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Al Festival di Bioetica 2020 la prof.ssa Lourdes Velázquez illustra le sue ricerche in vari parti del mondo

La professoressa Lourdes Velázquez insegna e svolge attività di ricerca nel Centro interdisciplinare di Bioetica dell'Università Panamericana (Messico) le questioni relative all’inizio e al fine vita dedicando particolare attenzione alle patologie terminali nei neonati, tema delicatissimo su cui ha anche pubblicato un libro "Il trattamento del neonato terminale del punto di vista bioetico" (ed Studium). Fa parte dell'Istituto Italiano di Bioetica e al Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure, 27 e 28 agosto 2020), con uno sguardo che spazia nella dimensione internazionale, al Festival parlerà dei vati tipi di violenza che hanno subito le donne durante il Covid-19. Le chiediamo alcune anticipazioni.

Prof.ssa Velàzquez lei ha osservato le circostanze e le situazioni che, durante questa terribile pandemia, vedono le donne vittime di violenze di vario genere. Quali sono e in che ambiti avvengono?
Come ben si dice nella domanda, le violenze sono da intendere in senso generale, ossia non limitatamente alle violenze fisiche o ai maltrattamenti (che pure non sono infrequenti) ma includendo anche quelle concrete forme di costrizioni o obblighi a cui non ci si può sottrarre concretamente. Tali forme di violenza si sono registrate specialmente in due tipi di ambienti, nel caso specifico della presente epidemia: l'ambiente familiare, lavorativo e le strutture sanitarie. Per quanto concerne l'ambiente familiare, è ovvio riferirsi a quei periodi più o meno lunghi, e in generale alquanto lunghi, in cui gli appartenenti a una medesima famiglia sono stati costretti a rimanere chiusi in casa a causa di quarantene o, comunque, in seguito a misure riduttive della libertà di circolazione imposte per evitare la diffusione del contagio. In tali casi sono state soprattutto le donne che, per provvedere alle necessità di approvvigionamento della famiglia, hanno dovuto esporsi a uscire per gli acquisti o ricevere all'ingresso della casa i fornitori, essendo così le persone di tutta la famiglia più direttamente esposte ai rischi di contagio.
Per di più, quando si sono trovate costrette a non potersi recare sul posto di lavoro, ripiegando sul lavoro a distanza svolto in casa, hanno visto raddoppiare il loro carico di fatica, dovendo aggiungere al lavoro professionale anche quello delle faccende domestiche che in queste circostanze di pandemia è aumentato considerevolmente. In molti casi, poi, si aggiunge l'impegno di sostenere i figli in età scolastica i quali, non potendo recarsi a scuola, erano obbligati a utilizzare procedimenti e strumenti informatici per i quali l'aiuto dei genitori, e in particolare delle mamme, era spesso indispensabile.
Tutto questo senza menzionare il senso di claustrofobia che il convivere di molte persone in spazi limitati ha prodotto e che è stato oggetto di studi psicologici. È un fatto che la convivenza prolungata e forzata può portare all’accentuazione di differenze nel temperamento e all'ingigantirsi di tensioni che possono sfociare in veri e propri maltrattamenti fisici e addirittura giungere a uccisioni, delle quali le donne sono state spesso vittime, come hanno abbondantemente testimoniato le cronache degli ultimi mesi.
Non possiamo neppure sottovalutare il fatto che specialmente le donne si sono di fatto maggiormente preoccupate di proteggere da possibile contagio altre persone a rischio del proprio nucleo familiare, esponendo quindi maggiormente se stesse.
Passando ora a considerare le strutture sanitarie, dobbiamo notare che, a parte una quota di personale medico femminile direttamente impegnato nelle terapie (e quindi sullo stesso piano degi uomini) le donne rappresentano una percentuale molto elevata del personale infermieristico e di quello addetto ai servizi e alle pulizie degli ospedali. Tutte queste persone godono di condizioni e apparati di protezione molto meno efficaci e quindi sono di fatto più esposte ai rischi di contagio.

Quali sono le ragioni che, secondo lei, accomunano le donne nel mondo rispetto a questa gamma di violenze?
Fra le ragioni che ho menzionato ne esiste almeno una di natura molto generale, ed è il fatto che ancora oggi nel mondo la posizione sociale della donna è considerata di livello inferiore a quella dell'uomo. In molti settori professionali le differenze retributive e i livelli gerarchici privilegiano nettamente gli uomini rispetto alle donne, mentre esistono occupazioni che sono a larghissima prevalenza femminile come, ad esempio, quelle dei servizi domestici. In generale le donne sono occupate in forme di lavoro precario o "informale”, vale a dire non protetto da contratti o impegni aventi riconoscimento giuridico. Ciò comporta che una donna che svolge uno di questi tipi di lavoro sia più facilmente esposta a perderlo improvvisamente e senza protezioni o indennità, trovandosi quindi costretta ad adattarsi a qualunque lavoro pur di assicurarsi un reddito che, in molti casi, è addirittura l'unico e/o il principale su cui può contare la famiglia. Basti pensare alla vasta popolazione multietnica di domestiche e badanti che vivono in queste condizioni e che, oltretutto, sono più esposte ai rischi di contagio perché di solito sono loro che tengono i contatti con il mondo esterno.
Ovviamente, anche nel caso dei maschi conosciamo pratiche di sfruttamento e caporalato che utilizzano manodopera di migranti senza documenti, ma nel caso delle donne questo fenomeno si è ormai trasformato in una specie di soluzione di una precisa crisi sociale presente in tante società europee, ossia la carenza di personale domestico di servizio e di persone interamente dedicate all'assistenza degli anziani.
Va da sé che questa inferiorità e precarietà delle mansioni si traduce facilmente in occasione di abusi e maltrattamenti di varia natura a cui possono essere facilmente indotti i "padroni".o i“superiori”, indipendentemente dal fatto che possono essere uomini o donne.

Accanto alle situazioni che ha illustrato, le donne durante la pandemia hanno continuato a procreare affrontando molti ostacoli e difficoltà…
È interessante notare che, fra le ragioni dell’incremento della violenza sulle donne dovute al Coronavirus, rientra quella che è ormai chiamata la “violenza ostetrica”. Con questo termine si indicano tutte quelle mancanze e limitazioni che molto spesso accompagnano il periodo di gravidanza, parto e puerperio nella situazione attuale; ecografie, controlli, analisi che prima erano di routine oggi non di rado vengono omesse per ragioni varie che vanno dall’impossibilità di praticarle per ragioni la disponibilità del personale addetto alle difficoltà delle donne incinte di accedere alle strutture a ciò deputate. Si è notevolmente accresciuta la necessità di razionalizzare i parti e programmarli secondo un calendario prestabilito, producendo un incremento abnorme dei parti cesarei, mentre le precauzioni di isolamento per evitare i contagi hanno ridotto al minimo la possibilità di ammettere la presenza di familiari attorno alla partoriente. Tutto ciò per non parlare di situazioni più eccezionali, come quelle delle terapie fetali o di assistenza ai neonati in condizioni di vita precarie che oggi incontrano particolari e inedite difficoltà appunto a causa delle misure imposte dalla pandemia che, una vola ancora, finiscono col risultare una forma di violenza sulle donne.

Grazie ai suoi studi ha potuto osservare i differenti comportamenti e/o reazioni delle donne in vari paesi. Quali sono le sue considerazioni, anche sulla base delle conversazioni che ha avuto con molte di loro?
È vero. Sono stata la vicepresidente della Federazione Internazionale di Filosofia (FISP) e attualmente sono presidente della commissione di Bioetica e etica delle scienze della stessa FISP e questo mi ha permesso di entrare in contatto con molte situazioni e persone in varie parti del mondo e ho conosciuto anche le loro esperienze, confidenze e riflessioni. Il panorama è molto vasto e, in primo luogo, posso rilevare che in molti casi queste forme di violenza sono subite con una certa rassegnazione, ossia come prezzo da pagare per sopravvivere, per aiutare la famiglia o per assicurarsi una piccola base economica di indipendenza per salire nella scala sociale o aiutare i figli a farlo. Peraltro ho notato un crescente senso di ribellione verso la discriminazione femminile e una specie di orgoglio di appartenere al “genere” che vuole e può rivendicare i suoi diritti. È nata su questa spinta la ideologia del gender , secondo la quale i concetti di uomo e donna sono semplici costrutti sociali, negando le radici biologiche, fisiologiche, psicologiche, che di fatto caratterizzano i due sessi, sottolineano la loro complementarità, senza peraltro costruire discriminazione nei confronti di nessun essere umano. In particolare, rientra in una prospettiva di questo tipo considerare anche le responsabilità che abbiamo nei confronti delle generazioni future, che è prezioso considerare come formate dai nostri figli e dai figli dei figli, in una continuità nella cui visione si può dare al nostro futuro il sapore di una speranza, piuttosto che quello di un improponibile ritorno a una situazione precedente a questa pandemia che ci ha marcato in profondità come, finora, avevano potuto fare soltanto le grandi guerre e rivoluzioni.

Intervista a cura di Tiziana Bartolini pubblicata anche in noidonne.org

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