuta, che in alcun modo è coinvolto emotivamente nella relazione con il paziente, il “prendersi cura”, ossia l’attenzione per l’intera persona, le si contrappone come un agire che si realizza “in situazione”, legato all’esperienza unica e irripetibile del momento della sofferenza.[13] La somministrazione delle terapie è astrattamente regolamentata dal sistema sanitario; il “prendersi cura” richiede un radicamento nel particolare,[14] e, in coerenza con i valori deontologici prescritti per la pratica medica, fornisce un’indicazione per il loro ampliamento a considerare i bisogni psicosociali, conciliando la cura e il caring (prendersi cura), riconoscendo il malato non solo come un individuo che necessita di cure mediche, ma come una persona che deve essere sostenuta all’interno della sua rete di relazioni, dalla quale dipende il suo benessere e forse anche la sua salute.
Jean Keller, studiandone la sua applicabilità all’ambito medico, indica l’elemento caratterizzante dell’etica della cura in una particolare rappresentazione dell’agente morale, concepito come essenzialmente relazionale. La relazionalità è infatti determinate per la concezione del sé e la propria autodefinizione e fornisce un “focus” all’orientamento morale alla cura: la relazione di cura non è altro che il modo in cui si interagisce con agli altri. Di più: l’impegno dell’etica della cura coincide con la pratica medica, poiché essa ha tra i propri compiti quello di fornire risposta ai bisogni e alla vulnerabilità generati dalla condizione di malattia, ma la estende ulteriormente, poiché questa “risposta” alla vulnerabilità include non solo i bisogni fisiologici, ma anche quelli psicosociali. Il medico e l’infermiere, dunque, curano (cure) e si prendono cura (care) dei pazienti, non considerati individui solitari, bensì in quanto implicati in una rete relazionale.[15]
La cura intesa come solidarietà con chi partecipa del nostro contesto relazionale è il “luogo” della possibile mediazione tra l’applicazione astratta dei principi e il rispetto delle differenze di cultura. Vi è un diritto alla differenza, che viene rispettato soltanto se si accetta l’eterogeneità della moralità, la quale non deriva evidentemente da un’unica “fonte”, e se si esercita una valutazione delle procedure non tecnico-strategica ma comunicativa, ossia non “sorda” alla richiesta di senso inter-culturale.[16] Quando in ambito morale si fa riferimento ad un “noi” che dovrebbe essere interessato dai giudizi di valore nell’idea di “‘uno di noi esseri umani’ (in contrasto con gli animali, i vegetali e le macchine)”, il concetto di “‘noi’ ha, di norma, una valenza contrappositiva, nel senso che si contrappone a un ‘loro’ fatto anch’esso di esseri umani... di quelli sbagliati. [...] Il nostro sentimento di solidarietà è più forte quando colui a cui è rivolto è considerato ‘uno di noi’, dove ‘noi’ designa qualcosa di più piccolo e geograficamente più limitato dell’intera razza umana.”[17] Ciò non esclude però la possibilità di ampliare l’ambito degli individui verso i quali si avverte la responsabilità morale, ossia il numero di coloro che rientrano in quel “noi” che esclude sempre un “loro”. Da tale punto di vista vorremmo dire allora che il progresso morale consiste nella crescita della solidarietà. Questa non presuppone alcuna natura umana universale, ma si protende a cogliere l’universalità del dolore, un genere di comunanza che supera le differenze, siano esse di religione o cultura o consuetudini.

[1] Naturalmente il lavoro nero, senza tutele, unito alle condizioni di vita malsane e misere, si connette quasi certamente ad un abbassamento delle difese immunitarie e ricompaiono malattie che erano quasi scomparse nei paesi occidentali.
[2] Ci sia consentito rinviare a M.A.La Torre, “Il multiculturalismo come problema etico-filosofico”, in Medicina e multiculturalismo. Dilemmi epistemologici ed etici nelle politiche sanitarie, Apèiron, Bologna 2000. Cfr. anche ID., “Complessità vs. universalismo: la bioetica e le voci della differenza”, in Bioetica e cultura della complessità, Macro, Cesena 1998.
[3] I.M.Young, Polity and Group Difference: A Critique of the Idea of Universal Citizenship, “Ethics” 99 (1989) p. 250.
[4] In verità, l’ideale della “cittadinanza differenziata” è da alcuni giudicato pericoloso per la difesa dell’integrità delle società “ospitanti”. Cfr. ad esempio G.Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei, Milano, Rizzoli 2000.
[5] Tale caratteristica accomuna alcune comunità maggiormente legate alle proprie “radici” o forse meno “aggressive” nel conquistare uno spazio di visibilità e benessere, come quelle provenienti dallo SriLanka.
[6] CNB, Problemi bioetici in una società multietnica, 1998.
[7] B.J.Good, Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Edizioni di Comunità, Torino 1999.
[8] M.A.La Torre, “Il problema di una giustizia interculturale in bioetica”, in Il multiculturalismo nel dibattito bioetico, Giappichelli, Torino 2005 pp.65-78.
[9] H.T.Engelhardt, Manuale di bioetica, Saggiatore, Milano 1991 p.63.
[10] Sono evidenti le difficoltà che si manifestano in relazione alla pratica del consenso informato, sancito, com’è noto, dalla Convenzione di Oviedo, (Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, Consiglio d’Europa, 1996) la quale all’art. 5 prevede che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.” Come infatti può dirsi informato un consenso ad una terapia firmato da qualcuno che presumibilmente non ne ha compreso appieno le implicazioni?
[11] Gli antropologi hanno da tempo indagato le difficoltà di ogni “traduzione”, che in quanto tale “perde” sempre qualcosa del messaggio originale, tanto da indurre alcuni a concludere sull’incommensurabilità tra i linguaggi e quindi le culture.
[12] R.Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna 1983.
[13] Sull’etica della cura cfr. H.Kuhse, Prendersi cura. L’etica e la professione di infermiera, Edizioni di Comunità, Torino, 2000; M.Mayeroff, On caring, Harper Perennial, New York, 1972; N.Noddings, Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education, University of California Press, Berkeley, 1984; R.Sala, Bioetica e nursing. Il senso morale del prendersi cura. Riflessioni di etica infermieristica, “Medicina e Morale”, 3 (2000).
[14] Cfr. M.A.La Torre, “Il modello della cura in bioetica”, in Dimensioni della Relazione Terapeutica. Profili comportamentali per una nuova missione della sanità, Apèiron, Bologna 2002.
[15] “La salute e il benessere di un’anziana donna, per esempio, possono dipendere dalla capacità e dalla buona volontà dei suoi figli di fare la spesa per lei e cucinare, portarla alla dialisi quattro volte alla settimana e fornirle supporto emotivo. Senza tale rete di cura, la capacità di questa donna di sopportare il suo regime medico sarebbe compromessa.” J. Keller, “Care Ethics as a Health Care Ethic”, Contexts 4 (1996).
[16] Cfr. M.A.La Torre, Bioetica e multiculturalismo. Verso una bioetnoetica, Esi, Napoli 2004
[17] R.Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza 1989 p.219.

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