- Pasquale Giustiniani, Un inedito di Mario Coltorti
Mi è stato dato d’incrociare scientificamente Mario Coltorti una decina d’anni fa, all’interno delle attività dell’Istituto Italiano di Bioetica-sezione Campania, di cui divenne Presidente onorario, e, poi, nel CIRB, al cui secondo Quaderno Mario collaborò con un saggio intitolato Libertà di Autodeterminazione: Medico, Paziente, Società. Più volte mi ha suggerito letture e abbiamo programmato eventi di bioetica, anche nella sezione san Tommaso della Facoltà di teologia dell’Italia Meridionale, dove ha collaborato nel Laboratorio di bioetica promosso dal Seminario permanente per gli studi storico-filosofici. L’ho rivisto e ascoltato da vicino, l’ultima volta, a Palazzo Serra di Cassano il 15 ottobre del 2008, in occasione della presentazione del libro del Prof. Aldo Di Mauro, Il dolore. Perché?, in cui fummo entrambi relatori. Ma, soprattutto, mi è rimasta impressa una circostanza di qualche tempo prima: l’avevo sentito per via telefonica, in un’inaspettata, breve e commovente telefonata sul cellulare, lanciatami da Mario poco prima di entrare in sala operatoria per l’intervento chirurgico poi subito: aveva sentito il bisogno di ascoltare, mi disse, la mia voce prima di entrare in quella sala da cui non poteva prevedere se e come sarebbe uscito e, in particolare, mi chiese di pregare.
Dal punto di vista della bioetica medica, nell’ultimo periodo della sua vita Mario insisteva molto sulla comunicazione nel rapporto tra medico e paziente in medicina clinica, ovviamente ai fini della determinazione di quell’evento complesso e multifattoriale che per lui è la malattia. Com’è noto, egli moveva critiche alla Evidence-Based-Medicine, ritenuta soltanto in parte utile in quanto essenzialmente comportante una “sterilizzazione” del vocabolario della reale condizione patologica del singolo. Non è possibile dedurre rigorosamente, osservava, un’adeguata pratica terapeutica a partire da risultati di indagini controllate, valutati con precise metodologie statistiche, ma di fatto “categorie quali-quantitative” astratte, soprattutto lontane dal peucliare rapporto individuale, tu a tu, con quel singolo determinato paziente portatore di quello specifico dolore e sofferenza. Di qui la preferenza, oltre che per gli approcci hard, per tutti gli approcci soft, per esempio per la psicologia, per il counseling filosofico, e soprattutto per la narrazione in medicina. Ri-apprendere a far narrare lo stato di malessere e benessere e narrare a nostra volta quanto ci è stato raccontato. Il tutto in controtendenza, gli osservavo, dal momento che proprio in filosofia da diversi decenni era stata teorizzata la fine delle grandi narrazioni. Il reticolo argomentativo del suo teorema era più o meno il seguente: se la relazione medica è un rapporto tra persone co-implicate; se l’obiettivo è quello di realizzare una vera conoscenza del singolo paziente, degli eventi esistenziali che ne hanno spesso partecipato nel determinismo della malattia, della sua evoluzione, del suo stato attuale, bisogna aprirsi con fiducia alle metodologie narrative, come del resto avevamo insieme fatto nel corso di alcuni incontri seminariali promossi da Umberto Giani al nuovo Policlinico. La conoscenza, anche quella medica, non avviene solo tramite la scienza, ma anche attraverso l’arte e la letteratura, ribadiva Mario, quindi anche attraverso il racconto, dal quale la malattia “oggettiva” può essere meglio osservata in relazione con le situazioni socio-economiche, culturali, ambientali e familiari più diverse.
Questa tesi medica, filosofica e bioetica, della centralità del rispetto della persona nei rapporti interumani, di cui il rapporto terapeutico è soltanto una delle tante esemplificazioni, mi parve interessante anche ai fini della formazione bioetica delle giovanissime generazioni e, per questo, gli chiesi di scrivere per la mia collana BioeticaMente - edita da l’Isola dei ragazzi di Napoli e destinata alla formazione bioetica di ragazzi e pre-adolescenti - un racconto o qualche caso su cui collaborare, in vista di un prodotto editoriale da scrivere a due voci. Poiché la collana prevede sempre un narratore ed un bioeticista, ci accordammo che stavolta avrebbe fatto lui il narratore ed io sarei dovuto intervenire con box ed approfondimenti più specificamente bioetici. Mario, poco prima di morire, mi consegnò un testo, che spero di poter pubblicare con le mie promesse integrazioni. Gli aveva aveva dato il titolo “La malattia di Anna”. Quasi una sceneggiatura, piuttosto che un racconto, la cui tesi è condensabile in quell’aforisma che Mario spesso ripeteva e registra anche in quest’inedito: “Esistono vere malattie importanti spesso senza disturbi - e ne ho viste molte - e disturbi, anche rilevanti, senza malattie organiche”. Mi piace richiamare le battute iniziali che descrivono il contesto del racconto di Mario, che è insieme reale – il protagonista è infatti un vecchio internista di 81 anni, laureato in medicina il 1949, stesso anno di Mario - ma anche un ideal-tipo del modi di porsi del medico, certamente molto al di fuori dei canoni e dei tempi di una strategia aziendale che definisce livelli essenziali e calcola tempi-pazienti in maniera a volte maniacale: «Studio di un internista libero professionista, decoroso ma modesto. Non persona che apre la parta (lo fa lo stesso medico), né segretaria. Non PC sulla scrivania per evitare la distanza tra il medico e il paziente. Il medico fa annotazioni relative ai pazienti su un raccoglitore a fogli grandi mobili. Prende appuntamento solo se sa di avere a disposizione almeno 1 ora e ½ da dedicare al paziente. Durante la visita stacca il telefono». Di fronte a sé il vecchio medico ha appunto Anna, appena sedicenne, quasi una sua nipote, scrive, accompagnata dal padre medico e dalla zia nubile, che chiede di poter parlare da sola col vecchio internista ed a cui egli domanda da subito il permesso di usare il tu. A lei fa raccontare liberamente la situazione così come lei la vive, non senza verbalizzare lui stesso i punti salienti di quanto ha ascoltato. Il racconto termina con una diagnosi che è una raccomandazione al contesto familiare ed affettivo, un esempio di “arte medica” alla Coltorti, piuttosto che una ricetta farmacologica o una richiesta di ulteriori visite specialistiche o, come ripeteva Mario, di TAC, TIC, TUC.
La breve storia si chiude con alcune indicazioni per me, che vanno significativamente nella linea di una discussione collegiale in vista di una diagnosi con-divisa tra tutti i soggetti che partecipano all’atto terapeutico (operatori sanitari/pazienti, operatori sanitari tra loro e con altre persone in diverso modo legate al paziente, compresi gli eventuali outsiders, pur nel rispetto della privacy). Ma soprattutto l’importanza ed il modo di attivare la “narrazione” come mezzo di connessione medico-paziente, ovvero come Mario ha scritto in altri saggi e ripetuto in corsi e conferenze, come strumento per realizzare una dimensione connessionista e transpersonale fra la realtà del medico e quella del paziente, per individuare il significato ed i fini della relazione terapeutica, cioè la diagnosi e gli indirizzi di cura, anche e soprattutto, specialmente in molti pazienti, “prendersi cura di”. - Rossella Bonito Oliva, Ricordo di Mario Coltorti
Ricordare non è la semplice operazione del riportare alla mente qualcosa, qualcuno. Nel ricordare entrano in gioco la capacità di richiamare in vita, rendere nuovamente presente o anche rendere onore, in cui alla rappresentazione, nel caso del qualcuno e non del qualcosa, si lega un fascio di elementi razionali e irrazionali che necessariamente deforma o distorce, nella combinazione di memoria e oblio. Ricordare significa passare attraverso il flusso di ricordi, l’elaborazione del lutto che consola i sopravvissuti della perdita. Ma l’elaborazione è appunto una forma di compensazione di una perdita, il desiderio di superare un limite – tema caro a Mario Coltorti – che è appunto la morte di una persona che manca.
Su questo punto mi vorrei soffermare per riflettere sul significato di qualcosa che accompagna in sottofondo la nostra vita. La morte è il venir meno di una persona, l’azzeramento di ogni possibilità, percorso, movimento della vita. Ma ancora più significativamente la morte è l’impossibilità di ogni possibilità, un momento della vita individuale. Noi siamo qui in tanti a ricordare Mario Coltorti, le sfaccettature molteplici della sua vita, dei suoi percorsi, infine lo si ricorda attraverso una riflessione finale che vorrebbe mantenere in vita il suo contributo alla riflessione bioetica.
Ciò che io mi chiedo è se tante voci di vivi possano compensare una perdita, possano veramente consolare o restituire una persona.
Ecco, la mancanza di Mario Coltorti mi ha rievocato una novella di Pirandello, “Una giornata” ripresa in maniera originale dai fratelli Taviani nel film Kaos. Il personaggio, Pirandello, torna nella sua vecchia casa paterna, lì gli compare la madre morta con cui avvia un dialogo. La madre lo vorrebbe consolare, ma Pirandello risponde che nessuna consolazione è possibile se è vero, come è vero, che ciò che manca non è la possibilità per i vivi di pensare e ricordare una persona morta, ma quella di essere oggetto di pensieri di qualcuno che è venuto meno. E’ questa assenza che fa morire qualcosa anche in chi rimane in vita, perché nulla potrà sostituire quella possibilità, quel dialogo, quel legame che solo la vita rende possibile. Io credo che su questo bisogna riflettere, sulla nostra impotenza a compensare questo spazio, anche quando le voci si moltiplicano, anche quando cerchiamo di tenere in vita un percorso teorico. E’ questo il dramma della morte, in cui muore ogni volta anche una parte di noi, quella tenuta in vita non dalla chiacchiera, ma dal riconoscimento di una presenza che ha segnato la nostra vita, ne ha attivato una possibilità che, senza quel particolare incontro, non si sarebbe data.
Ricordando, infatti, ci si rende responsabili dinanzi ad un altro che non può rispondere o replicare, che non è nostro interlocutore, ponendo una difficoltà forse più grande che in qualsiasi altro rapporto interpersonale. Ho incontrato Coltorti al CIRB e lì un uomo schivo mi si è avvicinato per chiedermi di mio fratello medico con cui aveva a lungo lavorato soprattutto nei corsi di formazione. Un uomo schivo, appunto, quasi un vecchio saggio con un volto carico di un’emotività e di una radiosità che difficilmente si possono dimenticare. Ne è nato un confronto, abbiamo lavorato insieme per un convegno “ La cura delle donne”, del quale e per il quale ho discusso a lungo con lui come in ogni passo che io personalmente ho fatto nella bioetica. Mario mi ha accompagnato con mano nel difficile sentiero della medicina, mi ha suggerito spunti, mi ha spinto alla riflessione su quel difficile rapporto medico-paziente al quale mi avvicinavo da profana, con astratte teorie filosofiche.
Eppure Mario si definiva un “professore pentito”, ma ho conosciuto poche persone come lui in grado di condurre socraticamente al cuore dei problemi. Credo che abbia reso per me evidente il paradosso del professore pentito, là dove il suo pentimento era per il ruolo istituzionale più che per la responsabilità dell’insegnamento. Dialogando con Mario ho toccato con mano la fecondità del metodo socratico, ho imparato a riflettere diversamente, a allargare le mie prospettive sulla relazione con l’altro, non solo quella tra medico e paziente. Per me Mario è stato un maestro di pensiero, oltre che di medicina.
E qui vorrei ricordare un altro momento della personalità di Mario Coltorti. Non solo la sua capacità di far giocare natura e cultura, spontaneità e finezza di modi, ma anche quella di rivitalizzare la cultura andando a scandagliare tutte le stratificazioni delle espressioni umane. E’ sufficiente leggere i suoi contributi alla riflessione bioetica per capire come per lui scavare nelle etimologie dei termini più semplici, madre, farmaco, ecc. fosse la porta di accesso alla difficile combinazione di vita e forma, di bios ed ethos. La forma appunto come figura della sofferenza, del dolore, della gioia in cui si dischiude ogni tensione comunicativa dell’uomo. Nella storia delle parole Coltorti scavava la storia della configurazione di un’esperienza all’interno della quale ognuno sente dolore, amore, gioia ancor prima di accedere all’universo comunicativo. Una sorta di zona grigia in cui Coltorti cercava da medico un accesso all’universo del malato, da bioeticista un accesso al pluriverso mondo della vita umana. E tutto questo derivava da un’indomita curiositas, non quella superficiale e sterile, ma una sorta di spinta alla conoscenza di altri, di altro, sorretta quasi da un’infantile meraviglia per il mondo. Eppure credo che di difficoltà di rapporti umani, di malattie ne conoscesse tanto da non doversi, potersi meravigliare. Ma qui sta la sua qualità umana, ogni “persona” mi diceva aggiunge una sfumatura a quell’universo comune che condividiamo e in cui viviamo. Ogni persona è un assoluto novum che nessuna conoscenza può aiutare a raggiungere o sostituire. Non gli mancava d’altro lato una solida base culturale sulla base della quale vagliare e misurare ogni cosa, piccola o grande che si presentasse. Più volte Mario faceva riferimento alla sua fede, ma in maniera problematica e in un articolo nel volume da lui curato sul fine vita, confessava quasi di invidiare coloro che si affidano totalmente ai riti, alle consuetudini di una fede praticata. La sua era una fede personale che non alterava la sua capacità di avvicinarsi a posizioni diverse, nello spirito illuminato di chi riconosce all’articolazione del mondo umano una ricchezza, piuttosto che un ostacolo. Una possibilità, quella che non potremo avere essendo venuto a mancare lui.
Negli ultimi colloqui che ho avuto con lui, quando era ormai segnato il suo destino, la sua consapevolezza era alta, mi disse che non aveva rimpianti, avendo realizzato nella sua vita tanto e avendo avuto infinite occasioni e incontri. Riteneva necessario perciò prepararsi alla morte attraverso le letture, trovando nei testi sacri una via per dar senso a ciò che difficilmente ha un senso per l’uomo, la morte. Serenamente accettava la naturalità di un passaggio, assaporando il gusto della vita anche nel momento-limite della morte che della vita è momento. Dinanzi all’abisso del nulla, o di un’altra vita, sembrava cogliere la pienezza della vita che gli era stato dato di vivere. E’ stato questo il momento in cui più forte si è fatta per lui la saldatura tra natura e cultura, là dove la cultura è anche ciò che agli altri ci lega rendendo meno disperato quel passaggio, nella continuità di una riflessione che sul limite della morte si è esercitata e si è continuata ad esercitare anche quando la si è voluta esorcizzare, dimenticando il valore terapeutico della cultura.
In questo caso ricordare, rendere onore nella prospettiva di un affetto che viene a mancare, di un interlocutore che non risponde più, significa mantener vivo l’insegnamento di Mario Coltorti nella cornice umana in cui ha declinato il suo sapere, i suoi valori, la sua professione, il suo mondo. Ma tutto questo è un rendere onore, non può arrogarsi il potere di mantenerlo in vita, se non vogliamo smarrire il senso pieno di “persona” coltivato da Mario.
A noi rimane il compito, quasi il dovere, di non smarrire la sua testimonianza tanto più preziosa in un organismo di bioetica in cui sarà necessario continuare a tentare il difficile legame tra vita e forma, tra bios ed ethos senza smarrire il desiderio di ascoltare e di testimoniare che ha caratterizzato la presenza di Mario Coltorti tra noi. - Eugenio Capezzuto, Ricordando ... Mario Coltorti
Un grande abbraccio a Mario, l’uomo, il medico che ha dato lustro alla scienza italiana contribuendo alla conoscenza della fisiopatologia del fegato ed all’identificazione delle transaminasi. Ad un così illustre scienziato avrei dovuto rivolgermi chiamandolo correttamente Professore Emerito Mario Coltorti, ma da lassù, ne sono sicuro, egli mi avrebbe rimproverato. Uomo semplice e profondamente umile voleva infatti che lo si chiamasse sempre per nome.
Ricordo che, il 15 ottobre del 2008, in occasione della presentazione del libro del Prof. Aldo Di Mauro, Il dolore. Perché?, presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici (Palazzo Serra di Cassano), il coordinatore Prof. Raffaele Pempinello, invitando Mario a dare inizio alla conferenza, lo presentò al pubblico con il titolo di Professore Emerito. Egli con molto garbo e simpatia, e con quel sorriso dolce che sempre accompagnava ogni sua parola, così esordì: «Anzitutto debbo rimproverare quelli che mi definiscono sempre professore emerito. Io non posso considerarmi un professore emerito, perché ho anticipato il mio prepensionamento all’Università di cinque anni, e sono andato via dall’Accademia sbattendo la porta. Quindi sono un ‘professore pentito’, non un professore emerito». «Sei più che Emerito», tuonò la nostra Antonella, suscitando un calorosissimo applauso di consenso di tutti i presenti.
Mario è scomparso nella notte tra il venerdì 2 e sabato 3 gennaio 2009 a Napoli. Era nato a Civitanova Marche il 24 marzo 1926. Laureato in medicina il 17 novembre 1949, fu dapprima allievo di Cesare Frugoni a Roma e poi a Napoli, negli anni '50, di Flaviano Magrassi nell'Istituto di Patologia Medica dell'Universita' Federiciana dove, insieme a Giuseppe Giusti ed a Fernando De Ritis, nel 1955, scoprì le transaminasi, pietra miliare nella diagnostica delle malattie del fegato. Ottenne la libera docenza in Chimica Biologica ed in Patologia Speciale Medica, e fu Professore Ordinario in Semeiotica Medica (1971-1980), poi in Patologia Medica (1981-1985), poi in Clinica Medica (1986-1994) nell’Università di Napoli.
I suoi interessi scientifici e clinici principali: Malattie del fegato e dell’apparato digerente; Malattie del connettivo; Metodologia diagnostica; Pedagogia Medica; Etica Medica. Su tali argomenti ha pubblicato oltre 300 lavori, di cui molti su riviste internazionali.
Ha partecipato nella duplice veste di coordinatore e di docente in numerosi Corsi annuali (1998-2005) di Etica Medica per sanitari dipendenti dell’ASL Napoli 1, del cui comitato etico era componente. Docente anche in molti corsi di formazione per il personale sanitario dei vari Presidi Ospedalieri e Distretti Sanitari di Napoli. Docente ai Corsi Annuali di “Formazione in Bioetica” (2002-2008) organizzati dall’Istituto Italiano di Bioetica – Campania, di cui è stato Presidente Onorario, e dall’Istituto nazionale dei Tumori di Napoli. Negli ultimi anni, il suo interesse alla medicina si era spostato su alcuni aspetti legati all’accanimento diagnostico e terapeutico; il suo ultimo seminario su tale problematica è stato realizzato recentemente a Napoli, all’interno del Comitato Interuniversitario di Ricerca Bioetica (C.I.R.B.) di cui era membro.
Dopo questa breve biografia, che gli era dovuta, infatti, per la sua modestia, molti non conoscono tutto il contributo che egli ha dato alla scienza medica, mi piace porre in risalto un aspetto fondamentale della sua persona.
Alla schiettezza e al rigore scientifico Mario univa una grande fede in Dio. Nel primo incontro del corso di formazione in Bioetica presso l’ospedale Pascale (15-24 maggio 2008) “Il futuro della Bioetica”, nella premessa alla sua relazione dal titolo La complessità vissuta dal credente cristiano, intervenendo sul complesso rapporto tra Scienza e Fede, dichiarò: «sono un credente ovviamente, essendo un credente parlo da credente, credente che ha una certa visione. Introduco questo discorso in termini di linguaggi perché se non usiamo un certo linguaggio è difficile riuscire a valutare le cose che vogliamo dire». Mi colpì. Era la professione di fede di uno scienziato che crede nella scienza, che ha combattuto per una medicina più umana ed in grado di implicare tutti gli aspetti dell’esistenza umana nell’analisi di uno specifico stato di malattia, e che tenta di conciliare questa fonte del sapere con quella più strettamente religiosa in senso lato. Uno scienziato che è consapevole dei limiti della scienza: «Mi dispiace dirlo, diceva di recente, l’approccio illuministico della sola ragione non sa dare risposte soddisfacenti a domande fondamentali dell’uomo sulla sofferenza, il dolore, il male…», e allo stesso tempo crede nella potenza della fede in Dio.
Ma chi è Dio per Mario? Così egli rispondeva: «Dio, che nessuno ha potuto vedere, fin da quando Mosè dettò le tavole della legge morale, possiamo solo con imperfetti termini umani definire “potenza infinita”, che si esprime con un atto libero dello spirito dando inizio al tempo e al cosmo, ma che, nel medesimo atto diventa “debole”, volutamente “debole”. È l’evento iniziale della kénosi come atto d’amore, dando libertà ed autonomia alla progressiva evoluzione, di cui non ha prioritariamente imposto la perfezione, per cui bene e male, perfetto ed imperfetto si fondono, cose e viventi nascono, si perfezionano, si trasformano e muoiono, tanto a livello cosmico che delle varie specie viventi che degli umani. Dio che non condiziona l’evoluzione, ma non è assente nel corso delle vicende umane e cosmiche. Dio né “geometra” né “burattinaio” né “demiurgo”: a tutto ciò in cui si è manifestato, è data la libertà nel modo di esprimersi – anche di negare Dio – e di evolvere, che contempla la possibilità del male – fisico e morale – e dell’angoscia, da Caino ed Abele fino ad Auschwitz e oltre. Dio, che non si è allontanato da ciò cui ha dato inizio e, nel momento in cui l’umano è giunto alla sua maturità, tramite la Rivelazione ricongiunge a sé il tutto, spirito e materia, attraverso l’Incarnazione (secondo cruciale momento della kénosi), ulteriore espressione della “debolezza” di Dio. Da quel momento: possibilità libera di cammino dell’umano verso Dio attraverso la fede e la carità (“extra charitatem nulla salus”) ben oltre la ragione, portando con sé il fardello della propria finitudine, imperfezione; ed insieme il tormento e l’angoscia esistenziale tra l’aspirazione alla conoscenza ed al bene e l’impossibilità di realizzarli nella loro pienezza. Nasce così il dilemma etico: può l’umano accettare la propria finitudine o, al contrario, con un atto dettato dalla “volontà di potenza” rifiutare Dio e dominare gli altri e la natura, realizzando magari un temporaneo piacere personale, ma a spese di ulteriori sofferenze e dolori per gli altri? Oppure, attraverso un atto d’amore, riconoscere il volto dell’Altro, riconoscersi fragile come l’altro, soggetti l’uno ai bisogni dell’altro e nel volto dell’Altro intuire il volto di Dio?»
Mario sceglie la via della carità. Il suo Dio è il Dio rivelato da Gesù di Nazareth, il Verbo Incarnato che ha parlato con i peccatori, che ha mangiato con loro, che è vicino a coloro che soffrono, che è contro i farisei ipocriti, e soprattutto che ha nascosto la verità ai sapienti e l’ha rivelata agli umili ed ai semplici (Luca, 10; Matteo, 11; Marco, 9).
«L’ha nascosta a me, diceva Mario, e l’ha rivelata invece a un poveretto che va in Chiesa e che recita solo meccanicamente l’Ave Maria. Probabilmente ne sa più di me. Ed io penso di potere amare questo uomo proprio per la sua ingenuità che lo porterà più vicino a Dio rispetto a me».
No, Mario, Dio ha rivelato la sua sapienza anche a te perché sei semplice e umile di cuore. Lo testimonia la tua vita, la tua schiettezza, il tuo rigore scientifico, il tuo anticonformismo, la tua modestia, la tua grande umanità. Grazie del tuo insegnamento. Un fraterno abbraccio da tutto il direttivo dell’Istituto Italiano di Bioetica – Campania. - Maria Esposito, Strettamente personale, in ricordo di Mario Coltorti
L’idea di ricordare Mario Coltorti e Sergio Piro su Notizie dal Distretto ci ha visto immediatamente concordi e l’idea si è fatta subito parole. Credo, come i colleghi, di essere partita solo dal calore di quelle vite e da quello che ci hanno lasciato.
“Mario”, perché guai a chiamarlo Professore o a dargli del Lei, lo avevo conosciuto in Azienda, qualche tempo fa, durante un percorso formativo sul consenso informato, durato circa un paio di anni. Ci eravamo trovati insieme nel gruppo dei docenti, credo immeritatamente per quel che mi riguarda.
Sempre puntualissimo, aspettava con pacata rassegnazione docenti e discenti antropologicamente estranei al senso della puntualità.
Non gli interessava che, la prima volta, non mi fossi aggregata al coro dei saluti, a volte un po’ ossequiosi, di coloro che lo avevano conosciuto come docente universitario e ne conservavano un rispettoso e ammirato ricordo. Non parlava con piacere della carriera accademica e con orgogliosa amarezza accennava a come avesse preferito “per tanti motivi” andare in pensione.
Era solo “Mario”, e si poteva parlare di tutto, di etica, di senso della cura, di comunicazione con i pazienti, di filosofia, di fede e di arte. Non ostentava mai ed entrava nelle discussioni in punta di piedi, proponendo con leggerezza incredibili ragionamenti. Restava in aula per tutta la giornata di formazione, che si ripeteva secondo un modulo pressoché identico in ogni ospedale della ASL. Eppure lui prestava sempre attenzione agli interventi degli altri docenti, attento come se li sentisse la prima volta.
Ascoltavo senza mai noia le sue riflessioni, in nessun caso intricate, filtrate invece da sapienza e sensibilità rare, ricomposte con limpido e acuto linguaggio, pronunciate con accento un po’ straniero, delicatissimo.
La passione con la quale reindossava i panni del docente consentiva a quella conoscenza e saggezza - verso la quale sembrava profondamente schivo - di offrirsi agli altri come un dono modesto ed anzi con l’apprensione di toccare aspetti forse in contrasto con i convincimenti dei presenti che però, rassicurava, potevano essere tranquillamente archiviabili come liberi pensieri di un vecchio professore.
Se mi è lecito esprimere un parere, non credo fosse molto interessato a realizzare compromessi con se stesso né con la comunità scientifica a cui era comunque fortemente legato. E non so su quali domande esercitasse ancora il suo pensiero, ma mi colpiva come durante lo scambio di opinioni ogni sua affermazione fosse sempre seguita da silenzio, come se sottoposta a rigorosa verifica e poi richiamata a rientrare al suo posto, in quel sé profondo e silenzioso, per me inaccessibile.
Avvertiva le pericolose derive di una scienza medica ipertecnologica, le fratture tra i corpi separati del sistema, l’asimmetrica relazione con l’ammalato. Le sue lezioni sull’etica rappresentavano la dolorosa consapevolezza delle contraddizioni che già si palesavano sul tema delle scelte terapeutiche e della libertà del soggetto, che di lì a poco sarebbero esplose nelle odierne e pericolose contese etico-giuridiche e religiose sul corpo e la persona.
Nel ricordarlo attraverso queste semplici occasioni di vissuto con lui non so io stessa evitare la tentazione di ritenere che il rigore professionale ed etico di Mario - appena intravisto - fosse un lusso che i contemporanei non possono consentirsi, chiamati a realizzare funambolici compromessi tra bisogni, risorse e vincoli di ogni tipo, in sanità come altrove. Ed è molto faticoso allontanarsi dalla cifra civile e culturale del nostro tempo, per la quale il rigore, l’agire dotato di senso prospettico, il senso pubblico del bene sono esercizio retorico se non coniugati ll’interno dei limiti posti alla nostra agibilità dalla sana concretezza e dal senso della relatività.
Non mi convince però l’idea che i grandi debbano essere solo modelli e noi realizzazioni in scala. Anzi, pensare e agire secondo le opportunità in transito, ridotte al senso o al vantaggio che solo il tempo e lo spazio in permanente trasformazione possono definire, ci rende davvero liquidi, e le forme del soggetto, più che riduzioni in scala, copie contraffatte realizzate male. Pezzottate.
Mario andava via salutando con rispetto e sempre da solo, a piedi, ché non amava essere accompagnato in auto da qualche parte.
Lo ricordo nella sua giacca blu, allontanarsi con la cartella, la schiena appena curva, a passo sicuro.Febbraio 2009
*L’autrice è sociologo alla Asl Na 1 Centro, Distretto Sanitario 50