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Napoli, via Girolamo Santacroce 15

La riflessione di Paolo Treglia sulla caccia: può essere un’attività socialmente accettata e tollerata?
COMITATO EUROPEO DIFESA ANIMALI ONLUS

Può la caccia essere un’attività socialmente accettata e tollerata? E’ questo il tema al centro del dibattito in vista del referendum abrogativo che in questo periodo si sta svolgendo in Italia dopo il fallimento di quello del 1990. Da un lato ci si chiede se la caccia possa essere etica e se debba essere considerata una pratica obsoleta. Dall’altra ci si schiera in difesa di essa dichiarandola un rituale per tradizione con la precipua funzione di equilibrare gli ecosistemi, assecondare la biodiversità, monitorare le popolazioni animali. “Etica” e “caccia” sono diventati, nella moderna pubblicistica, termini antitetici ed in stridente contraddizione fra loro. Spinti da opposti estremismi culturali agli antipodi l’uno rispetto all’altro, i significati connessi oggi all’idea dell’ “uomo cacciatore” ed a quella dell’ “uomo etico” appaiono inconciliabili e destinati a non trovare un comune denominatore. Da un lato, una visione antropocentrica della vita che vede Il cacciatore un coscienzioso “fruitore di una risorsa naturale”; in contrapposizione a quella biocentrica che aprioristicamente rifiuta il concetto di “predazione”. Che si tratti di volontà e non di necessità è un fatto ormai risaputo. Si suole prioritariamente giustificare la caccia sostenendo che fosse una pratica per procacciarsi cibo che nel tempo pur avendo perso qualsivoglia connotazione di tipo alimentare sia diventata un culto da portare avanti per tradizione. Alla caccia ora è stata aggiunta, corredandola di razionalità, una dimensione gestionale. Se anche oggi è ritenuta un’attività socialmente riconosciuta e relativamente tollerata in cui si utilizza una risorsa naturale rinnovabile, ossia la fauna selvatica, se alla base c’è il concetto di “predazione”, è possibile parlare di “etica venatoria”? Eppure, Porfirio (1) ci informa che i primi Greci, gli Egiziani e i Persiani non solo non mangiavano carne e dunque non cacciavano ma non li sacrificavano nemmeno agli dei. Tali testimonianze farebbero dunque decadere la ricorrente giustificazione della caccia come un’attività praticata nella crudezza della lotta per la vita, quando la morte dell’animale era l’unica condizione per la sopravvivenza umana. Se anche fosse stato, quindi, è certo che nel tempo ha poi progressivamente perso non solo la connotazione di basilare mezzo di sopravvivenza, ma anche qualsivoglia giustificazione di tipo alimentare. Parallelamente sono svaniti i rischi di un tempo ad essa connessi data la totale disparità di forze in campo. Ma i cacciatori continuano a parlare della caccia come un culto da sempre esistito ignorando altri grandi intellettuali che l’hanno sempre ritenuta una “selvaggia dilettanza”. In un discorso etico sulla vita, la questione degli animali e quella della caccia non poteva non interessare il pensiero filosofico, “un bagaglio culturale “distrattamente o (deliberatamente?) rinchiuso nel dimenticatoio, scritti di straordinaria rilevanza che, partendo dal riconoscimento dell’altro, conducono a ripensare non solo il ruolo della ragione-anima nell’uomo [tipica del cacciatore] e l’immagine dell’uomo in relazione alla biosfera e all’universo fisico, ma anche il significato di uguaglianza, la sua possibile estensione ad ogni soggetto di una vita, la riscrittura dello stesso contatto sociale, il riesame del senso dei nostri percorsi di civiltà che, dominata dalle barbarie della ragione strumentale , conosce il come, senza sapere più il dove andare (2). Nel descrivere la caccia Platone (3) fa riferimento a tutte le forme di cattura comprendendo il mondo animale terrestre, marino e gli alati fino ad arrivare a quella dell’uomo associando la caccia alla guerra, ai furti e ai rapimenti e mette in luce con un discorso ironico l’assurdo criterio giurisdizionale che vede la legge tutelare l’aggressore. Un criterio contro ogni forma di logica della pietà che dovrebbe invece prevedere la tutela del più svantaggiato. E’ di svantaggio che bisogna parlare ma non di debolezza. Non potremmo pensare che forse l’uomo disarmato per natura sia stato creato per essere cacciato dal momento che l’animale caccia per natura? L’uomo d’altronde per farlo ha bisogno di reti e di armi ed è aiutato dai cani per fiutare le prede. La natura invece ha dato agli animali le armi per ridurci in loro potere. Il modo di combattere degli animali sostiene Plutarco (4) è senza inganni a differenza dell’uomo che utilizza congegni per attirarli, intrappolarli o sparargli da lontano. Annamaria Manzoni (5) ci propone un interessante rappresentazione del binomio caccia-guerra collegando a queste due attività umane quel coraggio e quella maestria che sia il soldato sia il cacciatore si sentono di dover dimostrare durante le rispettive attività. Lo fa anche citando Tolstoj riportando la sua affermazione “la guerra è la continuazione della caccia” (6). La Manzoni scrive: “La caccia è bella come la guerra perché è esaltante e ciò che è rimasto di essa è solo la propensione e il desiderio di uccidere che è una componente imbarazzante da ammettere, ma purtroppo presente nel vasto repertorio di attitudini umane: fanno capo a una complessa interazione tra elementi innati e ambientali, tra genetica ed educazione, contesto di vita e culturale. I cacciatori al di fuori della loro rassicurante e autoreferenziale cerchia, non escono volentieri allo scoperto con l’esaltazione della loro attività perché forte è la contropropaganda; e cosi si va a caccia perché amanti della natura, in missione ecologica, si pratica la caccia per smaltire una dilagante sovrappopolazione. Insomma a quanto pare se degli istinti di aggressività, violenza, e crudeltà delle nostre pulsioni di morte non siamo in grado di liberarci, abbiamo comunque una vaga consapevolezza che si tratti di disvalore, fonte di imbarazzo. E allora bisogna come sempre distorcere con il linguaggio la realtà in modo da salvaguardare la nostra immagine di buoni cittadini del mondo […] ci sarà sempre qualcuno disposto a crederci, altri che troveranno comodo fingere di farlo”(7). Di quale crescita interiore si parla se l’irresistibile richiamo per la caccia è legata a combattere su un campo di battaglia in cui il nemico scappa soltanto e in cui c’è solo il bello della scontata vittoria. La caccia appare in questo caso come un’ammissione di colpa e priva di regole morali. “Uccidere” è sempre un gesto immorale e giustificarlo per motivi infondati rende questo gesto un abominio. Lo aveva compreso il cacciatore pentito Leone Tolstoj in “Contro la Caccia e mangiar carne”(1895). La guerra, che si è sempre proclamata come liberatrice dei popoli, e la caccia, che assurge al suo scopo di “equilibrare gli eco sistemi” hanno come elemento in comune l’uccisione e la morte, aspetti questi ultimi eticamente inaccettabili. Quale tipo di equilibrio dovrebbero ripristinare i cacciatori se gli esemplari da cacciare vengono inseriti negli ecosistemi in modo artificiale per ripopolare gli habitat. A ciò si deve aggiungere che, se anche fosse necessario provvedere ad arginare un fenomeno dilagante, di sicuro l’uccisione non sarebbe una scelta etica. Se lo sterminio viene riconosciuto come una pratica necessaria dovremmo allora giustificare tanti eventi del passato che oggi ripudiamo. Ci sono popolazioni che crescono in modo incontrollato eppure non si adoperano gli stessi sistemi. Della caccia primigenia l’uomo di oggi ha ereditato solo un elemento, che c’è sempre stato e presumibilmente rimarrà: l’istinto di predazione. Ciò è dovuto al fatto che c’è ancora una cultura radicata allo “specismo” che considera l’animale secondo quella idea che da Aristotele a Cartesio e passando per tutto il pensiero religioso ha posizionato gli animali all’ultimo gradino della scala sociale. La legalizzazione della caccia è la stessa che ha contraddistinto altre attività di sfruttamento e sopraffazione come la schiavitù, lo sfruttamento minorile, l’olocausto e di esempi ce ne sarebbero ancora. Ma oggi tutto questo indigna l’opinione pubblica ed è diventato illegale. C’è da ammettere purtroppo che nascono prima le abitudini e poi vengono le leggi. E’ dunque necessario partire da un discorso etico e non giuridico. Le organizzazioni istituzionali pro caccia ammettono che “La caccia non è una necessità, non è una professione e non è uno sport e che la si esercita per passione, ma seguendo criteri basati sulla scienza” (8). E’ giusto uccidere senza che si ravvisi una necessità nel farlo? Si parla spesso del leone e la gazzella ma c’è da dire che qui la lotta è tra pari e che si uccide per necessità.
Siamo convinti che le più antiche civiltà del Mediterraneo abbiano operato con la finalità di creare un mondo giusto e invece la schiavitù, lo sfruttamento minorile, la sottomissione delle donne, che negli anni sono stati superati (ma non in tutto il mondo), ci hanno dimostrato che forse qualcosa è andato storto e adesso ci ritroviamo a dover prendere in mano quelle bussole che impazzite ci hanno condotto verso una direzione contraria. Ciò che è legale non è sempre legittimo e dunque se la caccia lo è, non trova in questo la sua legittimazione. Non più dunque la conoscenza del dominio ma dell’ascolto e del dialogo di chi non ha o non è riuscito ad avere i mezzi per gareggiare nella caotica giungla della vita. Non si tratta di debolezza, quella dell’animale o degli altri uomini ancora sottomessi; l’animale, ad esempio, a corpo nudo può sopraffare l’umano essendo egli stesso dotato per natura di armi per difendersi.
Aldilà dell’aspetto etico finora discusso, nella pratica ci troviamo a dover affrontare la questione ambientale che vede la natura contaminata dalle pallottole e dalla polvere da sparo impossibili da rimuovere dopo una battuta di caccia; nonché, l’iniquo atteggiamento degli Stati che finanziano con denaro pubblico le battute di caccia. Il bene comune dovrebbe essere condiviso da tutti e invece lo si utilizza per pochi. Se dunque sappiamo che agli albori le società non avevano la necessità di cacciare e di cibarsi di animali; se l’intervento sugli habitat è artificioso dal momento che questi vanno ripopolati per consentire l’espletamento di un’attività dilettevole; se decade il principio della legittima difesa dal momento che si uccidono animali che non attaccano; se l’ambiente è continuamente contaminato dai residui di polvere da sparo e proiettili, possiamo solo concludere che non è più sopportabile chi giustifica questa “irragionevole pratica” ma che “abbiamo bisogno di una visione del mondo capace di rischiarare e ingentilire questo plumbeo tempo: giustizia contro ferocia, memoria contro oblio; una visione del mondo che combatta la follia del sangue e della morte, che combatta le sofferenze e le elimini” (9) in linea di principio con il concetto di “utilitarismo” del filosofo e giurista britannico, Jeremy Bentham (10).

Paolo Treglia

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Note

1) De Abstinetia Paris 1995
2) I filosofi e gli animali di Stefano Diodati Agireora Edizioni
3) Leggi, VII, 823 b-824°-b. “la caccia è attività propria di uomini inoperosi e indegna di lode” Dfr. Platone, Epinomide, 975 c “Nonostante la sua varietà e tecnicità, non si può certo dire che la caccia produca grandezza d’animo e sapienza”.

4) Plutarco, Gryllos, in L’intelligenza degli animali e la giustizia loro dovuta, Isonomia Editrice, Este 2000
5) Capitolo 9. “finché non lo vedrai cadere esangue – la caccia e la guerra” in “In direzione Contraria” edito da Sonda
6) Ibidem pag. 114 

7) Ibidem pag. 116

8) Accademia ambiente foreste e fauna del Trentino, 2011

9) Pag. 15 I filosofi e gli animali di Stfano Diodati Agireoraedizioni 2010
10) An Introduction to the moral and principles of legislations” (1781)

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