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Etica e politica della cura

Per una nuova idea della cittadinanza

Luisella Battaglia

“La nostra concezione della vita morale dovrebbe fornirci un modo di rispettare e trattare giustamente gli altri. Per farlo, dobbiamo attribuire valore a ciò che la maggior parte delle persone fa nel corso della propria vita: si occupa della cura di sé, degli altri e del mondo.”

Joan C. Tronto

Molte sono state, negli ultimi decenni, le studiose impegnate a rivendicare il valore etico e politico della cura : tra esse, Carol Gilligan, Sara Ruddick, Carolyn Merchant e Joan Tronto. Se Gilligan ha inaugurato un filone di studi di estrema rilevanza, imperniato sulla valorizzazione di una ‘voce differente ‘ in campo morale,[1] Ruddick ha analizzato la ricchezza filosofica del ‘pensiero materno’ mostrando il suo legame con una politica della pace[2] e Merchant, a sua volta, ha associato inscindibilmente, nella visione eco femminista, liberazione della donna a liberazione della natura.[3]

Ma è stata soprattutto Joan Tronto a sistematizzare compiutamente tale variegata elaborazione teorica, estendendo ad una dimensione davvero globale i confini dell’etica della cura. Come si legge in un saggio apparso nel 1990, scritto con Berenice Fisher, Toward a Feminist Theory of Caring : “A livello più generale, suggeriamo che la cura venga considerata come una specie di attività che include tutto ciò che noi facciamo per conservare, continuare e riparare il nostro ‘mondo’ in modo da potervi vivere nel miglior modo possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa di sostegno alla vita.”[4]

Il Caring, se ne deduce, non è soltanto un sentimento o una disposizione d’animo né semplicemente un insieme di azioni. E’, potremmo dire, un complesso di pratiche che si estendono da sentimenti assai intimi, come il ‘pensiero materno’, fino ad azioni estremamente ampie come, ad esempio, la concezione dei sistemi pubblici di educazione.[5] La cura è sempre stata, e sempre sarà, una parte fondamentale della vita umana ma – ricorda Tronto – gli studiosi di scienze sociali hanno di rado accordato attenzione ad un tipo di attività considerato - a partire dalla “Politica” di Aristotele - ‘privato’, piuttosto che ‘pubblico’ e, quindi, ritenuto di importanza marginale. Quello che si potrebbe chiamare il ‘paradosso della cura’ è che essa--pur rivestendo un ruolo essenziale nella società umana (è un'opera che sostiene la vita) --viene considerata come una parte marginale dell'esistenza: le sue pratiche sono svalutate, se non ignorate. Ma se è un aspetto importante della nostra vita, allora il disinteresse di scienziati sociali e filosofi nei suoi confronti appare davvero sorprendente. Perché, ci si può chiedere, la cura non è una categoria centrale dell'analisi sociale e delle stesse teorie filosofiche? Perché non si intraprende un'indagine sistematica di tale nozione? Dobbiamo ammettere che la nostra comprensione è ancora parziale e limitata. Spesso si discute della cura come di un concetto associato al privato, alla dimensione emozionale e sentimentale, opposta a quella razionale, e altrettanto spesso la si collega direttamente al mondo femminile, tanto che sembra essere la . A ciò ha senz'altro contribuito l'interpretazione di Carol Gilligan che, distinguendo tra le due etiche--dei diritti e della cura--ha ricondotto quest’ultima al pensiero morale femminile. D'altra parte, va aggiunto, sociologicamente e storicamente, la cura è sempre stata affidata in esclusiva alle donne e alle classi subalterne; da qui una svalutazione di tali attività, sottopagate e socialmente poco considerate. Ma, in questo modo, si rischia di perdere di vista la dimensione sociale e pubblica della cura.

Richiamare l'attenzione su tale valore potrebbe consentirci sia di guadagnare una prospettiva critica sulla nostra cultura--ponendo, ad esempio, quesiti circa lo spazio e l'adeguatezza del caring nella società in cui viviamo--sia di pervenire a un profondo ripensamento della vita morale e politica. Si tratta, pertanto, di evidenziare una serie di percorsi attraverso cui la cura può configurarsi come un ideale per la vita politica e realizzare una forma realistica di cittadinanza democratica. Quali potrebbero essere, dunque, le condizioni perché la cura venga incorporata nella nostra visione politica? Sembra necessario, innanzitutto, ripensare profondamente i nostri assunti sulla natura umana, riflettendo, in particolare su due concetti cruciali, dipendenza e autonomia. Considerare la cura come un aspetto fondamentale della vita umana ha infatti profonde implicazioni: significa, in primo luogo, guardare alle persone non come esseri pienamente autonomi ma sempre situati in una condizione di interdipendenza. E' parte della nostra stessa condizione umana, rileva Tronto, che la nostra autonomia emerga dopo un lungo periodo di dipendenza e che, sotto molti aspetti, restiamo dipendenti dagli altri nel corso della vita. Allo stesso modo, siamo spesso chiamati ad aiutare gli altri e a prenderci cura di loro. Dal momento che siamo talora autonomi, talora dipendenti, talora accudenti, possiamo essere descritti come individui inter-dipendenti.

Configurare la cura come valore capace di informare la vita politica, se comporta necessariamente un allargamento dei confini della nostra vita morale e quindi un mutamento di paradigmi etici, non implica affatto – Tronto lo sottolinea a più riprese - la sconfessione o il ripudio delle nostre tradizioni liberali e pluralistiche.[6] Non dobbiamo, quindi, in alcun modo, rinunciare alla tradizione liberale per aderire a un'etica della cura, viceversa, è possibile accorpare quello della cura agli altri valori liberali (come i diritti), mostrandone la piena compatibilità. Ma per far questo, occorre, innanzitutto, superare la dicotomia, introdotta da alcune teoriche femministe, tra etica dei diritti ed etica della cura, una dicotomia basata sull'assunto che cura e giustizia provengano da due diverse fonti: la prima dalla compassione, la seconda dalla razionalità. Si tratta, tuttavia, di una visione inadeguata giacché, al di là dell'astratta separazione tra sfera dei sentimenti e sfera della ragione nel dominio morale, una teoria della cura è incompleta se non viene incorporata in una teoria della giustizia e, a sua volta, una teoria della giustizia è insufficiente se non integra in sé elementi di cura.

In questo quadro, collocare la cura in una prospettiva politica potrebbe cambiare contenuti e metodi della nostra discussione pubblica, a partire dal fatto--essenziale--che occorre riaffidarsi a processi democratici, coinvolgendo gruppi politici esclusi, influenzando forme di educazione politica, per ascoltare e includere chi riceve le attività di cura e, quindi, prestando particolare attenzione ai soggetti deboli. Se vogliamo inserire il valore della cura in una teoria della giustizia, dobbiamo altresì riflettere sul concetto di bisogni e, in particolare, sul fatto che essi sono culturalmente determinati e variano non solo da una persona all'altra ma nel corso stesso della vita personale, dall'infanzia alla vecchiaia. E' questa una considerazione della massima importanza perché solo se comprenderemo che ciascuno di noi ha avuto, ha e avrà bisogni durante la propria vita, potremo, ad esempio, affrontare con maggiore consapevolezza e serietà il problema dell'allocazione delle risorse nei diversi ambiti di etica pubblica e individuare quali problemi di eguaglianza e ineguaglianza siano implicati in tale decisione; analogamente, potremo ripensare criticamente la distribuzione dei compiti e dei ruoli nella società in cui viviamo. Rivestono, a tale riguardo, particolare interesse le osservazioni di Susan Moller Okin sulla necessità di eliminare l'ingiustizia alle sue radici, all'interno della famiglia, dove la distribuzione dei ruoli è determinata dal sesso e influenza pesantemente la vita pubblica, i nostri atteggiamenti culturali, la distribuzione delle opportunità professionali.[7] La famiglia non è una fra molte istituzioni di pari importanza in una società giusta ma la sua stessa base: è, infatti, il luogo essenziale per lo sviluppo morale primario e per la formazione degli atteggiamenti fondamentali. E’ ben noto che, dal punto di vista della condivisione delle cure parentali, la famiglia italiana è, in assoluto, tra le più arretrate d'Europa. L'impegno familiare è ancora di stretta competenza femminile e non diminuisce certo con l'occupazione extradomestica, comportando equilibrismi eroici sui tempi quotidiani. Un'eguale ripartizione tra i sessi delle responsabilità familiari sarebbe, secondo Okin, la 'grande rivoluzione' che non è ancora avvenuta: una rivoluzione sia per le donne che per gli uomini.

Non si tratta, quindi, di riconoscere nella cura un valore esclusivo del mondo vitale delle donne: occorre piuttosto rivendicarlo come centrale nella vita umana e riflettere sul fatto che esso può mettere in questione la stessa struttura normativa su cui è fondata la nostra società e rimodellarne di conseguenza le istituzioni. Particolarmente significative, a questo riguardo, appaiono le quattro fasi, analiticamente distinte ma interconnesse, in cui si articola, per Tronto, il processo della cura. Esse comprendono: “l’interessarsi a” (caring about) che comporta il riconoscimento della necessità della cura in base alla percezione del bisogno e alla valutazione della possibilità della sua soddisfazione; “il prendersi cura di” ( taking care of ) che implica l’assunzione di qualche responsabilità rispetto al bisogno identificato e l’impegno di rispondervi; “il prestare cura” ( care – giving ) che consiste nel soddisfacimento diretto dei bisogni di cura e quindi richiede una presa di contatto tra i diversi soggetti; “il ricevere cura ( care – receiving ) che rappresenta la fase finale del processo in cui il destinatario della cura risponderà alla cura che riceve e si potrà verificare l’effettiva soddisfazione dei bisogni.[8]

Resta da chiedersi in che senso la cura, intesa come condotta pratica, possa informare la vita politica dei cittadini. Tronto ha più volte sottolineato come le qualità di attenzione, di responsabilità e di empatia--tipiche della cura--possano favorire una politica incentrata sulla discussione pubblica e attenta alle intersezioni tra bisogni e interessi. A suo avviso, un modello ispirato alla cura, oltre ad offrire una prospettiva inedita sulla società contemporanea – centrale è il tema dell’interdipendenza –, può fornire una migliore comprensione dei fenomeni sociali e approntare una spiegazione più soddisfacente della natura delle azioni democratiche e dei cambiamenti necessari per rispondere alle sfide che ci attendono.

Quali, dunque, gli elementi chiave del ‘prendersi cura’? Innanzitutto, la cura è relazionale e si basa sul riconoscimento che le persone, gli animali e l’ambiente sono interdipendenti. In questo contesto occorre collocare il tema della responsabilità che altrimenti verrebbe interpretato in chiave individualistica o appiattito sul piano meramente giuridico. La visione antropologica proposta è quella di soggetti che lavorano in relazione con altri e la cui autonomia emerge attraverso un processo complesso di crescita e di sviluppo che prevede la consapevolezza della reciproca interdipendenza. Ma, soprattutto, appare decisivo il riconoscimento della comune vulnerabilità. Se è vero che tale condizione è più presente in alcune categorie di persone e emerge con particolare evidenza in determinate fasi dell’esistenza, essa si configura come una condizione strutturale della vita umana che ne evidenzia la fragilità e quindi il bisogno del sostegno, della solidarietà, in una parola, della cura. Ne deriva che tutti gli esseri umani, in un momento o nell’altro della loro vita, sono non solo oggetti ma soggetti di cura e, quindi, non si limitano a ricevere ma donano cura.

A parere di Tronto, eccetto un numero trascurabile di persone affette da atonia morale, gli esseri umani appaiono impegnati in molteplici pratiche di cura, a partire dalla prima infanzia – i bambini di 10 mesi imitano spontaneamente l’agire di chi li nutre, cercando di nutrire a loro volta chi si occupa di loro - anche se le capacità e i bisogni di ciascuno variano nel corso della loro esistenza. E’ tuttavia la stessa universalità della cura a indurci a sottolinearne il carattere contestuale. Benché sia vero che tutti gli umani abbiano gli stessi bisogni di base, non vi sono due persone, due gruppi o due culture che rispondano allo stesso modo alle esigenze e alle richieste di cura: di conseguenza, occorre prestare molta attenzione alle caratteristiche delle differenti situazioni.

Su tali presupposti si fonda – secondo Tronto – il carattere democratico della cura. Si tratta, a suo avviso, di un aspetto determinante perché esistono numerose forme di cura che non sono organizzate in modo democratico, il che significa che l’adeguazione normativa della cura dipende non tanto dalla sua chiarezza concettuale quanto dalla teoria politica e sociale più ampia in cui è situata. Nelle società che intendono assumere l’eguale valore di ogni vita la cura pertanto deve essere democratica e inclusiva nella distribuzione delle responsabilità

Una politica che sia ispirata alla cura s’impegna, innanzitutto, a tutelare i diritti dei soggetti deboli, che rischiano di essere retrocessi a cittadini di serie B perché non hanno ancora o non hanno più le capacità paradigmatiche (autosufficienza, razionalità, autonomia) previste per la piena cittadinanza. Non chiede paternalismo né pietà ma solo una forma matura e laica di solidarietà, un’etica pubblica aperta ai bisogni, sensibile alle differenze e rispettosa delle autonomie, fondata su un’idea di cittadino non come soggetto astrattamente indipendente ma come persona concretamente interdipendente. Il che significa: in relazione con gli altri e più o meno bisognosa di loro.

L’idea di uno scambio reciprocamente vantaggioso tra contraenti adulti e capaci, dai bisogni sostanzialmente simili, rischia di omettere le forme più estreme di bisogno e di dipendenza di cui gli esseri umani possono fare esperienza. Se lo schema della reciprocità in campo etico blocca la nostra immaginazione morale, l’etica della cura, asimmetrica per definizione, cerca di rispondere a questa difficoltà: estende la nostra visione, attiva l’attenzione, potenzia l’immaginazione, quella facoltà che c’insegna a vedere l’umanità dell’altro, specie di coloro che sono colpiti da disabilità e hanno bisogni fuori dall’ordinario. Si tratta di uno strumento necessario per abituarsi a guardare l’altro in maniera empatica, per avvicinarsi a lui cercando di entrare nel suo mondo interiore. L’immaginazione ci porta a vivere in mondi diversi dal nostro, ci invita a riflettere su realtà differenti: se è essenziale per l’educazione di un bambino (ascoltare fiabe e racconti sviluppa l’immaginazione), è fondamentale per tutti noi che dobbiamo diventare buoni interpreti del pluralismo in cui viviamo e sforzarci non solo di intendere diverse lingue ma anche di scoprire esistenze lontane e differenti abitudini culturali. Ma quel che più conta, l’immaginazione può consentirci di superare il particolarismo, aiutandoci a prendere coscienza della nostra ‘identità di specie’: è possibile riconoscere l’umanità nell’altro, ritrovare in lui bisogni e capacità che sono presenti in noi, al di là degli angusti confini del nostro gruppo e della nostra città; nel contempo essa ci consente di comprendere come bisogni e scopi comuni vengano realizzati in modo diverso in circostanze differenti. In tal modo, si profila una nuova idea della giustizia, nuova perché rimette in questione poteri consolidati e, soprattutto, perché riconosce diritti di soggetti diversamente deboli che rischiano di essere esclusi da una cittadinanza composta solo da contraenti competenti e informati, capaci di far valere i propri diritti. Una cittadinanza che oggi, dinanzi a nuove sfide (allungamento della vita, nuovi poteri indotti dalla medicina, problemi inediti posti dalle biotecnologie) accetti finalmente il valore della cura.

Nella nuova idea della democrazia ispirata al Caring è centrale – lo si è visto - il tema della relazionalità. L’io di cui si parla è, infatti, un soggetto comunicativo cui è sempre necessario l’altro, inteso non come categoria generale e astratta ma come individuo concreto, unico e irripetibile. L’io relazionale, inoltre, è un soggetto che si riconosce per la sua rete di rapporti e per le sue appartenenze molteplici. La critica all’idea di un soggetto autonomo, tradizionalmente presupposta dall’individualismo liberale, potrebbe far pensare all’adesione a forme di comunitarismo mentre siamo dinanzi a una visione ben più articolata e complessa. La studiosa americana resta infatti del tutto fedele all’impostazione liberale nel suo proposito d’integrarla con un valore etico forte come la cura. Ma, quel che più conta, mentre nel comunitarismo vi è una chiara impronta tradizionalistica, qui si auspica una trasformazione sostanziale delle condizioni sociali, specie di quelle che hanno confinato nel privato le relazioni di cura, relegando le donne, in quanto addette alla cura, in settori marginali della vita civile.

Nel suo progetto etico-politico - esposto compiutamente nella sua opera più recente, Caring Democracy - Tronto ribadisce infatti sia l’importanza del ruolo affidato allo Stato—alleviando, ad esempio, l’onere che grava sulle persone che curano i disabili—mediante una vasta gamma di politiche pubbliche (periodi di aspettative pagati, aiuti finanziari etc.), sia la necessità del cambiamento dei luoghi e delle condizioni di lavoro attraverso una ridefinizione dei confini tra pubblico e privato.[9] Il tema dei bisogni e delle relazioni di cura—con le forme di interdipendenza che ne conseguono—s’intreccia con quello, altrettanto cruciale, degli squilibri e delle asimmetrie nella divisione del lavoro e dell’ingiustizia nei rapporti familiari. La responsabilità di chi si prende cura all’interno della famiglia deve essere infatti ridistribuita ed equamente condivisa: non si può scaricare sulle spalle di una sola persona—di solito una donna—il peso del sacrificio, l’impegno della totale abnegazione né si può farle pagare il prezzo della libertà e della dignità di un altro. Le reali condizioni di vita in una società nella quale si dà ancora per scontato che il lavoro di cura |debba essere fatto ‘per puro amore’ costringono infatti le donne ad accollarsi un onere enorme che grava su tutta la gamma delle attività economiche in cui sono impegnate e che ne riduce la produttività e il contributo alla vita civile e sociale. Tale discorso, volto a dare un effettivo spessore al concetto di giustizia sociale, ha un importante risvolto per quanto riguarda i care givers. Finché non riconosceremo pienamente il valore e la dignità delle persone che si trovano in una situazione di dipendenza non riconosceremo neppure il valore e la dignità del lavoro di chi se ne prende cura e quindi non attribuiremo ad esso l’apprezzamento sociale che si merita.

Proviamo a riflettere sui tre elementi fondamentali della cura: mantenere, che significa tenere in vita, consolidare; continuare, con cui si intende garantire le condizioni della sopravvivenza per trasmettere quel che abbiamo ricevuto a chi verrà dopo di noi; riparare, che fa riferimento agli interventi per guarire i mali e sanare le ferite. Tre attività indispensabili per una società che si proponga non solo di sopravvivere ma di ‘ben vivere’ quale è, appunto, la ‘società della cura’.

Se l’etica nasce da uno sguardo verso l’altro, dal rifiuto del riconoscimento della comune vulnerabilità si disegnano le barriere che dividono i territori in piena luce in cui si dispiegano la dignità, il valore, la solidarietà di coloro che dicono noi e le immense zone d’ombra che inghiottono gli altri nel silenzio, nell’indifferenza, nell’oblio.

La vulnerabilità può costituire il fondamento di un’etica pubblica della cura che intenda costruirsi sulla premessa antropologica che tutti noi siamo fondamentalmente vulnerabili. Per questo legame con l’etica della cura può essere di grande rilievo il contributo del pensiero delle donne al tema della vulnerabilità. Se lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie rimette alla decisione del soggetto le questioni cruciali del vivere, del nascere e del morire, il pensiero delle donne, pur nelle diversità delle sue articolazioni, mi sembra caratterizzarsi per il passaggio da un astratto soggetto ‘di carta’ - che cancella la differenza di genere e dunque il volto vero della vita -, a un concreto soggetto ‘di carne’ nella ricchezza delle sue determinazioni sessuali, storiche ed esistenziali. Tale richiamo alla concretezza carnale è, tuttavia, abissalmente lontano da ogni affermazione biologistica o vitalistica. Mentre nel vitalismo la vita è una forza che si afferma contro le regole, nella bioetica la vita appare esposta nella sua nudità alle minacce che provengono dalle tecno scienze e, quindi, bisognosa di tutela.

Da qui un inedito rilievo conferito alle nuove dimensioni della responsabilità umana chiamata a guardare oltre le frontiere tradizionali dell’etica: dello spazio (il pianeta), del tempo (le generazioni future), della specie (gli animali non umani). E da qui anche, di conseguenza, la visione allargata della comunità morale che la bioetica ci propone: le generazioni non ancora nate, la biosfera minacciata, la totalità a noi prossima delle creature viventi sono ormai entrate nel campo etico.[10].Oggi siamo tutti, consciamente o no, ‘spettatori globali’ del dramma planetario della sofferenza, testimoni oculari del male inflitto agli umani (e ai non-umani) ovunque nel mondo. L’etica non può arroccarsi in un sistema chiuso: se deve regolare l’attività umana non può ignorare le situazioni inedite create dagli sviluppi delle biotecnologie e che sono molto spesso tali da rendere di rilevanza morale eventi che prima non lo erano semplicemente perché sottratti alle nostre possibilità di intervento e di scelta.

Inevitabile è qui la critica della nozione di sviluppo, definito da una prospettiva tecno economica e ritenuto misurabile cogli indicatori di crescita e di reddito. L’idea stessa di sviluppo presuppone che esso sia la locomotiva del progresso umano ma in tal modo ignora drammaticamente che la crescita tecno economica produce altrettanti sottosviluppi materiali, cognitivi, morali. Ancora una volta, possiamo trovare alcuni spunti in questa direzione nella particolare lettura dell’etica della cura che offre Joan Tronto in I confini morali:

“il mondo assumerà un aspetto differente spostando la cura dalla posizione periferica che occupa attualmente e collocandola al centro della vita umana. Trasformando i confini morali per focalizzare la nostra attenzione su un concetto integrale di cura, dovremo anche modificare alcuni aspetti centrali della teoria morale e politica.”[11]

Che cosa può significare – per riprendere la proposta della Tronto – la centralità della cura? In primo luogo, si intende elaborare una visione alternativa della moralità incentrata sulla interdipendenza e attenta ad alcune categorie della vita sociale che strutturano la nostra esistenza: genere, classe, razza e specie. In secondo luogo, significa proporre la cura come valore capace di informare la vita pubblica e di progettare un’agenda politica rinnovata, attenta ai problemi ignorati dalla politica tradizionale. Il successo materiale della nostra civiltà è stato formidabile ma ha prodotto drammatici insuccessi morali: il degrado della solidarietà, le nuove povertà, il dilagare degli egocentrismi, un malessere psichico diffuso e indefinito. Oggi è visibile una reazione, certo ancora embrionale, fatta di tentativi dispersi, individuali o comunitari, di riformare la propria vita, di ricercare forme di convivialità, di ricreare uno spirito di solidarietà, di intessere nuovi legami sociali. A questi movimenti di vera e propria riforma civile, che devono molto alla riflessione delle donne, spetta il compito di reintegrare queste istanze di natura etica nella politica per rigenerarla. Cambiamenti epocali? Forse. Propria di un’agenda politica rinnovata dovrebbe essere una questione cruciale: siamo capaci di farci carico della condizione di cittadini della Terra?

Se, adottando un’ottica davvero globale di cura, riuscissimo a superare lo sguardo individualistico la nostra scala di valori subirebbe una radicale trasformazione. Diverremmo responsabili delle sorti dell’aria, dell’acqua, della biosfera, in una parola della Terra. Si è più volte rilevata la difficoltà per la politica tradizionale di pensare ai beni comuni alla luce delle categorie convenzionali: destra /sinistra, privato /pubblico. A chi interessano? A chi appartengono? Ma in tal modo si dimentica che i beni comuni – non appropriabili né dai privati né dallo Stato – sono di tutti perché non appartengono a nessuno e si presentano come la proiezione nel mondo dei diritti fondamentali che devono accompagnare ogni persona. Veri e propri diritti di una cittadinanza planetaria, ci mostrano infatti la connessione con i temi cruciali della bioetica: il rispetto delle generazioni future, la tutela dei viventi, lo sviluppo sostenibile. Siamo ancora in cerca di un’etica che non si limiti a regolare i conflitti tra gli umani ma che si faccia carico degli enti di natura; sarebbe questo il suo nuovo stadio: dall’etica sociale all’etica ecologica.

Eguale è, d’altra parte, l’incapacità della politica di cogliere l’intreccio indissolubile tra la protezione dell’ambiente e la salute individuale e collettiva, quindi di pensare il paesaggio non solo in termini estetici ma anche in termini etici: dal paesaggio da guardare, per così dire, al paesaggio da vivere. Da qui l’importanza delle azioni quotidiane, dei gesti e delle scelte individuali, a partire ad esempio dall’alimentazione che dovrebbe riuscire a tenere insieme, in una vera e propria diet-etica, salute umana, benessere animale e tutela dell’ambiente. Un ampliamento di questo genere della coscienza di cittadinanza non può non implicare una coscienza allargata del mondo in cui viviamo. Si tratta infatti di tutelare la qualità della vita non solo degli umani ma di tutti i viventi.

E già la terra non basta. Il “Global Foot point Report” ci avverte che se tutti vivessimo con lo stile di vita americano non basterebbero 5 Terre (con lo stile italiano ne occorrerebbero comunque 2,7…) Mi sembra particolarmente significativo che la nuova costituzione dell’Ecuador tuteli i diritti della natura considerata una sorta di persona, con una ripresa dell’idea di Terra Madre, la Pachamama delle religioni meso-americane. Ma non è questo anche il tema di fondo dell’ecofemminismo, il movimento che, richiamandosi all’antica visione materna della natura, intende liberare insieme la natura e la donna combattendo contro la cultura androcentrica del dominio e compiendo i primi passi verso una nuova etica globale? Lo sguardo rivolto al futuro ci richiama al passato, ad un rapporto critico colla tradizione ma soprattutto ci consente di attivare un rapporto creativo col presente, anticipando un nuovo orizzonte temporale della ragione pubblica. E’qui, ancora una volta, che il ruolo delle donne come forza di trasformazione culturale potrebbe rivelarsi cruciale…

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[1] C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr.it.,Feltrinelli, Milano, 1987

[2]S. Ruddick, Il pensiero materno, tr .it., Red, Como,1999

[3] C. Merchant, La voce della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, tr.it.,Garzanti, Milano,1988

[4] B. Fisher and J.C. Tronto, “Toward a Feminist Theory of Caring”,Circles of Care, E .K. Abel and M. Nelson, ed.,Suny Press, Albany, 1990,p.30

[5] Su quest’ultimo aspetto si è particolarmente concentrata Nel Noddings che ha parlato della care come di un approccio pedagogico alternativo, tale da configurarsi come una vera e propria ‘sfida’ in ambito educativo. N. Noddings, The Challenge to Care in Schools: an Alternative Approach to Education, New York, Teachers College Press, 2005

[6] J. C. Tronto, Confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura, tr.it. Diabasis, Reggio Emilia,2006

[7] S. Moller Okin, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, tr.it., Dedalo, Bari, 1999 Per Okin, i bambini trovano impedimenti notevoli a diventare persone guidate da principi di giustizia a meno che il primo esempio di interazione tra adulti--quello, appunto, tra padre e madre--non sia un esempio di reciprocità, piuttosto che di manipolazione e di dominio o di . Che cosa può imparare – si chiede - un bambino sul valore del lavoro di cura e domestico, in una casa con una divisione tradizionale dei lavoro, ove il padre usa, più o meno sottilmente, il fatto di essere quello che guadagna per 'far valere il proprio grado '?.. E, d'altra parte, che cosa può imparare dell'equità un bambino, dell'uno o dell'altro sesso, nella famiglia media, con due genitori lavoratori a tempo pieno, ove la madre compie, come minimo, il doppio dei lavoro domestico del padre?[7] L'intera organizzazione degli orari sociali presuppone l'esistenza di una famiglia in cui vi sia sempre una persona addetta a tempo pieno alle incombenze domestiche. E quella persona è, 'ovviamente', una donna.

[8] J. C. Tronto, Confini morali, op. cit., pp.121-123

[9] J. C. Tronto, Caring Democracy. Markets, Equality and Justice, New York University Press, New York and London,2013

[10] E’ stata in particolare la “Dichiarazione di Barcellona” - sottoscritta nel 1998 da ventidue studiosi europei, provenienti da diverse discipline e orizzonti filosofici, a conclusione di una ricerca di tre anni promossa dalla Commissione Europea - ad aver valorizzato la nozione di vulnerabilità, affiancandola a quelle di autonomia, integrità, dignità. Si tratta di quattro idee regolatrici, utili non solo per l’analisi delle questioni cruciali della bioetica e del biodiritto ma anche per orientare il dibattito contemporaneo sulla biomedicina e le biotecnologie in un contesto normativo, nel quadro di un’etica della solidarietà, della responsabilità e della giustizia intesa come equità. Per un approfondimento di tale tematica rinvio a L. Battaglia, Un’etica per il mondo vivente. Questioni di bioetica medica, ambientale e animale, Carocci, Roma, 2012

[11] J. C . Tronto, Confini morali, op.cit., p.117

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