Professoressa Marianna Gensabella ha scelto di affrontare un tema non facile, che suscita tante domande e non pochi dubbi. Perché ha sentito questa necessità?
È vero è un tema difficile e trattarlo significa correre molti rischi, tra cui, inevitabile, quello di lasciare molte domande aperte. Ma a volte accade che un tema si imponga a chi fa ricerca, insomma che non si possa scrivere di altro. Ed è stato così per me questa volta: le motivazioni erano diverse, alcune occasionali, direi di contesto, altre personali, più profonde. Tra le prime il dibattito sulla maternità surrogata, intenso nel nostro paese durante il periodo in cui si discuteva il disegno di legge Cirinnà e la stepchild adoption, ma anche la partecipazione all’elaborazione di un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sui problemi etici sollevati da un caso di scambio di embrioni durante due fecondazioni in vitro. Chi nella controversia che si era creata era da riconoscere come madre? La donna che portava in grembo embrioni geneticamente non suoi, ma accolti come tali, o colei che aveva dato gli ovuli e che con gli embrioni aveva dunque un legame genetico?
Vi erano poi motivazioni profonde, il desiderio di ripensare non solo ciò che si è studiato, ma ciò che si è vissuto, le esperienzeche hanno segnato di più la propria vita. E tra queste c’è stata per me la maternità. In ultimo c’era il desiderio, che avanza con l’età, di rivivere e raccontare quelle esperienze, a me stessa e ad altri, di farlo da donna, attraverso le voci di altre donne: pensatrici della differenza, come Luce Irigaray, Luisa Muraro, femministe che si erano cimentate col tema della maternità, come Adrienne Rich, Sarah Ruddick, Virginia Held, psicoanaliste come Silvia Vegetti Finzi; donne che avevo incontrato e con cui avevo intessuto dialoghi intensi su questi temi, come le colleghe del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Vi erano poi motivazioni profonde, il desiderio di ripensare non solo ciò che si è studiato, ma ciò che si è vissuto, le esperienzeche hanno segnato di più la propria vita. E tra queste c’è stata per me la maternità. In ultimo c’era il desiderio, che avanza con l’età, di rivivere e raccontare quelle esperienze, a me stessa e ad altri, di farlo da donna, attraverso le voci di altre donne: pensatrici della differenza, come Luce Irigaray, Luisa Muraro, femministe che si erano cimentate col tema della maternità, come Adrienne Rich, Sarah Ruddick, Virginia Held, psicoanaliste come Silvia Vegetti Finzi; donne che avevo incontrato e con cui avevo intessuto dialoghi intensi su questi temi, come le colleghe del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Qual è la tesi del suo libro?
Più che una tesi, è forse un'ipotesi di lettura: dal momento che le tecniche di riproduzione assistita passano dal corpo delle donne, è a quel corpo vissuto che occorre ridare la parola, per cercare di comprendere il sentire e il pensare che lo abita, il modo differente in cui vive la procreazione, l’in-definizione dei confini tra esterno ed interno, tra sé e l’altro, che sperimenta nella gravidanza. E tutto questo nel quadro di una bioetica scritta con mani di donne, centrata sui loro ‘corpi pensanti’, sulle loro riflessioni su maternità e gravidanza: una bioetica che mi è apparsa come lo sfondo più adeguato per valutare i problemi etici posti dall’uso delle tecniche di riproduzione assistita.
Grazie allo sviluppo della scienza, per tante donne oggi è possibile diventare madri, cosa impensabile nel passato. Non trova che sia un’ opportunità meravigliosa?
Sì, certo, in generale sì. I miei figli non sono arrivati subito e, per quanto sia stata breve la mia esperienza di sterilità, l’ho sofferta intensamente. Conservo una profonda gratitudine verso la scienza, verso la ginecologa Isabella Coghi, che mi ha seguito in quegli anni, e che ho ritrovato poi come collega del CNB. Il mio era, come mi disse allora, un caso semplice: bastava convincere con una cura ormonale il mio corpo a produrre gli ovuli necessari. Ma se fosse stato più complesso? Se avessi dovuto far ricorso ad una donatrice, o per problemi di mio marito ad un donatore? Se avessi avuto bisogno dell’utero di un’altra? Il mio desiderio di maternità si sarebbe fermato o sarebbe andato avanti? Onestamente non lo so. So che era un desiderio intenso, vitale, ma penso che mi sarei posta, insieme a mio marito, il problema. Non è un caso che il mio libro inizi dal desiderio di generare, a mio avviso uno dei più forti che muovano la nostra vita. Più forte è il desiderio, più il dilatarsi delle possibilità di realizzarlo appare un’opportunità meravigliosa, come una “meraviglia” è la vita nuova che si desidera.Il rischio è che si perda il senso del limite, ma anche il senso stesso del proprio desiderare. Si desidera un figlio, non una cosa. Ed è lui o lei il fine di tutto. Il desiderio di essere madre/ padre deve fare i conti con la responsabilità verso chi si mette al mondo, con la promessa che gli facciamo al momento in cui decidiamo di concepirlo: fare di tutto per dargli una “vita buona”.
Il corpo della donna continua ad essere al centro dell'attenzione, sia nelcampo della ricerca medica e scientifica, sia per le implicazioni politiche. Secondo lei il pensiero delle donne è riuscito a tenere il passo rispetto ai nuovi scenari?
Non lo so. È complicato. Il nostro corpo passa costantemente attraverso costrutti simbolici di cui non abbiamo consapevolezza, e, al tempo stesso, la scienza medica,a cui sia noi donne che i nostri figli molto dobbiamo in termini di salute, lo plasma, trasformandone percezioni e vissuti. Studiose come Barbara Duden hanno mostrato come la percezione che le donne hanno del loro corpo muti radicalmente, a partire dalla contraccezione e poidalla medicalizzazione della gravidanza e del parto: un mutamento ancora in corso. Il pensiero delle donne insegue tali mutamenti, perché si porta dietro un'eredità di immagini e di simboli che rallenta il passo, o a volte li segue senza pensare, perché accecato dal di più di benessere e dal meno di sofferenza che i progressi della medicina portano con sé.
Lei parla di etica della maternità e di bioetica della maternità, cosa intende?
La suggestione è che l'esperienza della maternità contenga in sé, già dal suo inizio, nella gestazione le linee di un'etica della cura, come etica del riconoscimento e dell'ospitalità. La madre è la prima che riconosce il figlio come altro e che lo ospita: per farlo si mette a disposizione, apre il suo corpo, la sua vita, e, come ogni ospite, limita le proprie pretese per far spazio a quelle di chi arriva. Nel testo cerco di mostrare come non sia un percorso facile, scontato, come tanta retorica sulla maternità sostiene. È piuttosto un percorso difficile, come ogni percorso etico. Si tratta di un'etica sempre in bilico tra la tentazione del potere e l'accettazione del limite, del sostenere e insieme lasciare andare. Il potere materno di decidere se dire sì o no alla vita è grande, come è grande la tentazione di pensare che quella vita che si genera sia un proprio possesso. Mettere al mondo, lasciare andare per le vie del mondo, sostenendo e curando e, prima ancora, “misurare” il proprio desiderio su quello del figlio è l’impegno difficile dell’etica della maternità.
Un impegno che passa dall’etica alla “bioetica della maternità”. In quest’ultima la maternità è al centro in un senso duplice: per un verso la relazione madre-figlio costituisce il suo paradigma di riferimento, per l’altro la trasformazione di quella relazione oggi, attraverso le tecniche di riproduzione assistita è il suo oggetto. Pensata come una forma della “bioetica della cura”, la bioetica della maternità è usata nel testo come il modello attraverso cui analizzare alcune complesse questioni di inizio vita, dalla diagnosi pre-impianto al diritto di conoscere le proprie origini biologiche, dall’adozione degli embrioni sovrannumerari alla maternità surrogata.
Un impegno che passa dall’etica alla “bioetica della maternità”. In quest’ultima la maternità è al centro in un senso duplice: per un verso la relazione madre-figlio costituisce il suo paradigma di riferimento, per l’altro la trasformazione di quella relazione oggi, attraverso le tecniche di riproduzione assistita è il suo oggetto. Pensata come una forma della “bioetica della cura”, la bioetica della maternità è usata nel testo come il modello attraverso cui analizzare alcune complesse questioni di inizio vita, dalla diagnosi pre-impianto al diritto di conoscere le proprie origini biologiche, dall’adozione degli embrioni sovrannumerari alla maternità surrogata.
La scienza e la ricerca deve porsi dei limiti, deve individuare soglie che non vanno oltrepassate? In particolare la domanda è rivolta alle questioni che riguardano l'inizio e la fine della vita...
Sì, a mio avviso sì. O meglio, lo scienziato, il ricercatore, come esseri umani ne avvertono il bisogno. Non dimentichiamo che è da loro, dalle loro istanze di limite che nasce la bioetica. Tra i padri fondatori della bioetica troviamo Potter, che era un biochimico del cancro, e Hellegers, che era un fisiologo dell’embriologia umana. La scienza vuole “andare avanti” e, se ha un'ipotesi razionale che tenga, vuole provare se funziona nella realtà, ma lo scienziato ha, come essere umano, dentro di sé la domanda etica sul “senso” del suo andare, se vada o meno verso il bene.
Nel testo si parla di inizio vita, naturalmente. E qui il senso e la misura con cui usare le tecniche di riproduzione assistita non può che essere il bene di chi mettiamo al mondo. Il nostro desiderio di maternità deve confrontarsi con questo. Si dice che basti l'amore e che figli molto desiderati e quindi molto amati hanno già tutto. Ma è così? Credo che l’amore sia la premessa necessaria, ma non sia sempre sufficiente. La trasformazione del paradigma genitoriale che attraversa il nostro tempo ci impegna ad una continua valutazione dei benefici e dei danni eventuali che ricadono sui figli da queste nuove forme di filiazione, forme miste, in cui il legame di sangue non è escluso come nell’adozione, ma c’è, sia pure parzialmente. C'è un'ombra nell'identità genetica del figlio che nasce da una fecondazione con donatore o donatrice? Si, c'è, ma possiamo dire che costituisca un danno per il suo sviluppo psichico? Molti studi lo negano: siamo certi di ciò che documentano? Ciò che sappiamo con certezza è che ci assumiamo un rischio per lui, una responsabilità in più oltre quella, immensa, di averlo chiamato alla vita. Dovremo impegnarci per rivelargli la verità che sta all'origine della sua vita, in modo che quell’ombra faccia il minor danno possibile, anche a costo di metterci in gioco come genitori, o dovremo rinunziare? E se invece ad essere in questione fosse il legame primo di ospitalità, quello con il grembo materno, come avviene nella maternità surrogata?
La bioetica della maternità qui, pure nella consapevolezza della sofferenza che la negazione del desiderio di un figlio genera, si trova di fronte a difficoltà che a me appaiono insuperabili, qualunque sia la forma, onerosa o altruistica della maternità surrogata. Mi sembra impossibile, come donna e come madre, pensare che il legame gestazionale si riduca ad una “funzione” che possa essere “messa a disposizione”, “prestata” e poi “spezzata”: impossibile, perché mi appare piuttosto come un legame “primario” che appartiene al corpo vissuto della madre così come a quello del suo bambino. Un legame su cui nessuno di noi vorrebbe ombre, tagli o accordi, poiché da lì deriva la prima, fondamentale sicurezza: quella delle braccia che ci accolgono, le stesse della madre che ci ha atteso, ospitato, messo al mondo.
Nel testo si parla di inizio vita, naturalmente. E qui il senso e la misura con cui usare le tecniche di riproduzione assistita non può che essere il bene di chi mettiamo al mondo. Il nostro desiderio di maternità deve confrontarsi con questo. Si dice che basti l'amore e che figli molto desiderati e quindi molto amati hanno già tutto. Ma è così? Credo che l’amore sia la premessa necessaria, ma non sia sempre sufficiente. La trasformazione del paradigma genitoriale che attraversa il nostro tempo ci impegna ad una continua valutazione dei benefici e dei danni eventuali che ricadono sui figli da queste nuove forme di filiazione, forme miste, in cui il legame di sangue non è escluso come nell’adozione, ma c’è, sia pure parzialmente. C'è un'ombra nell'identità genetica del figlio che nasce da una fecondazione con donatore o donatrice? Si, c'è, ma possiamo dire che costituisca un danno per il suo sviluppo psichico? Molti studi lo negano: siamo certi di ciò che documentano? Ciò che sappiamo con certezza è che ci assumiamo un rischio per lui, una responsabilità in più oltre quella, immensa, di averlo chiamato alla vita. Dovremo impegnarci per rivelargli la verità che sta all'origine della sua vita, in modo che quell’ombra faccia il minor danno possibile, anche a costo di metterci in gioco come genitori, o dovremo rinunziare? E se invece ad essere in questione fosse il legame primo di ospitalità, quello con il grembo materno, come avviene nella maternità surrogata?
La bioetica della maternità qui, pure nella consapevolezza della sofferenza che la negazione del desiderio di un figlio genera, si trova di fronte a difficoltà che a me appaiono insuperabili, qualunque sia la forma, onerosa o altruistica della maternità surrogata. Mi sembra impossibile, come donna e come madre, pensare che il legame gestazionale si riduca ad una “funzione” che possa essere “messa a disposizione”, “prestata” e poi “spezzata”: impossibile, perché mi appare piuttosto come un legame “primario” che appartiene al corpo vissuto della madre così come a quello del suo bambino. Un legame su cui nessuno di noi vorrebbe ombre, tagli o accordi, poiché da lì deriva la prima, fondamentale sicurezza: quella delle braccia che ci accolgono, le stesse della madre che ci ha atteso, ospitato, messo al mondo.
Il corpo della madre. Per una bioetica della maternità (Rubettino) Marianna Gensabella Furnari
Grazie alla scienza e alla tecnica, il desiderio di trasmettere la vita trova oggi nuove vie per realizzarsi anche là dove prima doveva arrestarsi: vie che percorre rompendo ogni schema, andando oltre il paradigma genitoriale tradizionale, la relazione madre-figlio, la stessa differenza sessuale. Tutto, o quasi, si svolge sui corpi delle donne, oggetti di manipolazione, stimolazione, estrazione, fino a spezzare in due o più parti la maternità. Il testo propone di tornare a quei corpi, restituendo loro la parola sul sentire/ pensare differente che li abita, in particolare quando divengono corpi di madri. Da quei corpi vissuti che dicono un "di più" di relazione e un "di più" di responsabilità, derivano i principi di un'etica della maternità, declinata come etica del riconoscimento e dell'ospitalità. Da qui l'ipotesi di una bioetica della maternità che aiuti a rileggere le questioni di inizio vita - dalla diagnosi pre-impianto al diritto a conoscere le proprie origini, dall'adozione degli embrioni sovrannumerari alla maternità surrogata - indicando la misura del desiderio nella cura di chi si chiama alla vita.
Grazie alla scienza e alla tecnica, il desiderio di trasmettere la vita trova oggi nuove vie per realizzarsi anche là dove prima doveva arrestarsi: vie che percorre rompendo ogni schema, andando oltre il paradigma genitoriale tradizionale, la relazione madre-figlio, la stessa differenza sessuale. Tutto, o quasi, si svolge sui corpi delle donne, oggetti di manipolazione, stimolazione, estrazione, fino a spezzare in due o più parti la maternità. Il testo propone di tornare a quei corpi, restituendo loro la parola sul sentire/ pensare differente che li abita, in particolare quando divengono corpi di madri. Da quei corpi vissuti che dicono un "di più" di relazione e un "di più" di responsabilità, derivano i principi di un'etica della maternità, declinata come etica del riconoscimento e dell'ospitalità. Da qui l'ipotesi di una bioetica della maternità che aiuti a rileggere le questioni di inizio vita - dalla diagnosi pre-impianto al diritto a conoscere le proprie origini, dall'adozione degli embrioni sovrannumerari alla maternità surrogata - indicando la misura del desiderio nella cura di chi si chiama alla vita.