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Accanimento Terapeutico e Futilità in Medicina

Lorenzo de Caprio

Un problema senza nome?
Se Accanimento Terapeutico (AT) e Futilità in Medicina (MF) non hanno nome, come sostiene Callahan(1), di cosa si discute? E qual è la posta in gioco?
Tra l’altro, mentre vi sono bioeticisti che consigliano di lasciar perdere, in letteratura e nei codici le definizioni abbondano e tutte sono nella sostanza simili se non proprio identiche, il che lascia sospettare che le controversie non riguardino la teoria.
Nel nostro Codice Deontologico (revisione 2006), all’articolo 16 si legge: <>.
Secondo il nostro vaticano-orientato Comitato Nazionale di Bioetica per AT si intende: <>.
Il problema, direi, non è in un insieme di parole che , de-finendo l’essenza di questa recente colpa, la renda ai medici immediatamente riconoscibile; che fondi, insomma, una sorta di legge generale a cui i professionisti della vita debbano attenersi. Il nodo è “politico” ovvero: chi come e perché decide dell’accanimento.
Le definizioni che ho trascritto concedono poco o nessuno spazio alle determinazioni del paziente. E’ il medico che “deve astenersi” dal peccato. Il che apre altre questioni. Affinché il medico possa fuggire il peccato, deve ,prima, conoscere il peccato, e poi, “decidere” di astenersene. Ma, per decidere in tal senso, deve, prima, diventare giudice imparziale delle proprie azioni e di se stesso. Non è per caso che si rischia il paradosso: di demandare alle volpi di diventare custodi del pollaio?
Le decisioni cliniche sono sicuramente il prodotto di “oggettive” valutazioni empiriche ma non per queste esse si sottraggono al mondo dei valori. Quali allora i valori che muovono queste volpi che volpi non sono?

Il caso di un medico “pentito”
< I familiari si aggrappano a qualsiasi debole speranza… tuttavia ciò che viene loro presentato non è altro che la valutazione soggettiva di un convinto assertore del teorema secondo cui la morte è un nemico che si può respingere. Per tali medici guerrieri anche una vittoria temporanea è in grado di giustificare la devastazione del campo in cui un uomo ha coltivato la sua vita.
Non intendo condannare i medici che promuovono la medicina ad alta tecnologia; io stesso ho fatto parte di tale categoria, ho condiviso l’eccitazione dei combattimenti e la soddisfazione che fa seguito alla vittoria….Più d’uno di questi “successi” s’è rivelata una vittoria di Pirro…
Se fossi stato capace di mettermi nei panni del paziente e dei suoi familiari sarei stato meno risoluto a intraprendere queste lotte disperate>>.
L’interesse nei confronti della bioetica mi ha spinto a leggere libri ed articoli sovente scritti da medici ed mi sono comunemente imbattuto in dottori che condannano l’accanimento nel fine vita. Avrei potuto così esordire in altro modo, pescando vibranti parole da qualche altra parte, infatti non c’era che l’imbarazzo della scelta. Ho preferito questo breve passo di Nuland (2) perché la condanna invariabilmente generica è più facile e meno impegnativa della singola presa di coscienza. Caso piuttosto raro tra i medici, un grande chirurgo confessa pubblicamente di aver sbagliato e di essersi pentito delle decisioni e delle azioni intraprese . Io, piccolo medico, riportandone le dichiarazioni, ammetto a mia volta i miei trascorsi eroici eccessi.
Questo fa capire quanto per noi medici guerrieri, il tema possa essere tormentoso. Ci costringe a sottoporre a critica il valore ed il senso delle scelte e delle azioni , finisce invariabilmente col mettere in discussione nella più intima sostanza il nostro ruolo e la nostra identità. Ruolo ed identità che dovrebbero ancora oggi scaturire da quella etica professionale che, dai greci in poi, esige che il medico debba agire, libero da condizionamenti, sempre e comunque, secondo scienza e coscienza.

Nelle situazioni in cui il “poter fare” offerto concretamente dalle tecniche disponibili va d’accordo con il “dover fare” dettato della “coscienza” non ci sono problemi; …anzi tutto fila come l’olio. I guai insorgono quando tra le due dimensioni si apre una frattura, ed esplode una contraddizione che nella generalità dei casi si dimostra insuperabile.
Nella pratica, messi davanti a pazienti in condizioni disperate, sottoposti a pressioni d’ogni tipo e che provengono da più parti, accade che non siamo semplicemente in grado di stabilire ciò che è bene; allora ci rifugiamo nel comodo nascondiglio offerto da un fare per il fare.
Questa sgradevolissima situazione è oggi quotidiana esperienza professionale. Le possibilità d’intervento scaturite dalla moltiplicazione irrefrenabile delle tecniche “salvavita”, si sono spaventosamente allargate senza trovare ostacoli da parte di alcuna forma di Etica professionale o no che sia. Avvolti come siamo da un tramonto che sfuma ogni contorno, la tecnoscienza è diventata fondamento della Morale. La mera disponibilità di una qualunque tecnica (immaginata) salvavita finisce con il fondare e configurare quell’ Etica pubblica che ne giusti-fica il ricorso e l’applicazione… costi quello che costi per il pazienti e… per i medici.
Sarebbe tuttavia sbagliato attribuire ai progressi tecnici, in quanto tali, le cause dell’AT. Educati, formati e de-formati dalle accademie mediche sul modello dello “ scienziato applicato” (3), noi abbiamo ricevuto dalla società contemporanea il mandato che ci assegna il ruolo (scomodo) di “salvatori di vite umane”(4). Questa evoluzione involuzione avrebbe sicuramente scandalizzato Ippocrate, ma non possiamo che continuare a recitare nella scena sociale la parte che ci è stata assegnata e difendere a spada tratta ruolo ed identità professionale. Di conseguenza nelle rianimazioni, nelle terapie intensive, nelle sale operatori, nei reparti, ci dobbiamo comportare come la società vuole, come la gente chiede, come se avessimo un qualche alchemico e negromantico potere sulla morte.

La questione riguarda anche il pollaio. La medicina non è fuori o sopra la società, vi è dentro fino alla punta dei capelli. Essa traversa la società e ne è a sua volta traversata in tutti i suoi aspetti. Non siamo solo noi a credere nell’onnipotenza della tecnoscienza. Nelle società contemporanee la medicina ha spodestato la religione tradizionale ed ha assunto il ruolo non suo di religione di salvezza (5). Il delirio coltivato e nutrito dai travolgenti progressi della medicina scientifica si rivela dunque coerente con l’opera sistematica d’allontanamento e di esorcizzazione della morte come tenacemente praticato dalla società moderna fin dalle sue origini. (6)
Medicalizzata la morte viene privata del suo valore esistenziale. Si trasforma in un incidente di percorso, in una banale questione tecnica da affidare a tecnici in grado di risolverla tecnicamente. Le terapie inutili, gli interventi spericolati si trasfigurano. Diventano un esercizio sterile di “positivismo eroico”, (7) un rito, un esorcismo magico grazie al quale l’incapacità socioculturale ad ammettere limiti umani e morali all’azione esorcizza se stessa e la morte. Davanti all’inevitabile i trafelati guerrieri che s’agitano senza requie, in realtà fuggono. Si nascondono proprio nella prassi del combattimento, si rifugiano in un fare per fare, in una gestualità senza ragione, senza scopo, senza niente. La comune ed abusata espressione: “Abbiamo fatto tutto ciò che si poteva fare” la dice lunga sul come e sul perché la nostra comune coscienza medica assolva invariabilmente se stessa!
Questi atteggiamenti hanno avuto un effetto indesiderato per i medici, hanno ampliato le dimensioni delle richieste sociali e delle attese della gente nei loro confronti. I guerrieri sono così obbligati a mantenere nella pratica quotidiana quello che dicono di poter fare in teoria, devono salvare vite umane… altrimenti finiscono in tribunale.
Nell’arco di tempo che va dal remoto giorno in cui, giovane medico, ho messo per la prima volta piede in un reparto di terapia intensiva cardiologica, fino al giorno in cui ho messo per l’ultima volta piede in una struttura sanitaria, ho assistito ad un cambiamento radicale dell’atteggiamento dei pazienti nei confronti dei medici e della medicina. (8) La stagionata generazione di professionisti a cui appartengo non ha generalmente sentito su di sé il peso assillante di pazienti insoddisfatti, gli insulti furibondi dei loro familiari, le parcelle degli avvocati civilisti e penalisti, le sentenze dei magistrati, i balzelli degli assicuratori. Oggi, si può dire, non c’è giovane medico che non sia obbligato a stipulare assicurazioni che lo tutelino da possibili azioni legali intentate dai pazienti. Nella mia esperienza, è raro trovare un medico che nel rapporto con il suo paziente non pensi prima di tutto a tutelare se stesso, e di conseguenza non ecceda in indagini ed esami più o meno inutili prescrivendo tutto il prescrivibile.
Questo per dire che i medici dovrebbero finalmente prendere atto che i tradizionali “pazienti” sono diventati più rari delle mosche bianche. Coloro che una volta erano destinati a “patire” la malattia (ed il medico) ora si sono trasformati in “clienti”, si sono evoluti in “utenti”, in “consumatori” bene intenzionati a difendere i propri diritti. Persone sospettose e diffidenti nei confronti dei medici e molto attenti a valutare le loro parole e gli esiti delle loro azioni.
La tradizione tardo-ottocentesca che, nell’immaginario collettivo,figurava il medico come una sorta di buon padre di famiglia, come un dotto gentiluomo di cui ci si poteva ciecamente fidare e nelle cui mani era bene senza riserve affidarsi è stata distrutta negli ultimi decenni da una rivoluzione socioculturale che ha rovesciato i rapporti di forza che intercorrono tra il medico ed il paziente. I medici dovrebbero rendersi conto che è finita quell’alleanza terapeutica che, in coerenza con significato autentico della parola, collocava il “paziente” in una posizione di minorità rispetto al medico. Va da sé che i limiti posti alla millenaria autonomia professionale non sono stati e non sono affatto graditi.
A compromettere ancora di più l’immagine del medico si sono aggiunti e si aggiungono la serie sterminata dei casi di malasanità e mala medicina. Non è dunque per caso che il contenzioso medico-paziente, sia cresciuto e stia crescendo in modo esponenziale.
E’ ragionevole supporre che nelle situazioni critiche, la spada di Damocle di una denuncia rappresenti una variabile non confessata ma molto importante nel processo decisionale del medico poiché lo spinge a fare tutto quello che si può fare a dispetto di ciò che sarebbe bene fare. Nel fine vita decisioni di per sé difficili sono ancora più pesantemente influenzate dal fatto che la desistenza terapeutica viene dalla Legge equiparato all’eutanasia passiva, o meglio all’omicidio.
Stando così le cose non si troveranno medici disposti a rischiare apertamente la galera. Dico “apertamente” perché sono dell’avviso che la cosiddetta eutanasia passiva sia vista con favore da una significativa parte dei medici e che essa sia una pratica coperta e più diffusa di quanto non si pensi. In uno studio italiano del 1996 (9) il 30% dei medici palliativisti si espresse a favore dell’eutanasia. In un campione di medici generalisti e specialisti il 79% degli intervistati si dichiarò favorevole a non intraprendere terapie salvavita in caso di provata inefficacia (10). Nella ricerca condotta dall’Università Cattolica sul comportamento dei rianimatori in 20 centri milanesi di terapia intensiva, lo 80% dei medici dichiarò di essersi astenuto o di aver sospeso i trattamenti d’emergenza in funzione delle condizioni del paziente (11). Nello studio di Fried (12) il 98% dei medici era pronto a non intubare in caso di aggravamento dell’insufficienza respiratoria, il 59% disposto a sospendere il sostegno cardiorespiratorio se clinicamente certo che il paziente sarebbe comunque morto. Nelle loro risposte i medici si dimostrarono condizionati da <>.

Le nozioni di Accanimento Terapeutico e di Futilità in Medicina sono solo per certi versi imparentate tra di loro. Entrambe nascono nell’ambito di una critica morale (ma non solo) nei confronti di terapie poste in essere in pazienti senza speranza. Ma è il caso di sottolineare e tenere sempre presente che la nozione di AT si sviluppa nel contesto di un sistema sanitario ad impronta solidaristica dominato dal pubblico e finalizzato all’interesse collettivo; al contrario il dibattito sulla FM nasce e prospera negli USA negli anni ’80-‘90, in un sistema sanitario assicurativo largamente dominato dall’interesse privato.
Nell’uso mediatico-popolare l’espressione AT, facendo passare in secondo piano la critica scientifica, si sofferma sull’aspetto valoriale dell’azione, enfatizza in modo drammatico e violento i comportamenti aggressivi di quei medici che al pari di cani rabbiosi si ostinano in terapie che hanno come solo scopo quello di prolungare la vita. I diritti della persona vengono così violati dai medici poiché le terapie messe in atto in difesa della vita non prendono in considerazione la sofferenza, la dignità della persona, la qualità della vita del malato, le sue scelte.
<> scrive polemicamente Defanti (13) <<è dovuto alla sua prevalente connotazione negativa in forza del quale si presta a facili slogan>>. In effetti, l’AT fa la sua comparsa sui media in modo episodico e strumentale in occasione di questo o di quel caso eclatante e politicamente promettente. Nulla di sorprendente se l’espressione non piaccia per nulla e sia percepita come una criminalizzazione.
Al contrario il concetto di accanimento dovrebbe collocarsi nelle situazioni in cui la valutazione del quadro clinico fornisce la serie coerente delle informazioni che permettono di pre-vedere con ragionevole ma probabilistica certezza, l’inutilità dei trattamenti e l’inevitabilità della morte. Dunque conoscenza, misura e ragionamento sarebbero ( il condizionale è d’obbligo) in grado di dire al medico quando è venuto il momento di fermarsi.
Il punto è anche se la società sia disposta ad accettare … la morte.
I nostri giudizi di valore non sono solo il prodotto della storia individuale e socio culturale, sono anche condizionati dalle situazioni con cui siamo chiamati a confrontarci, anche dalle emozioni, dalle passioni che suscitano in noi. Una neoplasia maligna che aggredisce un bambino ha in noi un impatto emotivo ben diverso che la stessa malattia può provocare quando colpisce un vecchio. Questo perché siamo naturalmente portati ad attribuire alla vita di un bambino un valore di gran lunga maggiore rispetto a quella di un anziano. E’ più naturale più umano accusare di accanimento il medico che si ostina a salvare un vecchio decrepito, di per sé destinato a morire, che processare il dottore che tenta vanamente di prolungare una giovane vita innocente.

La nozione di futilità prova a far passare del tutto in seconda linea le conseguenze umane e morali dell’azione del medico e privilegia la valutazione oggettiva, razionale dell’ intervento. Appare chiaro che l’enfasi posta sulla razionalità scientifica si traduce in una politica che da forza alla posizione di coloro che sono in grado di esprimere giudizi scientifici.
Una revisione (14) di 750 articoli comparsi nella letteratura medica mise in evidenza che la stragrande maggioranza degli autori fosse dell’opinione che il giudizio di futilità,in quanto questione scientifica, fosse di esclusiva competenza medica. <>. Infatti, per quanto riguarda l’autonomia del paziente, un ‘ampia maggioranza sostenne che i dottori, in situazioni di futilità possano o debbano o dovrebbero non iniziare, o revocare una terapia senza sollecitare alcun consenso da parte dei malati. I medici possono limitarsi il più delle volte ad un dialogo, ma a volte anche solo informare il paziente della decisione (9 articoli).
Domanda: La preoccupazione maggiore che agita questi dottori è così quella di evitare di trasformarsi in esecutori passivi delle volontà dei pazienti… o quella di ristabilire il loro potere decisionale?

La terapia è futile se non è “efficace” e la valutazione dell’efficacia è stabilita sulla base di pragmatiche e molto anglosassoni considerazioni costo/beneficio. Un piccolo esempio. Il ricorso alla nutrizione artificiale in pazienti anziani assistiti dal sistema americano Medicare si è dimostrato futile in quanto non ha migliorato l’aspettativa di vita dei malati ed è responsabile… di problematici buchi di bilancio. Così accade che mentre dalle nostre parti l’accanimento venga evocato per fermare i guerrieri nostrani, negli USA la futilità venga chiamata in causa dai medici per porre un limite alle eccessive richieste dei pazienti e dei loro familiari (15). << La futilità è spesso invocata dai medici quando ritengono che l’intervento non vale l’onere, i rischi ed i costi…quando il medico non vuole fornire, per vari motivi, il trattamento in esame>>.
Ma allora c’è da domandarsi quale sia la differenza tra la futilità ed il razionamento, o detto meglio: non è per caso che in situazioni di limiti nelle risorse economiche e nell’ambito di un sistema privatistico, la futilità non conduca ad una pericolosa scrematura del latte, ad un razionamento di fatto? No, ci viene risposto, la nozione di futilità ha come fine quello di fermare i trattamenti inefficaci, mentre il razionamento implica un taglio lineare su tutti i trattamenti.. anche su quelli efficaci.
Il lettore si sarà reso a questo punto che la futilità fonda e giustifica la critica “morale” in modo pacato, più ampio e più efficace di quanto non consenta il grido d’accanimento .
Fondato com’è su valutazioni eminentemente valoriali, necessariamente soggettive, l’AT appare e scompare a seconda i punti di vista, in funzione di quale sia il fine ultimo della medicina, delle ideologie, delle visioni del mondo, delle parti in causa. Se il principio della sacralità della vita ne impone la difesa comunque, ne consegue che non si da mai accanimento. Se ciò che conta è la qualità della vita e/o la libera scelta del paziente si da accanimento.
Ignorando questi piccoli problemi, appoggiandosi su neutre, oggettive, solide valutazioni la nozione di futilità è maggiormente in grado di orientare e giustificare le decisioni mediche e le offerte in senso restrittivo E se necessario, può anche fornire buoni argomenti nelle aule dei tribunali poiché promette di poter deludere scientificamente le eccessive richieste e le rimostranze dei pazienti.
Tra gli anni ’80 e ’90 i tentativi di dare forza alla nozione di futilità si sono concentrati più che sull’ astratta sua definizione sulla possibilità di introdurre nella pratica medica criteri condivisi. Bisogna dire che i risultati di tanti sforzi sono stati insoddisfacenti e da più di 10 anni il dibattito è entrato in una morta gora poiché non si è riusciti a conciliare gli interessi contrastanti dei medici, dei malati, delle famiglie dei malati e per ultimi, ma non ultimi, quelli sotterranei degli amministratori. La paralisi culturale non ha però fermato gli ordini di non rianimare (DNR orders) e le cause nei tribunali.
Per uscire dalle secche, LJ Scheidermann et al. (16) hanno proposto di distinguere la futilità in “qualitativa” e “quantitativa”.
Il medico pone una sentenza di futilità qualitativa quando esprime un’opinione sulla qualità della vita del malato basandosi su considerazioni che oscillano tra la clinica e la morale. Problematico mix tra giudizi di fatto e di valore, il criterio qualitativo autorizzerebbe l’interruzione dei trattamenti tesi a mantenere in vita i malati che sopravvivono in condizioni d’incoscienza permanente (tipo Eluana Englaro) e/o quelli coscienti ma dipendenti da cure mediche continuative ed intensive ( tipo Welby).
Il medico giunge ad un verdetto di futilità quantitativa e rifiuta la terapia X al paziente Y quando, basandosi sulla sua personale esperienza e di tutte le informazioni disponibili, conclude che la terapia X, essendosi dimostrata inefficace nel 100% dei casi Yn già trattati, sicuramente sarà inefficace nel caso Yn+1. Viene suggerita una vera e propria soglia di futilità nel senso che il dottore può non intraprendere il trattamento quando la percentuale degli insuccessi è alta. Ma quanto alta? il 98 od il 75%? Dove porre l’asticella?
Alla base delle controversie vedo il solito pre-giudizio. Dimenticando quella vecchia storia relativa ai cigni neri, troppi, medici e non, interpretano le malattie come processi meccanicistici, pertanto assolutamente prevedibili nella prospettiva vetero positivista del “determinismo stretto”. Partendo da qui la medicina è immaginata come una scienza “dura” come la fisica, come una scienza esatta mentre essa non lo è affatto. Nella pratica, in particolare nelle situazioni d’emergenza, il medico può solo con probabilistica accuratezza pre-vedere l’evoluzione della malattia e gli effetti di un qualsiasi intervento. Nella professione ci si imbatte sistematicamente in un’ampia area grigia in cui le decisioni vengono prese in condizioni di sostanziale incertezza così nessun criterio operativo avverte il medico che ha superato il confine che qualifica, ad un osservatore esterno, il suo atto come accanimento. Per rendere meglio l’idea, intraprendere una terapia “salvavita” che abbia, poniamo, una probabilità di successo del 50% in quel dato paziente critico, significa affidare l’esito dell’azione ai capricci di quella Fortuna che notoriamente è cieca. E’ come tirare in aria una monetina augurandosi che, in virtù di quella probabilità del 50%, la dea benignamente faccia uscire testa anziché croce. In conclusione, stando così le cose, continueremo con l’osannare il medico a paziente vivo, ed a precipitarlo negli Inferi a paziente morto.

Callahan D., Medical Futility, Medical Necessity. The Problem without a Name. Hastings Center Reports. 1991, 21:30.
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ibidem
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