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di Luisella Battaglia

Il caso della piccola Indi Gregory non può non riproporre alla nostra memoria le vicende dolorose di Charlie Gard e di Alfie Evans del 2018. Pur nella diversità delle condizioni, le domande che ora come allora ci poniamo sollevano i massimi problemi della bioetica: il conflitto tra sacralità e qualità della vita, i rapporti controversi tra morale e medicina, la relazione dialettica tra etica e diritto. Chi può stabilire i limiti di una cura? Qual è il potere degli ospedali sui pazienti? Quali i diritti dei genitori? Siamo tutti d’accordo sul rifiuto dell’accanimento terapeutico ma i casi in questione costituiscono un esempio emblematico di come il principio del rifiuto, nella sua applicazione a casi concreti, possa dar luogo non solo a conflitti insanabili ma, mi sentirei di dire, a nuove forme di accanimento. Superato il clamore dello scontro ideologico, che ha accompagnato una vicenda umana di straordinaria delicatezza e complessità, è forse giunto il momento della riflessione. Riflettendo, ad esempio, sull’ordinamento giuridico inglese, si potrebbe ricordare che risale al XVII secolo la tesi per cui la responsabilità per la cura e la tutela del minore ricada in parti eguali sia sui genitori che sul sovrano che agisce nella veste di parens patriae (genitore della patria). Il giudice del caso in questione, sentenziando che il trattamento non sarebbe stato nel miglior interesse di Indi, non avrebbe pertanto rispettato la condizione di pariteticità. Al di là dell’estrema difficoltà della definizione del concetto di best interest, assumerebbe grande rilievo il mancato coinvolgimento dei genitori in una decisione che riguarda la salute del minore e che sarebbe loro diretta responsabilità garantire. Per questo non ci si può non chiedere per quale ragione i genitori di Alfie siano stati di fatto privati della loro responsabilità genitoriale. Quale la loro indegnità? Quale il pericolo che si intendeva evitare? Si danno casi - classico è quello dei testimoni di Geova – che richiedono l’intervento di un giudice a tutela della vita del minore che sarebbe esposto a un rischio letale se prevalesse la volontà dei genitori che rifiutano per ragioni religiose le trasfusioni. Ma si tratta palesemente di casi ben diversi da quello di Indi. Qui il pericolo era rappresentato non dalla morte, con l’affermazione del criterio del favor vitae, ma dal rischio che le cure intensive potessero trasformarsi in accanimento terapeutico, e quindi in trattamenti sproporzionati, gravosi e di documentata inefficacia. Il problema più difficile concerne il se e il quando interrompere le cure una volta iniziate ed è appunto in tal caso che può verificarsi un altro accanimento, quello familiare, pur animato dalle migliori intenzioni e motivato affettivamente, ma esposto potenzialmente anch’esso a un’ostinazione irragionevole, specie nei casi di prognosi infausta a breve termine o nell’imminenza della morte. Un accanimento, occorre aggiungere, che rischia di fondarsi su una idea proprietaria della filiazione e che tende ad assegnare un peso assoluto alla volontà dei genitori, in competizione, ancora una volta, con medici e tribunali. E’ tuttavia quanto meno singolare che il rifiuto dell’accanimento terapeutico e il connesso timore dell’accanimento familiare, abbiano finito per dar luogo, attraverso mosse successive, ad un nuovo accanimento, questa volta giudiziario che ha privilegiato in modo esclusivo il potere giuridico, assegnando, per dirimere una questione di grande rilievo etico, ai tribunali la parola finale. Una deriva, occorre aggiungere, preoccupante per un paese che ha avuto il merito di introdurre per primo l’habeas corpus. Basti pensare alla rigidità di un sistema che giunge a vietare ai genitori anche il permesso di riportare a casa la figlia o di trasferirla in ospedali di altri paesi pronti ad ospitarla, con una palese violazione del diritto di libera circolazione garantito dai trattati internazionali. Se la bioetica ha introdotto la ‘rivoluzione liberale’ in medicina con l’affermazione del principio di autonomia della persona, non più oggetto ma soggetto delle scelte terapeutiche, non si può non rilevare con preoccupazione una crescente attitudine statalista e paternalista, sia sul piano medico che burocratico. Al di là comunque delle diverse valutazioni, quello che è certo è che Indi, come per Charlie e per Alfie, è mancata l’alleanza terapeutica, il patto di fiducia tra medici e famiglia e non si è instaurata quella comunicazione tra i diversi soggetti che, prima di attivare meccanismi legali, avrebbe potuto forse consentire una condivisione sulle decisioni da assumere. Un esempio? L’”American Society for Bioethics and Humanity “parla di “Health Care Consultation”, una consultazione sulla cura della salute che intende rispondere alle domande poste dai singoli pazienti, famiglie, operatori sanitari al fine di risolvere i conflitti riguardanti le questioni di valore che emergono nello specifico caso clinico. L’etica assume un’innegabile rilevanza in tutte le situazioni in cui entrano in gioco le dimensioni esistenziali più profonde: nascita, malattia, sofferenza, dolore, morte. Ancora una volta appare decisivo il ruolo in ambito sanitario di uno spazio etico in cui diverse professionalità e competenze possano incontrarsi e collaborare per instaurare una comunicazione efficace, in grado di aiutare i genitori a condividere con i curanti un percorso etico che comprenda non solo le decisioni relative ai trattamenti ma soprattutto a sostenere il peso di scelte tragiche.

Articolo di Luisella Battaglia pubblicato in IL SECOLO XIX il 14 novembre 2023

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