Genova, P.zza Verdi 4/4 - 16121

Vertical Menu needs the GD module enabled in your PHP runtime environment. Please consult with your System Administrator and he will enable it!

Lorenzo De Caprio - Maria Antonietta La Torre

Il corpo della donna e la cittadinanza negata

Quando si dice che l’uomo domina la Natura, si pensa alla capacità conseguita dagli individui della specie homo sapiens sapiens, di controllare e sfruttare a proprio vantaggio un generico insieme di eventi e forze “naturali” poste al di fuori della munitissima città dell’uomo; dimentichiamo che questo stesso dominio s’esercita anche all’interno delle mura, su noi stessi, per come siamo e quello che siamo: corpo, biologia.
La Natura è nell’immaginario arcaico la Dea Madre o la Grande Madre Terra, che procrea, onnipotente e solitaria, uomini, animali, i viventi tutti, in una generazione incessante. Nell’antica Creta la patria è metrìs anziché patrìs, terra materna. Essa è Gaia, la Terra che accoglie e che fa germogliare (physis da phyein¸ scaturire), ma è anche divenire e dissoluzione, distruzione e Chaos, dinanzi ai quali l’uomo antico elaborava riti propiziatori, l’uomo moderno sviluppa la tecnica. In Cina vi erano ambienti appositi ove si radunavano le gestanti per proteggerle dalla violenza della vita comune; in questi luoghi esse vivevano a contatto con la natura, la musica e le varie espressioni artistiche. Le donne greche partorivano velate, nella parte più nascosta della casa, ma ben presto il mistero viene aggredito per portare alla “luce” e sottrarre alla Natura la generazione eliminando il “velo”, che è anche reverenza e rispetto. La physis si trasforma in oggetto da controllare e dominare. Al pari del corpo della donna. L’immagine della terra madre e nutrice, della madre primordiale Gaia, consegnataci da Esiodo, già nella tradizione epica si trasforma in terra-patria e territorio da difendere e luogo di esercizio del potere. Il potere dell’uomo sulle forze della natura, sugli altri gruppi, sull’”altra parte” dell’umanità, sul corpo sessuato della donna, sulla corporeità. Un potere che dimostra il bisogno di porre dei confini, tracciare i limiti del “campo” al fine di renderlo controllabile, “governabile”. E il corpo della donna, con i propri ritmi autonomi e scanditi dalla “natura”, in quanto sembra sottrarsi a questo controllo, diviene bersaglio, al pari della natura, dell’esigenza di dominio, che nasconde la paura…
Corpo che viene generato, nasce, che ha fame e sete, che vuole riprodursi e si riproduce; e che poi, come ammonisce Zarathustra, vuole tramontare... morire;[1] ed appunto muore. Ed è per quel dominio che, su questo corpo, s’è stratificato ed è andato crescendo un corpo immaginario non meno reale del primo e l’intero universo delle regole sociali, norme non meno vincolanti di quelle naturali.
"Se la comunità temeva il passaggio della morte non era solo perché la perdita di uno dei suoi membri l’indeboliva, era anche perché la morte, quella di un individuo o quella di tanti, come avveniva in un’epidemia, apriva una breccia nel sistema di protezione elevato contro la natura e il suo aspetto selvaggio. A partire dalle età più remote l’uomo non ha accettato né il sesso né la morte come dati bruti di natura. La necessità di organizzare il lavoro, di assicurare l’ordine e la moralità, condizione di una pacifica vita in comune, portò la società a mettersi al riparo dalle spinte violente della natura. Come l’uomo ha contrastato la letale violenza della natura esteriore, così ha combattuto il mondo interiore delle profondità umane, assimilato per la sua brutalità e irregolarità alla natura, il mondo dei deliri passionali.... Grazie a una strategia ponderata che respingeva e incanalava le forze sconosciute e formidabili della natura si mantenne uno stato d’equilibrio. La Morte ed il Sesso erano i punti deboli del muro di cinta, perché la cultura vi prolungava la natura senza discontinuità evidente. Quindi furono sottoposti ad accurato controllo".[2]
La simbolica del corpo vivente ed amante, procreatore e generatore, con la ritualizzazione, e normalizzazione, della sessualità rientra nella domesticazione globale della natura, come caso molto particolare, segnando, fin dai tempi più remoti, la serie degli interdetti e quella delle concessioni. Se, come volevano gli orfici, in principio era Eros dalle ali d’oro, il dio Protogonos non può essere domato; posto in principio, simboleggia l’origine che è all’origine di quel tutto che chiamiamo vita.[3]
Crescita demografica e ricambio generazionale rappresentano interessi vitali per la sopravvivenza della specie e quindi delle società. L’alta natalità rientra in una lucida strategia tesa alla conservazione e all’espansione delle specie; mira a sopravanzare l’alta mortalità da qualunque causa. Molti nascono perché molti moriranno; anche se pochi giungono in età riproduttiva, quei pochi saranno sufficienti a perpetuare con successo la specie. Sul piano sociale, la riproduzione dei corpi è necessaria, vitale per la sopravvivenza di qualunque insieme umano. Ogni “politica” favorevole alla crescita demografica risponde alla elementare esigenza di sopravvivenza del corpo sociale. Maggiore è il numero dei corpi disponibili, maggiore è la forza lavoro e la carne da cannone che la società ne può trarre. Ma l’altra esigenza opposta, non meno antica, e più o meno forte e pressante a seconda delle situazioni create dalla storia, è quella di dover limitare per tutta una serie di complessi motivi, la crescita potenzialmente illimitata delle popolazioni, di rallentare il ricambio generazionale. Si direbbe che le comunità umane, dalla dimensione familiare a quella pubblica, si siano sempre dibattute in questa tenaglia.

Il corpo sacro
Il maschio feconda, ma la femmina compie il miracolo: concepisce e genera; dà la vita. Dalla notte dei tempi, il corpo proli-fico della donna è socialmente apprezzato, universalmente sacralizzato. Si favoleggia di uno stato edenico caratterizzato da una sessualità umana “libera”, vale a dire: regolata dalle leggi di natura. Si ipotizza un’organizzazione ginecocratica e matriarcale che sarebbe decaduta con l’apparire di strutture economiche e culturali più complesse tese ad incanalare crescita e ricambio demografico. Comunque sia, considerando le potenti pressioni dell’ambiente sui remoti agglomerati umani, si comprende il senso della mistica della fertilità, e la sacralizzazione dell’organo maschile e dell’intero corpo della donna.
"La scoperta di figurazioni femminili nell’ultimo periodo glaciale ha posto problemi che continuano ad essere discussi... Si tratta di statuette, scolpite in pietra, osso o avorio. Sono state definite, abbastanza impropriamente “Veneri”.... E’ impossibile precisare la funzione religiosa di queste figure che rappresentino qualche accezione della sacralità femminile, e quindi dei poteri magico-religiosi delle dee. Il “mistero” costituito dalla modalità di esistenza specifica delle donne ebbe notevole parte in numerose religioni, sia primitive sia storiche".[4]
L’antica gioia della riproduzione e della generazione si tramanda nel lessico. La magica parola “felicità” origina dal latino felicitas, "che risale alla radice indoeuropea “fe”, da cui il greco “the”, e il cui senso primo è quello di fecondità e prosperità. Tali nomi sono in primo luogo felix, ma insieme, femina, quindi fetus, quindi fecundus, ove è più che mai evidente la connessione tra femminilità e generatività.... La femmina è feconda non solo in quanto genera, ma anche in quanto nutre... Il termine filius si collega alla famiglia lessicale del verbo felo e di fecundus, che implicano la nozione del “nutrire”".[5]
Dea Mater. Tellus Mater. Divinità possente e terribile, Gaia d’ampio petto[6] nutre l’uomo e lo accoglie da morto; dà e riprende la vita. Giobbe esclama: Nudo uscii dal ventre di mia madre e lì ritornerò.[7] Nera la terra fertile che, fecondata dall’uomo, produce il cibo che lo nutre. Nel Museo Campano di Capua, le matres matutae sostengono con orgoglio millenario i molti frutti di poderosi ventri. Passando per le solenni dee pagane, infinite variazioni di una unica fecondità e d’unica religiosità, arriviamo al culto della grande madre che sostiene il frutto del suo ventre: il figlio dell’uomo. Ma-donna, che nella tradizione contadina mediterranea spesso viene rappresentata come “bruna”, nera.
La generazione umana è dunque cosa divina; Sacro che crea categorie sociali e morali. Il celibato è stato sempre visto con sospetto, se non apertamente condannato. La donna sterile è come una cosa morta. Nella società della tecnica, la sterilità di coppia è considerata una malattia, il che può suscitare anche riprovazione. La sterilità non è mai stata vissuta come naturale, ma sempre e solo come condizione innaturale e dis-umana; è conseguenza di un malocchio, d’una fattura, d’un sortilegio; è segno dello sfavore degli dei, punizione inferta dall’unico Dio, malattia. Contro la sterilità, rituali beneauguranti, controfatture, pozioni, processioni, preghiere, riti d’espiazione e ... fecondazione assistitita. Anche le società umane che, enfatizzando il valore morale della castità, hanno sacralizzato una sterilità artificiale, indotta dalla cultura, hanno combattuto quella “naturale” perché situata al di fuori del controllo umano. Per gli stessi motivi, credenze, pregiudizi, e discriminazioni hanno criminalizzato le donne feconde, ciclicamente sterili.
Il sangue, simbolo transculturale di tutti i valori connessi al fuoco, al calore e alla vita, è universalmente considerato il veicolo della vita, se non la vita stessa. "La vita sta ... nel sangue" - dice YHVH- "e Io ve l’ho dato il sangue".[8] Posta l’equivalenza tra sangue e vita, breve è il passo da compiere per considerare il sangue come il principio della generazione. Nel pensiero decisamente maschilista di Aristotele, il seme maschile anima la materia, ed è chiaro che la femmina concorre alla generazione con la materia e questa costituisce il mestruo.[9] Ma c’è anche un sangue che è simbolo di morte, e che signi-fica la violazione della norma che punisce l’omicidio e l’aborto. E’ il biblico sangue versato, il sangue nero che esce dalle ferite degli eroi greci. Per millenni, il ciclo venne letto simbolicamente, come se fosse sangue versato, morte inferta, aborto. E la vita tolta a chi doveva essere e invece non è stato, né sarà, trasfigurava il corpo della donna in una sorta di tomba omicida, e su di lei gli interdetti:[10] "la donna, che al ricorso mensile ha il suo flusso di sangue, starà segregata per sette giorni".[11] Il corpo della donna precipitava nella categoria degli immondi da allontanare dalla comunità vetero-testamentaria e da reintegrare solo dopo i riti di purificazione, e con lei coloro che hanno avuto a che fare con la morte: i lebbrosi,[12] quelli che hanno contratto immondezza per via d’un morto.[13] Il corpo “criminale”
Nel periodo degli amori, tra animali “normali”, i maschi competono per il po-sesso della femmina; s’intimidiscono con ostentazione di potenza, combattono ma non si ammazzano. Tra i maschi umani le cose vanno in modo completamente diverso. Con la garanzia della riproduzione, le bestie “normali” s’uniscono solo in periodi e per tempi ben determinati. Come tra gli scimpanzé bonobo, la “lussuria” accompagna sempre gli umani ed è indipendente dal ciclo della fertilità femminile, e questa qualità è antica fonte d’infiniti guai. Gli scimpanzé giudicano indifferente il fatto che il rapporto esiti in figliolanza, non così gli umani.
Eros, declama Esiodo, il più bello degli dei immortali, spezza le membra e doma il cuore ed il saggio consiglio di tutti gli dei e di tutti gli uomini.[14] Eros, aggiungerà Platone, è dio dalla infida natura. Figlio di Afrodite Pandemos, è il dio del desiderio brutale che accoppia i corpi, ma figlio di Afrodite Ourania, è divinità che unisce le anime. Generato da Poros, l’Espediente, e Penìa, la Povertà, Eros, come il povero, è sempre insoddisfatto, perennemente affamato, è sempre alla caccia dell’oggetto del desiderio e non esita a ricorrere all’inganno ed alla violenza per raggiungere i suoi fini.[15] Eros semina aspri conflitti, porta nella città dell’uomo un ordine biologico che si converte in disordine sociale. Colpa d’una Natura improvvida che ha reso appetibile la riproduzione, miscelandola con il piacere, e il piacere scatena negli umani indomabili desideri e formidabili passioni.
Si ritiene che in un imprecisabile punto, collocato nel più remoto passato, la sessualità dovette essere più energicamente controllata dalla cultura. Ma l’addomesticamento della sessualità ha anche significato una prima forma di gerarchizzazione del gruppo facendo decadere la donna dal suo ruolo di socia paritaria (o forse dominante) a quella di “bene” da utilizzare[16] in funzione dell’ interesse della famiglia, della tribù, della società, dello stato. La riproduzione esce dalla polarità maschile-femminile e la donna, diventata pericolosa, viene domata. Il maschio s’assicura il possesso simbolico, dunque reale, del corpo della donna, e da qui domina l’unico oggetto che vuole controllare: l’apparato riproduttivo.
Genesi presenta due distinte versioni della creazione dell’uomo e della donna, queste sembrano testimoniare del passaggio dalla sessualità paritaria a quella che esalta il ruolo maschile aprendo la via alla lettura criminale del corpo della donna.
E creò Iddio l’uomo ad immagine sua; ... maschio e femmina li creò. E li benedisse Dio, dicendo: "crescete e moltiplicatevi, e popolate la terra ed assoggettatevela… Così fu fatto. E vide Dio tutte le opere sue, ed erano grandemente buone".[17] Immaginiamo un Dio sorridente, contento della sua grande opera, della sua doppia immagine e della loro riproduzione. Sessualità santa e sacra che rigenerava il primo creatore, moltiplicandosi per mezzo del maschio e della femmina dell’uomo, immagine di Dio, Dio stesso. Non sorprenderà dunque che YHVH vorrà controllare il corpo affinché la moltiplicazione all’infinito dell’immagine vada a buon fine. Appartiene a YHVH, dunque alla piccola comunità veterotestamentaria, il corpo del primogenito; e Dio testimonia la sua benevolenza all’uomo giusto e timoroso concedendogli lunghissima vita e una numerosissima prole. YHVH, infatti, benedice, favorisce, protegge la riproduzione di Israele, ieri come oggi minacciato dalla demografia di popoli vicini e nemici.
<E il corpo della donna? La Sacra Scrittura si segnala per un capolavoro della letteratura amorosa di tutti i tempi: quel Cantico dei Cantici che, addomesticato in letture spirituali ed interpretazioni allegoriche, resta un’offerta al corpo della donna e spettacoloso tributo alla passione: "M’hai ferito il cuore, sorella mia sposa, m’hai ferito il cuore... quanto sono belli i tuoi amori... più deliziosi del vino sono i tuoi amori...".[20]
In Genesi, nella seconda rappresentazione, Dio non creò ma formò l’uomo (il maschio) dal fango della terra, e ne trasse, dopo, la femmina da una delle coste. "E l’uomo lascerà il padre e la madre, e si stringerà a sua moglie, e saranno due in un corpo solo".[21] Nella prima narrazione la distanza tra uomo e Dio potrebbe essere definita “corta”: l’uomo, immagine di Dio, è il riflesso del creatore. Inoltre, il maschio e la femmina sono sullo stesso piano; la seconda, come il primo, è “uomo”: immagine di Dio. Nella seconda rappresentazione, la distanza tra Dio ed Adam è maggiore: l’uomo (il maschio) è definito persona vivente, non immagine di Dio. La femmina, formata da una parte del corpo del maschio, ha ora una precisa ed esclusiva funzione sociale: essere moglie sottoposta al maschio; ed in ciò sembra che si riproduca il rapporto di totale sudditanza di Adam a Dio.
Non che tra gli Elleni la condizione della donna fosse migliore. Prendiamo, a mo’ d’esempio, l’olimpica condizione matrimoniale. Le divinità maschili non fanno altro che tradire le consorti a vantaggio delle donne dei mortali. A confermare che l’Imitatio Dei è categoria centrale in Occidente, le Dee sono modelli di virtù e castità. Era rimane tenacemente fedele all’ illustrissimo signor marito; Atena ed Artemide figurano l’ideale della verginità più impenetrabile. Come a dire che fedeltà matrimoniale e castità pre-matrimoniale sono virtù divine, doti che rendono coniugate e fanciulle in fiore del tutto simili alle dee immortali. Ci si potrebbe aspettare qualche licenza da Afrodite, ma anche la dea Pandemos delude. Cercò una volta di tradire il marito Efesto con Ares, Dio macho senza rivali, ma nel momento culminante d’un finale travolgente, Afrodite si trovò con il mancato amante intrappolata in una rete d’oro, tra le risa di tutte le divinità chiamate da Efesto a godersi lo spettacolo.
Da questa parte del Mediterraneo, da Esiodo in poi, tira infatti un forte vento di misoginia. Continuiamo tutti a rallegrarci per il fatto che Prometeo rubò il fuoco a Zeus e lo donò ai mortali, ma scontiamo ancora la sua terribile vendetta. Il Re degli Dei ordinò ad Efesto di trasformare un fantoccio di fango in una bella fanciulla: Pandora, colei che dona tutto, colei che è ricca di doni.[22] Atena ed Afrodite le insegnarono tutto quello che una fanciulla in età da marito deve sapere, ed Ermes l’istruì nell’arte dell’inganno. Il genere umano viveva allora in uno stato edenico, senza dolore, malattie e morte; ma, giunta tra gli umani, Pandora sollevò il coperchio del grosso vaso ove tutti i mali erano custoditi, e questi si sparsero dappertutto. Fu allora che, per colpa della donna, piombando la morte in mezzo agli uomini, si compì la decisiva separazione tra umani mortali e divinità immortali.
Anche in Genesi la condizione edenica viene persa per colpa della donna: Eva cede alle lusinghe del serpente, ancestrale rappresentazione delle forze oscure. Il frutto proibito viene colto; come conseguenza, la morte piomba nel mondo, ma alla donna una pena in più: partorirà con dolore. Il mito di Pandora non ebbe conseguenze, non così la narrazione biblica... Nasce qui la rappresentazione maledetta da cui l’Occidente sarà incapace di liberarsi e che condizionerà e giustificherà la sottomissione della femmina. Nei testi evangelici invano si cercheranno toni sessuofobici, misoginismo e criminalizzazione del ruolo e del corpo femminile. Cristo non discrimina, è tenero con la Maddalena, accoglie le preghiere della vedova, difende l’adultera. Il matrimonio cristiano, monogamico e indissolubile, rappresentò, per quei tempi e in quella società, un indubbio miglioramento nella condizione della serva del maschio. Bisogna arrivare ad Agostino, profondamente intriso di puritanesimo e misticismo platonico, perché venga definitivamente sancita, sacralizzata ed istituzionalizzata la serie delle equivalenze di valore tra donna, sessualità, peccato, demonio e morte. Si stabilisce che il peccato mortale, dunque la morte stessa, si trasmette nel coito. Far sesso porta difilato all’eterna dannazione. Eros Pandemos può essere tollerato solo nell’ambito del matrimonio e solo a condizione ed in vista della procreazione. Dunque l’immortalità ha un prezzo: esige l’assoluta castità; e molti che avevano voluto cacciare da sé il demonio, si sono cacciati da sé stessi nella pelle del maiale.[23]
Il perverso fascino della sacra rappresentazione è tutt’altro che esaurito. Secondo William R.Clark, professore di Immunologia, c’erano una volta, ma tanto, proprio tanto tempo fa, "cellule primigenie... cellule singole che vivevano per conto proprio, capaci di nutrirsi, muoversi e generarsi per i fatti loro, cellule come le amebe, i batteri, i lieviti, ma molto resistenti. Ma poi le cellule si misero insieme e persero la robustezza, e la morte obbligatoria comparve più o meno allorché le cellule cominciarono a fare i primi esperimenti sessuali".[24] Interdetti e Concessioni
Rinchiudere il corpo della donna entro i limiti della camera matrimoniale e, qui giunti, controllare la fecondità, razionando il piacere e smobilitando la passione dovette sembrare la soluzione di parecchi problemi. Ma, fin dall’inizio, la cosa non funzionò bene come era nelle attese, e ad un certo punto YHVH dovette personalmente intervenire: non desiderare la donna d’altri.
Un poeta cinese è dell’avviso che più norme e leggi gli uomini si danno, più a-normali e delinquenti essi avranno. Il cinese sembra pieno di buon senso. Infatti il matrimonio moltiplicò categorie e sotto-categorie morali. I maschi, da che erano solo: o potenti, od impotenti, divennero anche: o coniugati, o celibi, o vedovi. I mariti si divisero in fedeli od infedeli, buoni e cattivi; mentre i celibi si videro consegnati o alla santità perpetua o all’eterna dannazione. Quelli che per vocazione rimisero il sesso al Signore, godettero di prestigio sulla terra e si videro facilitate anche le dure vie del Paradiso; al contrario gli scapoli impenitenti non trovarono pace sulla terra. Avendo privato la società del personale contributo, si trasmutarono in peccatori, libertini, a-normali. All’antica divisione in feconde e sterili, le donne sommarono quella tra sposate e non sposate. Le prime vennero ulteriormente classificate in fedeli e infedeli. Le non sposate godettero d’una ripartizione piuttosto complessa. Si divisero in: a) spose di Cristo; b) vergini per bene con la speranza di un marito; c) vergini per bene ma senza alcuna speranza; d) zitelle acide; e) amanti semplici, lussuriose, venali, venali e lussuriose; f) etere, cortigiane, donne di malaffare, prostitute, squillo d’alto bordo, puttane e zoccole. La serie degli interdetti portò alla serie delle concessioni; ed i templi pagani destinati alla prostituzione sacra cedettero il passo ad: alcove, case d’appuntamento, bordelli, trivi, quadrivi e marciapiedi. Il disastro fu reso definitivo ed irreversibile dalle automobili.
Nella difesa implicita delle istituzioni, per una sessualità finalmente “sana” e “responsabile”, i medici scesero in campo fin dai tempi d’Ippocrate. Sollevarono lo spettro della Malattia d’Amore,[25] del Furore Uterino,[26] della Melanconia Erotica,[27] delle Passioni.[28] Ma fu nella moderna età positiva che l’aggressione al corpo della donna toccò il suo vertice scientifico: isteria, clorosi, masturbazione, igiene, follia, tare ereditarie, mostri, sifilide.[29]
Continuò una criminalizzazione che ha radici antiche, anche nella filosofia classica e nella medicina ellenistica. La lotta alla passione è un motivo dominante nel pensiero politico e morale di Platone; più accomodante Aristotele predica il buon senso. Nell’età della decadenza, la filosofia esalta atarassia ed apatheia: autocontrollo ed indifferenza ai piaceri del mondo. Galeno pone una analogia tra l’epilessia e l’orgasmo: entrambi sono provocati da una congestione cerebrale. Far l’amore, concede il medico, è piacevole; certo, non fa ancora bene, ma almeno non fa “troppo” male . In questi regimi medici, vediamo profilarsi una certa “patologizzazione” dell’atto sessuale. Ma intendiamoci bene: non si tratta affatto della stessa tendenza che si è prodotta molto più tardi nelle società occidentali, quando il comportamento sessuale è stato riconosciuto portatore di devianze morbose. "Esaminando la “morale” che emerge dalla filosofia e dalla medicina antica, si può avere l’impressione che l’etica sessuale attribuita al cristianesimo, o addirittura all’Occidente moderno, fosse in qualche modo già sanzionata, quanto meno in alcuni dei suoi aspetti essenziali, al momento dell’apogeo della cultura greco romana. Ma vorrebbe dire disconoscere differenze fondamentali che attengono al tipo di rapporto con il Sé e dunque alla forma d’integrazione di quei precetti nell’esperienza che il soggetto fa di se stesso".[30]
Alle interdizioni filosofiche, teologiche e mediche fanno da contraltare le concessioni e gli omaggi che gli artisti tributano pericolosamente al Dio dalle ali d’oro. l’Amore in Occidente è verace solo se è piacere, ed il piacere è tale solo se vitalizzato da Pathos. Muovendo da Tristano ed Isotta, gli artisti celebrano con impudenza la passione erotica; cantano il piacere che si cela nella passione erotica in se stessa; esaltano, in prosa ed in rima, la soddisfazione che il maschio e la femmina traggono dall’amore extramatrimoniale, e più ancora da quello adulterino.[31] Il che ovviamente suscita gravissimi problemi e violentissimi conflitti. I figli di Nessuno e adulterini moltiplicano l’incubo per la catastrofe. Violento, feroce ed immutabile l’odio per i nati al di fuori delle regole.
Da un testo d’educazione sanitaria della prima metà del XX sec.: "Sono esseri quasi atrofizzati e bruciati dall’intemperanza... quasi inerti, malamente emessi e malamente raccolti... Se pure si svilupperanno e completeranno il frutto di quell’amore incosciente, di quel coito faticoso, quale potrà essere la soddisfazione dei genitori quando vedranno crescere... una specie di mostriciattolo che è chiamato umano solamente perché è nato da umani?... Povera creatura sciaguratissima, storta, ebete, dinoccolata, con gli occhi vitrei ed una smorfia pietosa ... Oh, i genitori allora! La vergogna, il rimorso terribile."[32]

L’identità nel bios
L’uomo realizza la propria umanità prendendo le distanze dalla natura e negando la propria corporeità, superandola. Il femminile/naturale viene identificato con quella finitezza che va trascesa per poter raggiungere l’universale. L’identità delle donne non si definisce a partire dalle sue qualità come individuo, bensì dalle sue attitudini biologicamente connotate e determinate. La donna in quanto madre e nutrice resta vincolata al bios. Il suo corpo diviene uno strumento al servizio della continuazione della specie. Nell’Emilio (1762) si legge che "non vi è alcuna parità fra i sessi quanto alle conseguenze del sesso. Il maschio non è maschio che in certi momenti, la femmina è femmina per tutta la vita",[33] poiché tutto ciò che la costituisce rinvia alla sua appartenenza di genere. “Per il Rousseau della Nouvelle Héloise la libertà della donna è slancio sentimentale verso i doveri prescritti dalla natura.”[34] Questa caratterizzazione è vincolante e condiziona qualsiasi ruolo la donna possa assumere. Ed è un ruolo che non si sceglie, ma si è. Ella è relegata alla dimensione privata, l’unica che sembra sapere e potere gestire. Una identità costituita e costruita esclusivamente sul “genere” trasferisce senza alcuna giustificazione apparente le caratteristiche naturali sul piano delle relazioni e del ruolo socio-politico: dal biologico all’istituzionale, una qualità innata legittima una differenza nei diritti.[35]
Queste distinzioni sono generate e consolidate in primo luogo all’interno della famiglia. In periodo fascista “il lavoro del medico viene utilizzato per il controllo dello stato di salute dei cittadini, ma nello stesso tempo come strumento di propaganda del regime, come dimostra la campagna tesa ad assegnare alla donna un ruolo esclusivamente familiare, imputando, ad esempio, all’uso di cosmetici o al lavoro fuori casa le responsabilità prime della sterilità.”[36] L’antitesi tra i sessi è una contrapposizione di funzioni che si trasforma nella “destinazione” alla “cura” dei familiari ed esclude la partecipazione alla vita pubblica, riservata all’uomo. In Italia soltanto nel 1962 viene abolita la norma che consente il licenziamento della donna in caso di matrimonio e che legittimava quella separazione netta dei ruoli: la donna relegata alla cura domestica, “alternativa” alla vita pubblica. La prigione della “cura”
In effetti, la cosiddetta “natura femminile” è un costrutto sociale utilizzato per legittimare l’esclusione dalla politica e relegare nel privato metà dell’umanità. L’individuazione di una connotazione “femminile” della socialità presuppone per giunta un modello trans-culturale di donna che non trova riscontro nella realtà della varietà etniche e culturali. Eppure, anche in tempi recenti,[37] il concetto di cura è stato interpretato come una caratteristica specificamente “femminile”, allo scopo di provare che le donne seguono percorsi di sviluppo morale caratteristici e diversi da quelli maschili, poiché sono orientate a valorizzare l’importanza della relazione con l’altro e dell’ascolto dei suoi bisogni; si fa appello ad una sorta di disponibilità o capacità empatica che deriverebbe alle donne dall’esperienza della maternità e consentirebbero loro di prestare ascolto anche a “voci diverse”, un’attitudine, evidentemente, preclusa agli uomini, i quali, viceversa, concepirebbero le relazioni intersoggettive piuttosto in termini di contrapposizione e affermazione di sé, improntandole alla rivendicazione di diritti e ai doveri, che di ascolto. La contrapposizione di un’etica “delle regole” e dei diritti, che sarebbe ispirata a principi di giustizia, privilegerebbe criteri di valutazione astratti, piuttosto che modellati sui bisogni specifici, e anteporrebbe l’interesse generale a quello del singolo individuo, a un’etica femminile della “cura”, la quale, al contrario, favorirebbe una modalità più marcatamente relazionale del “prendersi cura”, una sorta di “indulgenza” materna rispetto alle regole, ripropone quegli stereotipi secondo i quali il femminile si assocerebbe a forme non razionali di relazionalità, offrendo il destro alla misoginia di molta tradizione occidentale.
Le teorie che ascrivono alla condotta femminile i valori della cura, della disponibilità verso i bisogni degli altri, della capacità di empatia e di assunzione del punto di vista dell’altro finiscono con il danneggiare le donne, mancando proprio l’obiettivo di rivendicare il loro ruolo specifico contro il primato maschile.[38] L’associazione tra il caring e il “femminile” perpetua la marginalità morale delle donne e l’intollerabile identificazione della loro natura con la maternità e i sentimenti a questa connessi, rafforzando l’idea della sua presunta incapacità di astrazione e generalizzazione.[39] Essa trasforma in un dato teorico e un carattere sociale ciò che è soltanto una risultanza empirica, la pratica della “cura” parentale, un dato storico e culturale.[40]

La cittadinanza negata
Irrigidita in questa immagine stereotipata, la donna sembra estranea alla “storia”, relegata a vivere in un tempo parallelo nel quale tutto è immutabile, le sue funzioni e i suoi doveri in primo luogo. La donna non deve “costruire” se stessa realizzandosi nel mondo, ma è sempre, per così dire, “già data”, prevedibili essendo i suoi compiti e le sue possibilità. Corollario di ciò è che le donne sono nei fatti delle non-cittadine: confinata nella sfera del “privato”, per la donna non vi è accesso alla vita pubblica, quindi alla decisione, all’autodeterminazione: non può far sentire la propria voce.
I governi democratici della nostra epoca sono figli della più grande invenzione dell’Europa moderna, vale a dire, la cittadinanza universale. Ma non appena definiti e proclamati a gran voce, i diritti di cittadinanza sono stati negati alle donne con una sistematicità stupefacente per la sua, questa si, trans-culturalità. Esse infatti non partecipano, di fatto, alla vita pubblica per molto tempo, proprio a causa della propria “natura”, intrinsecamente legata alla funzione riproduttiva e perciò relegata all’accudimento, alla cura dell’OIKOS, della casa, luogo per eccellenza di esercizio di tale compito.
Eppure è proprio la “natura” che solleva una patente contraddizione: nel Preambolo alla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, il primo testo che propone una rivendicazione dei diritti per la donna, Olympe de Gouges invitava, rivolta all’uomo: “percorri la natura in tutta la sua grandezza cui tu sembri volerti avvicinare, dammi, se puoi, un esempio di questo impero tirannico. Risali agli animali, consulta gli elementi, studia i vegetali, dà infine un'occhiata a tutte le modificazioni della materia organizzata e arrenditi all’evidenza quando te ne offro i mezzi; cerca, scava e distingui se puoi, i sessi nell’amministrazione della natura. Ovunque tu li troverai confusi e cooperanti nell’insieme armonioso di questo capolavoro immortale.” Questa “pasionaria” ante litteram attacca pubblicamente i Diritti dell'Uomo perché vede lucidamente che le donne sono escluse per principio e di fatto dall’esercizio dei diritti individuali.
La Déclaration de droits de la femme et la citoyenne (1791) rappresenta un documento straordinario anche per la consapevolezza della interconnessione proprio tra quelle due sfere che sembravano fondare la separatezza: natura e ragione. Fino a non molto tempo fa soltanto i cittadini che godevano di certi privilegi avevano accesso al voto; questi erano considerati come dotati della “capacità di giudizio”. Natura selvaggia, femmina indomita e istintiva, maschio capace di esercizio del logos.
La storia della discriminazione sessuale passa, si diceva, attraverso la famiglia: la donna che esprimesse il proprio voto politico violerebbe le regole del “genere”, ossia della femminilità e della famiglia. “La storia della lotta delle donne per l’affrancamento insegna che un’eguale cittadinanza per le donne include la libertà dalla subordinazione nella o attraverso la famiglia.”[41] Ancora nel 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite elabora la “Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna”, prendendo atto delle gravi disuguaglianze pur sempre presenti, a causa di quel dominio fondato sulla differenza biologica, sul corpo, una differenza analoga forse a quella del colore della pelle?
“Una delle contraddizioni tipiche della modernità: quella tra gli uomini ai quali sono riconosciuti diritti per la loro qualità di esseri viventi e gli uomini come individui di sesso maschile e capifamiglia”, trova qui la propria legittimazione, poiché nella tradizione “la famiglia è la vera base e la parte fondamentale dello Stato, mentre l’individuo, in quanto componente dalla famiglia, esiste solo all’interno di essa ed è come invisibile per lo Stato, a meno che non sia padre e capofamiglia, l’unico che può essere considerato cittadino.”[42]
Il “contratto” che è alla base della società non prevede una “negoziazione” circa il ruolo della donna: il rappresentante è per lungo tempo indiscutibilmente il capo-famiglia (uomo). La sperimentazione biomedica predilige “cavie” di sesso maschile perché meno soggette ad “interferenze” periodiche, poco curandosi dell’efficacia dei risultati quando applicati all’altra metà del genere umano: tradizionalmente le donne in età fertile non sono prese in considerazione come cavie per la sperimentazione di farmaci per evitare possibili danni all’apparato riproduttivo e ad un eventuale feto; ma ciò ha comportato talvolta conseguenze terribili (si veda per tutti l’esempio del talidomide): ulteriore esempio di discriminazione sulla base dell’appartenenza biologica. La voce del silenzio
E se la cittadinanza nelle società occidentali avanzate è ormai soltanto (o ancora) “indebolita”, per le persistenti disparità nel mondo del lavoro e la scarsa visibilità politica, nelle società “altre” essa è pur sempre negata, così come è negata alla donna la reale disponibilità del suo proprio corpo e la facoltà di decidere su di esso. “L’espressione missing women riassume drammaticamente la gravità dello squilibrio innaturale tra i sessi, depurato dai fattori di rischio genetici e ambientali. Quante sono le donne disperse mancanti all’appello? Lo squilibrio tra i generi a vantaggio dei maschi, documentato in Asia dai censimenti, è stato valutato con due diverse metodologie: l’una ha portato a concludere che vi sono 44 milioni di donne mancanti in Cina, 37 in India e, in totale, 100 nel mondo; l’altra, 29 milioni in Cina, 23 in India e 60 nel mondo. Questi dati, mostrano che le discriminazioni culturali e sociali riescono a capovolgere la superiorità biologica delle donne (dai primi giorni di vita in poi, infatti, la sopravvivenza biologica femminile è superiore, in condizioni normali, a quella maschile). Tra le cause che sono state individuate appaiono primari i valori tradizionali e gli interessi economici che inducono alla trascuratezza verso le bambine nell’assistenza sanitaria, alla loro minore ammissione negli ospedali, alla diversa nutrizione e alla più elevata mortalità infantile, spontanea o indotta.”[43]
Nel terzo rapporto delle Nazioni Unite sulla condizione femminile nel mondo (The Wolrd Women’s 2000) si legge che in 22 paesi compresi nelle aree in via di sviluppo un quarto delle ragazze tra i 15 e i 19 anni ha già contratto matrimonio e che in alcuni paesi africani più della metà delle donne ha subito mutilazioni genitali. I movimenti “multiculturalisti”, come ha rilevato Okin in un suo famoso quanto dibattuto articolo, che trovano nei movimenti femministi accesi sostenitori, trascurano che la subalternità della donna è un carattere strutturale in quelle stesse culture che si intende difendere. In tal senso il multiculturalismo procede, paradossalmente, in direzione opposta al “women’s empowerment”, ossia alla trasformazione delle relazioni ineguali di potere grazie alla quale le donne possono raggiungere una maggiore eguaglianza con gli uomini. Esso ha implicazioni sia sociali che individuali, ma elemento essenziale ne è il riconoscimento del pieno diritto alla salute riproduttiva e sessuale.
Ancora nel corso dell’Ottocento in Europa, lo status della donna singola gravida la espone ad ogni tipo di controllo e interferenza. Si legittimano “poteri di visita coattiva per il solo fatto di essere gravida e nubile. E poi, la femmina incinta, se non è mantenuta dall’autore della gravidanza o dai suoi genitori, è destinata al ricovero a carico della comunità nello stesso luogo di tutti gli altri poveri: il solo fatto di esser una fanciulla deflorata e gravida dà alle pubbliche autorità poteri di inquisizione e ricovero […] riconosciuti di diritto o di fatto, in tutti i contesti, anche in epoche successive. E’ nondimeno paradossale che donne irrilevanti, nei rapporti familiari e nella rappresentanza sociale ed economica della famiglia, acquistino, per effetto del loro stesso errore, un rilievo, uno status particolare, anche se degradato.”[44]
Il dominio sul corpo della donna comincia assai presto e continua nella pubertà, nell’adolescenza, nell’età adulta che paga le conseguenze di quelle; la si priva del diritto a decidere in merito alla riproduzione (significativa è la resistenza alla legalizzazione della contraccezione, che rende la donna capace di “decidere”); nel contempo e paradossalmente la si ritiene l’unica responsabile delle conseguenze dell’attività sessuale…. Questioni esclusive di società con culture, usanze, costumi “diversi” (vale a dire: “inferiori”) e che quindi non riguardano più la civilissima Europa?
In molti paesi asiatici le donne sono merce di scambio tra le famiglie, vengono costrette a matrimoni combinati e restano succubi dei mariti per tutta la vita, spesso escluse dai più elementari diritti come il quello all’istruzione o alla salute. Nella Dichiarazione del diritti della donna e della cittadina si leggeva anche, all’art. XVI, che “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione; la costituzione è nulla se la maggioranza degli individui che compongono la Nazione non ha cooperato alla sua redazione.” E’ una sorta di delegittimazione anche politica, oltre che morale, delle società sessiste che mantiene una desolante attualità, a più di 2 secoli di distanza, non solo nelle poche residue società tribali, ma in molti Stati i cui governanti siedono ai tavoli dei negoziati internazionali.

Del domare
“La Madre Terra dei Lakota non è un suolo da riconquistare. Essa appartiene al cosmo, è il cosmo stesso. Fra le cose insopportabili che gli Europei trovarono negli ‘Indiani’ vi fu certamente la libertà del rapporto che molte fra le loro ‘nazioni’ intrattenevano col territorio, un rapporto slegato da esigenze di appropriazione e di occupazione stabile. Per loro la sacralità di certi luoghi consisteva semplicemente nel fatto che essi esprimevano più di altri l’appartenenza della terra a se stessa.”[45] Se l’immagine della natura madre benefica ha lasciato il posto all’altra immagine: quella della natura come femmina selvaggia che va domata poiché produce turbamento e disordine, la rivoluzione secentesca è vittoria sul caos ma anche morte della natura,[46] meccanicisticamente interpretata e così perduta nella sua complessità e nel suo organicismo. La scienza non può accettare l’indeterminato. Non basta che il futuro sia possibile: esso deve essere programmabile. La nuova teleologia della salvezza promette la rimozione del male attraverso l’eliminazione di ogni ostacolo, la cancellazione del dolore, l’espulsione del tragico; la logica del dominio sostiene l’illusione dell’invulnerabilità e sopprime la differenza. La natura viene domata e ricreata artificialmente. La Heim (casa) perde la connotazione materna. Infine, portando a compimento tale processo, la generazione, con l’alibi ancora una volta della “cura”, stavolta intesa come terapia, viene sottratta alla donna e artificializzata. Domato è il caos. “Datemi l’arco”, chiese Ulisse. L’arco che doma e produce morte e rende sterile la terra ... la donna.

Comunità, Identità, Stabilità
Il Selvaggio stava a guardare. “O mirabile mondo nuovo, o mirabile mondo nuovo...”
Le lancette di tutti i quattromila orologi in tutte le quattromila stanze del Centro di Bloomsbury segnavano le due e ventisette minuti. “Questo alveare industrioso”, come il Direttore si compiaceva di chiamarlo, era in pieno fervore di lavoro. Sotto i microscopi, con le code che battevano furiosamente, gli spermatozoi penetravano con la testa avanti nelle uova; e, fecondate, le uova si dilatavano, si dividevano, o, se erano bokanovskizzate, germogliavano ... in intere generazioni di embrioni distinti.
Dalla Sala di Predestinazione Sociale, gli ascensori discendevano rombando nel sottosuolo, dove ... al caldo ... rimpinzati di psudo-sangue e d’ormoni, i feti crescevano, crescevano. Oppure, avvelenati, intisichivano, mal cresciuti allo stato d’Epsilon .…
Nella Sala di Travasamento, i bambini ... emettevano il loro primo vagito d’orrore e di spavento ... Le dinamo ronfavano ... gli ascensori salivano ... Da milleottocento poppatoi milleottocento creaturine, etichettate con cura, succhiavano simultaneamente il loro litro di secrezione esterna pastorizzata. Sopra di loro, in dieci piani successivi di dormitori, i bambini e le bambine ... erano occupati ... ad ascoltare incoscientemente delle lezioni ipnopediche sull’igiene e la socialità, il sentimento di classe e la vita amorosa del marmocchio che cammina appena. Ancora al di sopra i locali di ricreazione dove ... novecento ragazzi si divertivano a fare dei giochi erotici .…"[47]
In ossequio ai valori planetari: Comunità, Identità, Stabilità, in un imprecisato anno della Era dopo Ford; la tecnica è riuscita finalmente a separare definitivamente la riproduzione dal piacere ed il piacere dalla passione. Togliendo dalle mani degli umani il controllo della sessualità, essa ha finalizzato la fecondazione alla sola necessaria riproduzione; con ciò giungendo a risultati di gran lunga migliori di quelli ottenuti dalle pratiche che pure si diffusero in Occidente a partire dalla seconda metà del XX secolo d.C. Il controllo completo della sessualità ha finalmente ordinato demografia e ricambio generazionale, ha liberato l’umanità dalle guerre, dalla filosofia morale, dal peccato e dalla virtù, ha affrancato gli umani dalle corna, dalle scenate di gelosia, dai complessi di colpa, dai figli naturali e dai casi di coscienza.
Ma la castità vuol dire passione, e vuol dire nevrastenia. "E passione e nevrastenia vogliono dire instabilità. E instabilità vuol dire fine della civiltà. Considerando che non si può avere una civiltà durevole senza una buona quantità di amabili vizi",[48] il Governo Mondiale ha razionalmente liberalizzato i rapporti tra i sessi, passando così ai posteri per una decisione che non ha alcun precedente storico. Eros Pandemos è stato spogliato d’ogni incanto, è stato reso alla sua pura essenza originaria di bruto e neutro fatto di natura. La passione è stata finalmente sconfitta. Non c’è più.
Escrescenze, protuberanze e rientranze decorano ancora il corpo del maschio e della femmina e li rendono tra loro differenti e reciprocamente riconoscibili e desiderabili. Nella prospettiva della più assoluta Identità globale, il Governo Mondiale è impegnato nel progetto del rivoluzionario corpo standard unificato (CSU) onde eliminare le memorie delle più antiche superstizioni.

[1] F. Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, Longanesi, Milano, 1956, p. 269.
[2] P. Ariès, L’uomo e la Morte, dal Medioevo ad Oggi, Mondadori, Milano 1980, p. 717.
[3] C. Kerényi, Gli Dei e gli Eroi della Grecia, vol.I, Il Saggiatore, Milano 1963, pp. 27-28.
[4] M. Eliade, Storia delle Credenze e delle Idee Religiose, vol. I, Sansoni, Firenze, 1990, pp. 32-33.
[5] S. Natoli, La Felicità. Saggio di Teoria degli Affetti, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 55.
[6] Esiodo, Teogonia, in Antologia della Letteratura Greca, a cura di L.Canfora, Laterza, Bari, 1989, p. 319.
[7] Giobbe, 1:21.
[8] Levitico, 17:11.
[9] Aristotele, De Generatione Animalium 1.727b, in L.R.Angeletti, Storia della Medicina e Bioetica, Rizzoli, Milano, 1992, p. 55.
[10] J.C. Frazer, Il Ramo d’Oro, Bollati-Boringhieri, Torino, 1991, pp. 252-254.
[11] Levitico, 15:19.
[12] Levitico, 13: 1-46.
[13] Levitico, 22:4.
[14] Esiodo, op.cit..
[15] Platone, Il Simposio, in Tutte le Opere, vol II, Newton, Roma, 1997, pp. 338-421.
[16] F. Prattico, La Tribù di Caino, Cortina, Milano, 1995, pp.178-180.
[17] Genesi, 1:27-28.
[18] Deuteronomio, 10:12-16.
[19] J. Miles, Dio,Una Biografia, Garzanti, Milano, 1996, pp. 173-174.
[20] Cantico dei Cantici, 4: 9,10.
[21] Genesi, 2:24.
[22] C. Kerényi, op.cit., pp. 181-183.
[23] F. Nietzsche, op.cit., p. 299.
[24] W.R. Clark, Sesso e Origini della Morte, McGrew-Hill, Milano, 1998, pp. 119-124.
[25] M. Ciavolella, La “Malattia d’Amore”, dall’Antichità al Medioevo, Bulzoni, Roma, 1986.
[26] J.D.T. de Bienville, La Ninfomania, ovvero il Furore Uterino, Marsilio, Venezia, 1986.
[27] J. Ferrand, Malinconia Erotica, Marsilio, Venezia, 1991.
[28] J.E.D. Esquirol, Delle Passioni, Marsilio, Venezia, 1982.
[29] A. Corbin, Sintomi della Sofferenza Individuale, in P. Ariés e G. Duby, La Vita Privata: l’Ottocento, Mondadori, Milano, 1988, pp. 448-473.
[30] M. Foucault, La Cura di Sé. Storia della Sessualità 3, Feltrinelli, Milano, 1999, pp. 233-237.
[31] D. de Rougemont, L’Amore e l’Occidente. Eros, Morte, Abbandono nella Letteratura Europea, Rizzoli, Milano,1996.
[32] G. Bert e S. Quadrino, Guadagnarsi la Salute, Ed.Riuniti, Roma, 1986, pp. 39.
[33] J.J. Rousseau, Opere, Sansoni, Firenze, 1972, p. 614.
[34] A. Santosuosso, Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza, Cortina, Milano, 2001, p. 43.
[35] S. M. Okin, Le donne e la giustizia. La famiglia come problema politico, Dedalo, Bari, 1999.
[36] R. Macrì, Etnie e culture; dai drammi del passato al problemi del presente, “Medico e società” 8 (2002) p. 41.
[37] C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987.
[38] S. Benhabib, From Identity Politics To Social Feminism: A Plea For The Nineties, “Philosophy of Education” 1994. Cfr. anche ID., Feminism and Postmodernism: An Uneasy Alliance, “Praxis International”, 2 (1991); ID., Democracy and Difference. Contesting the Boundaries of the Political, Princeton University Press, Princeton 1996.
[39] J.C. Tronto, Moral Boundaries, Routledge, London- New York, 1995.
[40] J.C. Tronto, op.cit..
[41] R.B. Siegel, She the People: The Nineteenth Amendment, Sex Equality, Federalism, and the Family, “Harvard Law Review”, 115:4 (February 2002), pp. 947-1046.
[42] A. Santosuosso, op. cit., pp. 40,41.
[43] Comitato Nazionale di Bioetica, Orientamenti bioetici per l’equità nella salute, 25/05/2001.
[44] A. Santosuosso, op.cit., pp.128-9.
[45] O. Marzocca, Contrade cosmiche. La terra al di là del suolo, in La madre, il gioco, la terra¸ Laterza, Bari 1992 p.215.
[46] C. Merchant, La morte della natura, Garzanti, Milano 1988.
[47] A. Huxley, Il Mondo Nuovo, Mondadori, Milano, 1999, pp. 130-131.
[48] Ivi, p. 211.

Don't have an account yet? Register Now!

Sign in to your account