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Giorgio Macellari. Senologo. Dottore in Filosofia

Nel suo vasto “Corpus” librario Ippocrate sentenziava che il primo impegno del medico fosse di non arrecare danno. In realtà questa raccomandazione – tradotta dai latini nel noto “primum non nocere” – non fu mai espressa in termini così netti. Se ne ritrova la traccia nel I libro delle “Epidemie”, dove Ippocrate scrive: “Nelle malattie devi avere presenti due cose: essere utile o non nuocere”.Se l’aforisma mantiene la sua forza, credo tuttavia che ci sia un dovere morale che lo precede: meritare fiducia.
C’è un legame fortissimo fra medico e malato, per certi versi misterioso. Lo prova il fatto che se una persona sta male per strada e viene assistito da qualcuno a lui sconosciuto, ma che gli si presenta come medico, quella persona si abbandonerà a lui, certo che – in quanto medico – farà ciò che è giusto per assisterlo.
Cosa alimenta quell’abbandono, se non la fiducia? Ma cosa significa, per un medico, meritare fiducia? Significa avere i requisiti che la gente si aspetta da un medico: gli si chiede di esibire un profilo morale speciale, proprio quello che ci garantisce che non farà danni.
Il medico gode di poteri e privilegi, ad esempio può infliggere dolore (come quando riduce una lussazione o buca una vena), limitare la libertà altrui (ad esempio imponendo un trattamento obbligatorio), usare farmaci tossici e strumenti lesivi (a volta letali), conoscere aspetti riservati della vita privata altrui, esplorare e maneggiare parti intime del corpo, essere immune da ritorsioni penali a fronte di eventi avversi imprevedibili legati a un uso appropriato delle sue competenze. Ma, in cambio, la società pretende che poteri e privilegi siano vincolati a limitazioni, affinché egli resista alla tentazione di abusarne.
In altri termini, malati e cittadini si aspettano che il medico onori gli obblighi morali che garantiscono l’apertura di un credito di fiducia. Quali? Eccone alcuni:promuovere l’interesse del cittadino e della società anteponendo l’altro all’io; prendersi cura di chi soffre come se fosse il suo custode; essere competente; onorare lo spirito della scienza e contrastare le pseudoscienze; rispettare l’autonomia dei pazienti e rafforzarla; dire la verità; non violare la riservatezza; non giudicare né discriminare; non compiere abusi sessuali; saper comunicare bene; insegnare ai futuri medici sia la tecnica che l’etica, cioè il saper fare e il saper essere. Un medico che non promette di servire questi doveri non merita fiducia.
La medicina non può essere esercitata senza una relazione fiduciaria autentica. È anzi impensabile. Per questo meritare la fiducia è il primo dovere morale di ogni medico, il padre legittimo di tutti gli altri.

Questo articolo di Giorgio Macellari è stato pubblicato il 15/10/23 sul Corriere Salute.

Chirurgo e senologo, Giorgio Macellari è fondatore e attivamente partecipe della sezione emiliano-romagnola dell'Istituto Italiano di Bioetica. Presenza sempre significativa nei panel del Festival di Bioetica, anche quest'anno parteciperà alla due giorni di Santa Margherita Ligure (27-28 agosto 2022) portando una riflessione circa la responsabilità etica in medicina.
Nel "Manuale di etica per il giovane medico", il saggio che lei pubblicò nel 2016 firmandolo con Umberto Veronesi, il sottotitolo recita "Rivoluzione etica in medicina". In che modo le riflessioni alla base di questo libro rispondono al tema della 'Responsabilità' affrontato nell'edizione 2022 del Festival di Bioetica?
Il territorio della Responsabilità etica in ambito medico è talmente ampio che meriterebbe un intero Festival dedicato. Tralasciandone il dominio più “macroscopico” – che include il welfare, le istituzioni, le politiche sanitarie e la medicina territoriale (per citarne alcuni capisaldi) –, mi soffermerei piuttosto sui più “microscopici” ambiti relazionali, quelli che si articolano soprattutto nel rapporto diretto fra medici e malati: un rapporto a tal punto ricco di implicazioni etiche ed emotive da bilanciare gli aspetti puramente tecnico-scientifici che fanno da supporto alla medicina “evidence-based”, integrandoli opportunamente con quelli “moral-based” e alimentando il fiume ippocratico – inesauribile per definizione – della medicina rivolta alla persona.
Solo una visione della medicina imperniata su questo concetto, infatti, può generare il concetto di “responsabilità”. Un concetto filosoficamente ambiguo e debole, visto che la più comune definizione lo vincola alla capacità di prevedere le conseguenze delle proprie scelte e di rivederle alla luce di quelle: a parte l’impossibilità umana di fare previsioni attendibili sulle conseguenze a lunga scadenza, va aggiunto che nessuna nostra azione ne ha di sole buone o dannose e, infine, che manca un consenso generale sui criteri per giudicare il carattere moralmente buono o cattivo di una qualsivoglia conseguenza.
Ciò sottolineato, se si vuole recuperare pienamente il senso della responsabilità morale in ambito medico – destinata a svanire, se dovessimo applicare la definizione sopraddetta – prendo come buona la concezione etimologica del termine che, dal latino “respondēre”, richiama il medico all’obbligo di dare una risposta ai bisogni della persona malata, ovviamente non solo quelli materialmente legati all’affezione oggettiva, ma anche a quelli implicati dalla sfera soggettiva, affettiva e afflittiva, con un inevitabile passaggio dalla biologia alla biografia. Oltre alle imprescindibili “technical skills”, quindi, il bravo medico deve incorporare anche le “moral skills”, integrando il saper fare con il saper essere. Lo sfondo di questa rivoluzione etica è la rappresentazione di un nuovo dovere morale del medico che vuole esercitare con pienezza il suo mestiere, quello di curare conoscendo la persona malata nella sua profondità esistenziale. Come amava ripetere Umberto Veronesi “Bisogna amare la gente se si vuol fare il medico”, a conferma che per dare sostanza al concetto di responsabilità è necessario comprendere anche i bisogni più intimi, compresi quelli spirituali, delle persone che soffrono. Con una laurea in Filosofia, oltre che in relazione alla sua lunga esperienza di medico, quali osservazioni si sente di fare affrontando il tema della Responsabilità in campo medico?
La mia passione filosofica – che ormai sta sempre più mutando in un interesse professionale – mi fa pensare alla Responsabilità in un’accezione particolare, richiamata dal ricordo di un grande film (ormai dimenticato) del regista svedese Ingmar Bergman “Il posto delle fragole”. Il suo protagonista, il settantottenne batteriologo professor Borg, si sta recando in treno a ritirare un prestigioso premio accademico per il suo giubileo professionale. Durante il viaggio si addormenta e, nel sogno, vede sé stesso entrare in un’aula universitaria dove un uomo cupo gli chiede, minaccioso: “Qual è il primo dovere del medico?” Il professor Borg, ammutolito e spaventato, non riesce a rispondere. Ma prima di riprendere coscienza e svegliarsi dal terribile incubo gli viene urlata in faccia la risposta: è chiedere perdono. Ma quale sarebbe il “peccato” che il professor Borg dovrebbe farsi perdonare? L’incompetenza, secondo il regista, cioè gli errori e i danni commessi per causa sua. Chiedere perdono significa allora ammettere di non sapere, la massima virtù socratica. Volendo interpretare in modo più elastico il pensiero di Bergman, si può immaginare che il professor Borg debba chiedere perdono per la presunzione – comune a molti di noi medici – di credere di poter davvero esaudire la domanda di ascolto e di attenzione insita in ogni relazione di cura. O, ancora, per il torto di non aver mostrato lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare su chi soffre, come se fosse un figlio proprio. Insomma, per aver dimenticato la nostra umanità.
In questa interpretazione si può scoprire cosa significa essere malati. La malattia smette allora di essere un’immagine radiografica, un vetrino colorato, una fotografia endoscopica. E si fa sofferenza. Ma anche rivoluzione copernicana che scalza dal fulcro del mondo un sistema tecnico-sanitario impersonale e riporta il malato-persona al centro di tutti gli interessi.

Guardando al personale sanitario e anche alla cittadinanza, a suo modo di vedere la pandemia ha avuto un'influenza nell'idea di salute e di Responsabilità?
La pandemia ha impartito una serie di lezioni sonore alla nostra irresponsabilità. Prima lezione: lo “spillover” (il salto di specie del virus da certi animali a noi) non è causato dall’ambiente, ma dal nostro comportamento smodato; quel salto ci ha anche mostrato che la salute umana è il risultato a intreccio di molteplici e delicati equilibri che coinvolgono l’intero ecosistema, cui dobbiamo maggiore rispetto. Seconda lezione: nei momenti critici la pandemia ha obbligato a scelte tragiche in merito alla distribuzione delle risorse, ad esempio dei respiratori nei reparti di rianimazione: questo ha fatto ripensare il sistema sanitario, a dove dirigere gli investimenti per la salute collettiva e a quanto più finanziare la ricerca biomedica; ci ha anche costretti a cambiare alcuni paradigmi della medicina, passando dall’onnipotenza della tecnologia alla più umile saggezza del limite e riscrivendo il ruolo cruciale del medico d’oggi: sul quale non incombe l’obbligo di salvare la vita a tutti i costi e che quindi si deve porre al servizio prioritario non della vita, ma delle persone. Altra lezione: la pandemia ha riportato brutalmente la morte fra noi, una morte di massa alla cui vista è stato impossibile sottrarsi; così la morte abbiamo dovuto guardarla in faccia senza infingimenti; anche i riti funebri sono stati annullati, la gente ha dovuto officiare da sola, perché per ragioni profonde consideriamo un errore e un’incompiutezza non poterci accomiatare da chi ci è stato caro: evidentemente dobbiamo dare forma concreta ai nostri lutti, perché non rimangano come fantasmi che non riusciamo a seppellire. Poi c’è stata la lezione sul conflitto fra libertà individuale e responsabilità collettiva, combattuto fra coloro che si vaccinavano per proteggere anche gli altri e coloro che si rifiutavano invocando il presunto diritto di potersi comportare come più gli piaceva, nell’indifferenza verso le vite altrui.
Insomma, in tema di responsabilità la pandemia ci ha insegnato parecchie cose. Alcune semplici, come il corretto lavaggio delle mani o l’uso di una mascherina, capaci di salvare vite. Altre assai più complesse, ad esempio che la medicina non è onnipotente e che il suo ruolo non è evitare la morte, ma offrire alle persone gli strumenti per vivere a lungo e in salute; che la vita è fragile e che per proteggerla occorrono competenze e cooperazione; che per vivere è necessario morire, ma che proprio per questo la vita è un’occasione da non sprecare e un invito a ribaltare la scala delle nostre priorità, scremando il poco che è indispensabile dall’immensità delle cose superflue e rimettendo i valori che contano in cima alla scala.
Adesso viene la prova più difficile, conservare il ricordo di queste lezioni e tenercelo stretto perché, come ammoniva il filosofo George Santayana: “Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”.

Intervista a cura di Tiziana Bartolini

 

I “Giovedì della Bioetica” sono l’esito di un progetto culturale destinato a un pubblico eterogeneo di studenti, studiosi e intellettuali, ma anche di semplici cittadini, di curiosi, coraggiosi e trasgressivi, per sensibilizzare la gente sull’importanza del sapere scientifico e della riflessione filosofica.

Gli Autori e i Temi delle conferenze hanno come sfondo comune l’interrogazione sulle implicazioni etiche delle innovazioni scientifiche e biotecnologiche, all’insegna del motto

Tutto è consentito all’uso della Scienza per l’Uomo. Nulla è consentito all’uso dell’Uomo per la Scienza.

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