Quando moriamo? *
Paolo Becchi
Continuiamo a morire da sempre e nondimeno la morte non cessa mai di stupirci. È sufficiente che ci tocchi da vicino con la morte di un famigliare, per lasciarci sgomenti, tanto più oggi quando avviene all'improvviso, ad esempio in seguito ad un incidente stradale e il moribondo, che ha subìto una lesione encefalica ed è stato sottoposto a rianimazione, si trova in un reparto di terapia intensiva.
Qui un collegio formato da tre medici (un medico legale, un neurofisiopatologo e un rianimatore) l'osserva per un paio di ore (al momento in Italia la legge prescrive, di regola, un periodo di osservazione di sei ore),[1] esaminando per tre volte alcune condizioni (lo stato di incoscienza, l'assenza di alcuni riflessi e di respirazione spontanea, il silenzio elettrico cerebrale, documentato dall'elettroencefalogramma)[2] e se quelle condizioni non si modificano certificano la morte del paziente. Di per sé sembrano criteri clinici del tutto attendibili e "neutrali", connessi allo sviluppo delle tecniche rianimatorie, le quali se per un verso consentono di salvare vite umane per l'altro generano una condizione clinica mai osservata prima: quella di una situazione "di non ritorno" protratta nel tempo in attesa dell'arresto cardiorespiratorio. Se non che quei criteri non sono impiegati al fine di staccare il respiratore e consentire al paziente di morire dignitosamente, bensì sono finalizzati al prelievo dei suoi organi, mentre il respiratore è ancora acceso. Nello stesso arco di tempo in cui i medici accertano la morte del paziente, i suoi famigliari possono infatti decidere (nel caso in cui non vi sia un'esplicita manifestazione di volontà dell'interessato) se presentare opposizione scritta al prelievo degli organi. Se non lo fanno, medici diversi da quelli che hanno accertato la morte potranno procedere all'espianto degli organi.
Questo è perlomeno quello che succede oggi in Italia, nel rispetto di quanto prescritto dalla legge vigente, per essere precisi in ottemperanza ad un regime che doveva essere transitorio, ma che di fatto è andato a sostituirsi a quello definitivo.[3] Altri paesi hanno regole diverse, ma tutti - con la parziale eccezione del Giappone[4] - sia pure con accentuazioni diverse partono oggi dal presupposto che il corpo da cui vengono prelevati gli organi sia un cadavere. Questo presupposto viene presentato come un dato scientifico acquisito ormai in modo definitivo, anche se già il comune buon senso difficilmente ci porta a considerare cadavere un essere umano con temperatura corporea intorno ai 37° C., di colorito roseo, le cui braccia e gambe seppur immobili non sono rigide, il cui torace continua ad alzarsi grazie al respiro ausiliato da una macchina ed il cui cuore batte con regolare frequenza, facendo circolare il sangue nelle arterie pulsanti. Morto o ancora, in qualche modo, vivo?
Un cadavere è freddo, rigido, coperto di macchie livide su alcune parti corpo: segni tradizionali della morte che da sempre ogni medico sa riconoscere, ma nessuno di essi si ritrova nel paziente di cui si accerta la morte applicando i criteri sopra descritti.
Si replicherà: quei segni compaiono quando la morte è già avvenuta da un paio d'ore e dunque di lì a breve seguiranno all'accertamento della morte effettuato con i criteri indicati. Il fatto però è che quel processo naturale oggi può essere tecnicamente bloccato in un momento in cui la vita stessa se ne sta andando, ma la morte non è ancora definitivamente sopraggiunta. Già in quel momento però - questo oggi afferma la legge supportata dalla scienza ufficiale - il paziente sarebbe morto e questo consentirebbe il prelievo dei suoi organi a scopo di trapianto.
Di tanto in tanto la notizia di una gravidanza portata avanti da una donna in stato di morte cerebrale crea sconcerto: non è in effetti paradossale sostenere che il cadavere di una donna possa portare a termine una gravidanza e mettere al mondo un bambino vivo, oppure abortire spontaneamente un feto morto? Eppure è proprio questo che medici e legislatori non possono non affermare, perché se dovessero riconoscere che quella donna non è ancora un cadavere allora sarebbero costretti ad ammettere che anche i pazienti da cui vengono prelevati gli organi non sono ancora cadaveri. L'onda emotiva prodotta da alcuni fatti di cronaca passa tuttavia rapidamente e il consenso intorno all'idea della morte cerebrale, per quanto fragile, manifesta una straordinaria resistenza. Ma come si è giunti a dichiarare cadaveri persone che non presentano nessuna delle caratteristiche che di solito si attribuiscono ai cadaveri? E perché? È a queste domande che vorrei anzitutto dare una risposta per poi mostrare come oggi il dibattito internazionale su questi temi sia di estremo interesse, mentre nel nostro paese si vuole continuare a tabuizzarlo.
I
Il punto di partenza non può che essere un documento sempre citato e che ha esercitato una straordinaria influenza: il Rapporto dei medici di Harvard sulla morte cerebrale risalente all'agosto del 1968. Vediamone il passo saliente:
Il nostro obiettivo principale è definire come nuovo criterio di morte il coma irreversibile. La necessità di una definizione si impone per due ragioni: (1) il miglioramento delle misure di rianimazione e di prolungamento della vita ha prodotto un impegno sempre maggiore per salvare persone affette da lesioni disperatamente gravi. A volte questi sforzi hanno un successo soltanto parziale e quello che ci troviamo di fronte è un individuo il cui cuore continua a battere, pur in presenza di un cervello irrimediabilmente danneggiato. Il peso di questa situazione è enorme non solo per i pazienti, ormai totalmente privi di intelletto, ma anche per le loro famiglie, per gli ospedali e per tutti coloro che hanno bisogno di posti letto già occupati da pazienti in coma. (2) L'uso di criteri obsoleti per la definizione di morte cerebrale può ingenerare controversie nel reperimento degli organi per i trapianti.[5]
Così il gruppo di medici costituitosi presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Harvard giunse in sostanza ad equiparare la diagnosi di coma irreversibile (riscontrata con rigorosi criteri clinici che dovevano accertare la perdita permanente delle funzioni cerebrali) alla morte cerebrale totale, e questa alla morte di fatto. Nasceva così la nuova definizione della morte, che andava a sostituire quella tradizionale, incentrata sull'arresto cardiorespiratorio e che trovava un implicito ma forte sostegno nella tesi che pazienti in stato di morte cerebrale, pur collegati al respiratore, andassero comunque incontro in breve tempo ad un arresto cardiaco.[6]
Anche se la questione era affrontata in termini tecnici e scientifici, non furono comunque sin dal principio ragioni squisitamente scientifiche a spingere verso questa nuova comprensione del fenomeno della morte. Per i medici si trattava anzitutto di stabilire se fosse possibile interrompere la ventilazione artificiale, che consentiva di mantenere battito cardiaco e respirazione, senza per questo incorrere nel rischio di essere accusati di omicidio. A questa finalità se ne aggiungeva però subito un'altra - come risulta dalla parte terminale del brano citato - relativa alla possibilità di disporre di potenziali donatori dai quali prelevare organi destinati ai trapianti. Come si vede l'intreccio tra nuova definizione della morte su base neurologica e prelievo di organi è presente sin dall'inizio.
Nonostante la nuova definizione abbia avuto largo successo (e ciò per diverse ragioni, che qui non è il caso di elencare) essa incontrò subito la pervicace opposizione di Hans Jonas. L'aspetto più importante della sua critica - mi limito qui solo ad un accenno - è dato dall'insistere sulla impossibilità di determinare con assoluta certezza il confine tra la vita e la morte.[7] Proprio il dubbio, il non sapere dove stia quell'esatto confine dovrebbe farci propendere nel caso del morto cerebrale per la vita presunta (in dubio pro vita) e resistere alla tentazione di anticipare per finalità del tutto estrinseche al paziente il momento della sua morte. Ma allora la sua restò una voce - sia pure importante - fuori dal coro. È solo nel corso degli anni Novanta che comincia a manifestarsi tanto in ambito filosofico quanto in ambito scientifico un atteggiamento critico che spinge oggi alcuni persino a sostenere la necessità di abbandonare definitivamente la nozione di morte cerebrale. Di seguito mi limiterò ad illustrare qualche esempio che ritengo particolarmente significativo. Non solo filosofi in sintonia intellettuale con Jonas come Robert Spaemann[8] o Josef Seifert[9] si muovono nella medesima direzione, ma persino un autore come Peter Singer distante anni luce dai filosofi menzionati. Già intorno alla metà degli anni Novanta Singer era giunto a concludere che la definizione di morte cerebrale era stato un "ardito espediente", che aveva consentito di trattare come morte persone in cui soltanto il cervello aveva smesso di funzionare.[10]
I medici, insomma, staccano il respiratore ad esseri umani il cui destino certo è irreversibilmente segnato, ma di fatto non ancora morti, e per giustificare la liceità dei trapianti è stata introdotta con la nuova definizione di morte una finzione che consente loro di anticipare il decesso al momento della cessazione irreversibile delle funzioni dell'encefalo. Così Peter Singer con un ragionamento che, pur giungendo a conclusioni etiche diverse da quelle di Jonas, è costretto sia pure in modo implicito a riconoscere la validità della sua critica. Non intendo tuttavia ora approfondire questo punto.[11] Vorrei piuttosto richiamare la vostra attenzione su un altro aspetto. Il consenso intorno alla nuova definizione di morte su base cerebrale nasceva anche dal fatto che la scienza medica, con rare eccezioni, accettò la proposta della Commissione di Harvard. All'opinione pubblica essa venne (e viene) presentata come una nuova acquisizione scientifica, che consentiva (e consente) persino una migliore e più certa conoscenza della natura della morte. Ciò era senza dubbio rassicurante: i medici, coloro che hanno competenza in merito, non avevano dubbi, perché avrebbero dovuto averne i cittadini? Se la scienza medica ci dice che la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, per quanto ciò possa contrastare con la comune percezione della morte, ci si dovrebbe fidare degli esperti e chi non si fida è in fondo soltanto un oscurantista che si oppone con fantasticherie metafisiche al progresso della conoscenza medico-scientifica. A tal punto attendibile veniva ritenuta questa nuova definizione della morte che nel nostro paese si decise persino di fissarla in una definizione legislativa, posta alla base delle norme che accertano e certificano la morte. L'articolo 1 della legge n. 578 del 1993 recita infatti: "la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". Peccato però che proprio negli stessi anni in cui in Italia ci si spingeva a tanto, nel paese in cui era stata per prima formulata, e per ironia della sorte nella stessa università, cominciasse a manifestarsi un forte ripensamento critico nei suoi confronti, di cui ora vorrei dar conto.
II
Rethinking Brain Death è il titolo significativo di un articolo pubblicato nel 1992 da due medici, Robert Truog e James Fackler, su una autorevole rivista medica. Sulla base di documentate ricerche i due autori dimostrano che pazienti, i quali rispondono agli attuali criteri clinici adoperati per accertare la morte cerebrale, non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali.
A sostegno della loro tesi i due medici portarono quattro argomenti che vorrei qui riassumere.[12] In primo luogo, in molti pazienti giudicati in stato di morte cerebrale non è venuta meno la funzione endocrino-ipotalamica, persiste cioè l'attività ormonale della ghiandola ipofisi e del centro nervoso (ipotalamo) che la controlla; in secondo luogo in molti pazienti che si trovano in tale stato è possibile registrare tramite encefalogramma una sia pur debole attività elettrica localizzata in alcune zone della corteccia cerebrale, destinata a spegnersi solo dopo 24-48 ore; in terzo luogo, alcuni pazienti continuano insospettatamente a reagire agli stimoli esterni, come dimostra ad esempio l'aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna a seguito dell'incisione chirurgica prima del prelievo degli organi; in quarto luogo, in molti pazienti definiti cerebralmente morti sono conservati i riflessi spinali. Sulla base di una attenta analisi di questi quattro elementi Truog e Fackler sono giunti a concludere che gli attuali mezzi clinici impiegati per accertare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo in realtà non sono in grado di farlo. Si potrebbe pensare all'opinione isolata di due medici controcorrente, subito smentita dalla comunità scientifica, e invece no: quell'articolo per un verso confermava alcuni orientamenti già presenti e per l'altro ha trovato ampie conferme nella letteratura scientifica, tanto da essere oggi generalmente accolto. Ma se Truog e Fackler hanno ragione, allora se ne dovrebbe concludere che spesso quando si prelevano gli organi il donatore è ancora vivo. Dal momento che non sono ancora cessate tutte le funzioni dell'encefalo il paziente sotto il profilo giuridico non può essere considerato deceduto.13 Questo dovrebbe valere a maggior ragione per il nostro paese in cui la morte cerebrale totale è oggetto di una specifica disposizione normativa. Se la condizione preventiva per autorizzare il prelievo di organi da cadavere è data dalla cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo mi pare evidente che se quella condizione non si verifica, neppure il prelievo dovrebbe essere considerato lecito. Già questo mi pare sufficiente a mettere in crisi l'identificazione tra morte cerebrale e morte di fatto. Ma v'è di più.
Non soltanto alcuni pazienti in stato di morte cerebrale presentano ancora alcune funzioni cerebrali, ma in altri pazienti, pur privi di funzioni cerebrali, l'organismo manifesta una vitalità a tal punto sorprendente dall'essere molto difficile sostenere che sia morto. Come abbiamo già accennato un forte sostegno alla nuova definizione della morte nasceva dal fatto che si riteneva che pazienti dichiarati cerebralmente morti non mancassero mai di sviluppare asistolia in un breve lasso di tempo. Una tesi di per sé piuttosto discutibile dal momento che affermare che in seguito alla morte cerebrale l'arresto cardiaco sia invariabilmente imminente significa dire che il paziente sta per morire non che è già morto. Ma al di là di questa considerazione è la tesi stessa ad essersi rivelata empiricamente falsa, come meglio di ogni altro ha documentato un autorevole neurologo statunitense: Alan Shewmon. Questo medico, che tra l'altro era stato un convinto sostenitore della morte cerebrale, si trovò di fronte ad un caso altamente inquietante che lo costrinse a modificare le sue convinzioni: un bambino che era entrato in stato di morte cerebrale all'età di quattro anni ed era ancora vivo all'età di diciotto anni e mezzo!14 Non si tratta peraltro di un caso isolato; nella letteratura scientifica sono tutt'altro che pochi i casi con sopravvivenza di una o più settimane e molti di essi riguardano bambini o donne incinte in cui il supporto artificiale viene mantenuto per l'insistenza dei genitori o per salvare il feto.15 Shewmon ne conclude che è dunque priva di fondamento l'idea di sostenere che la morte del cervello sia un indicatore della morte ravvicinata dell'intero organismo. Viene così radicalmente messo in discussione uno dei pilastri su cui si regge la nozione di morte cerebrale, vale a dire l'idea che il cervello conferisca al corpo la sua "unità integrativa". L'unità integrativa di un organismo non viene imposta dall'alto (dal cervello), ma è un fenomeno olistico fondato sulla mutua interazione di tutte le sue parti. Si potranno ovviamente discutere queste conclusioni, resta però il fatto che dopo le analisi di Shewmon l'idea che il cervello sia essenziale per il funzionamento dell'intero organismo risulta di fatto non più sostenibile.
Tutto ciò può avere forti ripercussioni sul problema del trapianto degli organi - ed è questa in fondo la ragione per cui l'apertura di un dibattito sul tema della morte cerebrale risulta particolarmente difficile - anche se non credo che si debba necessariamente giungere alla conclusione che i prelievi di organi da persone cerebralmente morte vadano vietati. Sono invece convinto che occorra abbandonare la finzione della morte cerebrale e passare ad una discussione etica (peraltro in altri paesi già iniziata) che ci consenta di stabilire che cosa è lecito fare di persone il cui cervello ha smesso di funzionare. Tutti sappiamo di dover morire ma non sappiamo né quando né come moriremo. Subiamo la morte, ma al contempo possiamo pure appropriarcene. Che altro è in fondo l’agonia se non questa lotta di tutto l’organismo culminante con una resa accettata con l’ultimo respiro? Oggi tuttavia questo evento assolutamente personale - la morte è mia, unica ed irripetibile - rischia di diventare del tutto impersonale. In particolare le tecniche di differimento della morte se molte volte riescono a salvare vite umane, altre volte privano l’uomo della propria morte. L’appropriazione della morte non avviene quando l’uomo può essere tenuto sospeso in una condizione ambigua tra la vita e la morte per un tempo indeterminato. Quando la morte diventa un processo controllato tecnologicamente dobbiamo innanzitutto interrogarci su cosa siamo autorizzati a fare di una persona nelle diverse fasi che possono contraddistinguere il processo del suo morire (lo stesso si potrebbe dire per l'inizio della vita, ma qui il problema è solo accennato). Vorrei spiegarmi con qualche esempio.16 Non credo sarebbe lecito procedere al prelievo di organi da una persona che si trova in stato vegetativo permanente, ma sono propenso a ritenere che dopo un certo periodo di tempo, nel rispetto di alcune condizioni, si potrebbe accelerare il processo di morte. Non credo che sarebbe lecito chiudere in cassa un morto cerebrale, ma - diversamente da Jonas - ritengo che non si offenderebbe la sua dignità se, nel rispetto di alcune condizioni, si prelevassero i suoi organi. Raccapricciante troverei invece tutta quella serie di utilizzazioni pratiche che Jonas paventava, vale a dire l'uso dei morti cerebrali per fabbricare ormoni e altre sostanze, per sperimentare su di loro nuove terapie e per la ricerca scientifica in genere.17 Questa profezia jonasiana non si è ancora avverata, ma il nostro legislatore sta alacremente lavorando in tal senso. Una proposta di legge di iniziativa di alcuni deputati (la n. 5083) mira infatti a consentire, per la durata di un anno, l'uso del corpo post-mortem a fini di studio e di ricerca scientifica.18 E poiché il criterio a cui si riferisce per stabilire la morte è quello, stabilito per legge, della morte cerebrale il rischio che si corre è che - ahimè - siano proprio i morti cerebrali le vittime privilegiate della ricerca.
* Relazione tenuta il 30 luglio 2005 a Eboli presso il Centro di Studi di Filosofia e Teoria delle Scienze Umane “Maurizio Mangrella”, nell’ambito di un Seminario di Studi su “Questioni di etica e bioetica” organizzato dalle Università di Napoli e Salerno.
[1] Cfr. Legge 29 Dicembre 1993, n. 578, Norme per l’accertamento e la certificazione della morte, in “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”, Roma, CXXXV, n. 5 di sabato 8 gennaio 1944, pp. 4-5. Si veda l’art. 2,4 comma.
[2] Cfr. Decreto, Ministero della Sanità, 22 agosto 1994, n. 582, Regolamento recante le modalità per l’accertamento e la certificazione della morte , in “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”, Roma, CXXXV, n. 245 di mercoledì 19 ottobre 1994, pp. 4-7. Si veda l’art. 2 e l’art. 3
[3] Cfr. Legge 10 aprile 1999, n. 91, Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti, in “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”, Roma CXXXX, n. 87, di giovedì 15 aprile 1999, pp. 3-24. La fase transitoria è disciplinata dall’articolo 23, nonché dal decreto, Ministero della Sanità, 8 aprile 2000, Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti, attuativo delle prescrizioni relative alla dichiarazione di volontà di cittadini sulla donazione di organi a scopo di trapianto, in “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana” Roma, CXLI, serie generale, n. 89 del 15 aprile 2000, pp. 4-7.
[4] Cfr. al riguardo M. Morioka, Reconsidering Brain Death: A Lesson from Japan’s Fifteen Years of Experience, in “Hastings Center Report”, 31, 4, 2001, pp. 41-46.
[5] Cfr. A Definition of Irreversible Coma. Report of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School to Examine the Definition of Brain Death, in “Journal of the American Medical Association”, 205, 6, 1968, pp. 337-340 (337). Nel documento erano elencati i quattro parametri per l’accertamento del decesso: assenza di recettività e responsività; assenza di movimento spontaneo o indotto e di respirazione dopo che sia stato staccato il respiratore per tre minuti; assenza di tutti i riflessi, compresi quelli del midollo spinale; elettroencefalogramma piatto. I test dovevano essere ripetuti a distanza di 24 ore; per la diagnosi era necessario escludere ipotermia e intossicazione da farmaci dotati del potere di inibire l’attività del sistema nervoso centrale. Il Rapporto di Harvard non illustrava le ragioni scientifiche che avevano indotto i componenti del Comitato a ritenere che la morte cerebrale totale fosse equivalente alla morte del paziente. A questo scopo, dopo più di un decennio, sarà pubblicato un articolo, scritto dal neurologo statunitense James Bernat insieme a due colleghi: fr. J.L. Bernat et al., On the definition and criterion of death, in “Annals of Internal Medicine”, 94, 1981, pp. 389-394. Secondo questi studiosi la morte può essere concepita come la perdita del funzionamento integrato dell’organismo e tale perdita è conseguenza del venire meno del controllo ed integrazione che l’encefalo esercita sull’organismo stesso.
[6] Come Christopher Pallis, neurologo britannico (tra i più autorevoli sostenitori della morte cerebrale intesa come morte del tronco encefalico) ha continuato a ripetere dal 1983 sino alla riedizione del suo più noto volume, nella cui Prefazione si legge: “Nei primi anni ottanta è stato chiaramente stabilito che nessun paziente in coma apneico dichiarato cerebralmente morto secondo gli stringenti criteri del codice del Regno Unito (…) ha mai mancato di sviluppare asistolia in un lasso di tempo relativamente breve” (Ch. Pallis, D.H. Harley, ABC of Brain Death, London 1996, p. IX). L’idea che per la determinazione di morte su base neurologica fossero necessari soltanto criteri ed esami riferentisi alla funzionalità del tronco encefalico si deve a due studiosi statunitensi, che per primi sostennero la tesi fatta propria da Pallis a distanza di circa un decennio: cfr. A. Mohandas, S.N. Chou, Brain death: A clinical and pathological study, in “Journal of Neurosurgery”, 35, 1971, pp. 211-218.
[7] Tutti gli scritti di Jonas su questo tema sono ora raccolti in traduzione italiana nel volume Questioni mortali: l’attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, a cura di R. Barcaro e P. Becchi, Napoli 2004, pp. 47-76. Per un esame della posizione jonasiana mi sia consentito rinviare qui a P. Becchi, Hans Jonas, La nuova definizione di morte e il problema del trapianto di organi. Una prima approssimazione (in corso di pubblicazione).
[8] R. Spaemann, La morte della persona e la morte dell’essere umano, in “Lepanto”, n. 162, XXI dicembre 2002 (Dossier: Ai confini della vita).
[9] Dei molteplici contributi che Josef Seifert ha dedicato al tema in questione mi limiterò a ricordare quello tradotto in italiano con il titolo La morte cerebrale non è la morte di fatto. Argomentazioni filosofiche, in Questioni mortali, cit., pp. 77-97.
[10] Cfr. P. Singer, Rethinking Life & Death. The Collapse of Our Traditional Ethics (1994), trad. it., Ripensare la vita, Milano 1996, p. 65.
[11] Per un esame più accurato della posizione di Singer cfr. P. Becchi, Un passo indietro e due avanti. Peter Singer e i trapianti, in “Bioetica”, X, 2, 2002, pp. 226-247.
[12] Il testo a cui qui mi riferisco è il seguente: R.D. Truog, J.C. Fackler, Rethinking Brain Death, in “Critical Care Medicine”, 20, 12, 1992, pp. 1705-1713.
[13] A questa conclusione è giunto di recente anche Peter Singer nell’articolo Morte cerebrale ed etica della sacralità della vita, ora in Questioni mortali, cit. pp. 99-121 (107) e sulla medesima conclusione si basa la proposta di Truog di ritornare ad un esclusivo impiego dei criteri cardiopolmonari ai fini dell’accertamento del decesso e di separare nettamente la questione del prelievo degli organi da destinare al trapianto dal problema della determinazione della morte del potenziale donatore. Cfr. R.D. Truog, Is It Time to Abandon Brain Death?, in “Hastings Center Report”, 27, 1, 1997, pp. 29-37. L’articolo è ora tradotto in italiano nell’antologia di scritti Questioni mortali, cit., pp. 205-229. Per l’esame di altre proposte relative alla modifica delle procedure per la dichiarazione del decesso e l’ottenimento di organi per il trapianto si veda ad esempio R. Barcaro, La morte cerebrale totale è la morte dell’organismo? Appunti per una riflessione critica, in “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XXXV, 2, 2005, in corso di pubblicazione.
[14] Il caso viene ampiamente discusso anche in un saggio di Shewmon recentemente pubblicato in lingua italiana con il titolo ‘Morte del tronco cerebrale’, ‘morte cerebrale’ e morte: un riesame critico della loro presunta equivalenza, in Questioni mortali, cit., pp. 177-203 (192). Mi sia qui consentito riportare integralmente la descrizione fattane dall’autore: “Lasciate che vi illustri il caso di TK, colui che detiene il record di sopravvivenza. All’età di 4 anni egli contrasse la meningite, che causò un aumento della pressione intracranica al punto che le ossa del cranio del bambino si divisero. Esami multipli sulle onde cerebrali diedero risultati negativi e nei successivi 14 anni e mezzo non sono stati osservati né respirazione spontanea né riflessi del tronco cerebrale. I medici suggerirono di interrompere il supporto vitale, ma la madre non ne volle sapere. Il decorso iniziale fu molto variabile, ma alla fine fu trasferito a casa, dove egli resta collegato ad un ventilatore, assimila il cibo che arriva nello stomaco attraverso un sondino, urina spontaneamente, e richiede poco più di un’assistenza infermieristica. In stato di ‘morte cerebrale’ egli è cresciuto, ha superato infezioni e le sue ferite si sono rimarginate. La madre di TK mi diede il permesso di esaminare il ragazzo e di documentare fotograficamente ogni cosa. Mi convinsi che egli non aveva nessuna funzione del tronco cerebrale. La pelle del suo viso e della parte superiore del torso, tuttavia, si chiazzò quando pizzicai varie parti del suo corpo, aumentarono la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Questa risposta agli stimoli, mediata dal midollo spinale, non poté essere suscitata a livello del viso, i cui impulsi sensoriali vengono elaborati nel tronco cerebrale, assente nel ragazzo. Ad ulteriore conferma della diagnosi, i potenziali evocati non mostrarono risposte corticali o del tronco, un angiogramma a risonanza magnetica non mostrò flusso sanguigno intracranico, una risonanza magnetica rivelò che l’intero cervello, incluso il tronco, era stato sostituito da un’ombra di tessuti e da fluidi proteici disorganizzati. TK ha molto da insegnare a proposito della necessità del cervello per l’unità integrativa somatica. Indubbiamente egli è entrato in stato di ‘morte cerebrale’ all’età di quattro anni; ma altrettanto indubbiamente egli è ancora vivo all’età di diciotto anni e mezzo”.
[15] Dettagli clinici e bibliografia si trovano in D.A. Shewmon, Chronic ‘brain death’: meta-analysis and conceptual consequences, in “Neurology”, 51, 1998, pp. 1538-1545.
[16] Tengo qui presente le interessanti considerazioni svolte da A. Halevy e B. Brody nel loro saggio, di recente pubblicato in italiano con il titolo La morte cerebrale: riconciliare definizioni, criteri e test nell’antologia già citata Questioni mortali, cit., pp. 155-175.
[17] Cfr. H. Jonas, Morte cerebrale e banca di organi umani: sulla ridefinizione pragmatica della morte, in Questioni mortali, cit., pp. 59-60: “Una volta sicuri di avere a che fare con un cadavere non vi sono motivi logici a sfavore, bensì forti motivi pragmatici a favore del proseguire l’irrorazione sanguigna artificiale (la vita simulata) e tenere a disposizione il corpo del defunto: come banca di organi vivi, possibilmente anche come fabbrica di ormoni e di altre sostanze biochimiche, di cui si ha bisogno. Non dubito che sia possibile mantenere in tale corpo la capacità naturale di cicatrizzare e di guarire dalle ferite di un’operazione, così da poter sopportare più di un intervento. Allettante è anche l’idea di una banca del sangue che si autorigenera. L’alimentazione artificiale non sarebbe un problema. E non è ancora tutto. Non dimentichiamo la ricerca. Perché non si dovrebbero intraprendere su questo compiacente soggetto-nonsoggetto i più strabilianti esperimenti di trapianto, senza porre limiti all’audacia? Perché non ricerche immunologiche e tossicologiche, infezioni con malattie vecchie e nuove, sperimentazioni di farmaci?… Quale benedizione per la formazione dei medici, per le dimostrazioni anatomiche e fisiologiche e per la pratica su materiale tanto migliore di quello offerto dalla sala anatomica! Quale chance per il principiante che potrebbe imparare ad amputare per così dire in vivo, senza che i suoi errori provochino conseguenze! (E così via, nell’ampio spettro delle possibilità…)”.
[18] La proposta di legge n. 5083 di iniziativa dei deputati Battaglia, Bogi, Bolognesi, Giacco, Putrella, Turco e Canotti è stata presentata il 23 giugno 2004 alla Camera dei deputati con il titolo Disposizioni in materia di donazione del corpo post mortem a fini di studio e di ricerca scientifica e mira, in sostanza, a consentire la donazione del proprio corpo post-mortem per non meglio precisate attività di studio e di ricerca scientifica. La proposta di legge si presenta con l’intenzione di colmare una lacuna, a dire il vero però nel nostro ordinamento sono già presenti disposizioni che riguardano “il rilascio di cadaveri a scopo di studio” (artt. 40-43 del D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, Regolamento di polizia mortuaria), solo che queste disposizioni consentono l’uso del cadavere dopo un periodo di osservazione sufficientemente lungo, tanto da offrire garanzie sull’avvenuto decesso dell’interessato, mentre la nuova proposta di legge, facendo all’art. 1 esplicito rinvio a “soggetti dei quali è stata accertata la morte ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578” ci dovrebbe portare a concludere che la donazione riguarderebbe anche i corpi dei morti cerebrali, nel qual caso ci si verrebbe a trovare proprio di fronte a quello scenario paventato da Jonas e riportato quasi interamente nella nota precedente.