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Sul tema della BELLEZZA si concentra la settima edizione del Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure, 24 e 25 agosto) organizzato dall’Istituto Italiano di Bioetica in collaborazione con il Comune di SML. Fiammetta Ricci, dell'Università di Teramo, porta il suo contributo con una relazione su 'La bellezza non si possiede, ma dice di sé oltrepassando i corpi'.
L'abbiamo intervistata a partire dalla citazione di Luce Irigaray che ha voluto quale introduzione al suo intervento "Oltre lo specchio, lo sguardo e l'esposizione: la "carezza-parola". Professoressa Fiammetta Ricci la sua riflessione prende le mosse da una considerazione che riguarda i corpi, intesi come "progetti vitali che oltrepassano la carnalità contingente" mantenendo la capacità della carezza come gesto d'accoglienza. Può darci ulteriori elementi di comprensione di quella che potrebbe apparire (erroneamente) come una contraddizione?
Il filo rosso che attraversa il mio intervento, e che nasce dagli studi sul corpo di cui da tempo mi sto occupando e su cui ho scritto alcuni libri, è una continua richiesta di analisi dialettica tra l’idea di una unità, compattezza e intrascendibilità del corpo, e il suo scheggiarsi, frantumarsi in atomi di senso, letture e sue applicazioni che ne smontano pezzo pezzo la complessità ed il potenziale onto-simbolico.
Ripensare il corpo nei suoi collegamenti con la bellezza, tema del Festival di Bioetica di quest’anno, non significa lasciarsi prendere dall’onda di una tematica che oggi fa tendenza, ma è piuttosto voler tornare ad un centro di irradiazione di significato, ad un con-testo in cui ogni parte, ogni sintomo, ogni segno, possa riscoprirsi simbolo. È il tentativo di lasciar affiorare un fondo in parte inattingibile; ma che, appunto per questo, esige il tentativo di recuperare la sua integrità di senso: materiale, razionale, immaginale, liminale e spirituale. Significa, in ultima istanza, ascoltare una voce che si fa appello e chiama ad una responsabilità condivisa sulla salvezza del mondo dal suo naufragio.
Traendo spunto dal libro di Luce Irigaray Elogio del toccare, molti problemi nascono da una mancanza di comprensione e di rispetto nella relazione tra corpi individuali che ci costituiscono e ci rappresentano come progettualità d’esistenze che si aprono ed alludono a ciò che le oltrepassa, sia esso inteso come spirito, come anima, o infinitezza d’altri come scriveva Levinas. Nella necessità, quindi, di ripensare il senso del corpo, e i significati simbolici dei linguaggi del corpo, la carezza, intesa come “gesto-parola”, è metafora di una relazione tra esistenze che ricercano un linguaggio di cura, di amore e di riconoscimento della libertà e della bellezza trascendente ogni materialità della carne, attraverso il significato etico e simbolico di corpi come doni reciprocamente in-toccabili, infungibili, non dominabili con qualsivoglia forza che ne violi anche la più piccola vulnerabilità, e la più impalpabile bellezza. Mi sembra una risposta alla cultura così diffusa della violenza, dell’aggressione, del voler piegare ciò che è imperfetto e fragile a canoni estetici, e quindi anche etici, determinati e prestabiliti quasi sempre da criteri di consumo, di mercato, o di potere. Luce Irigaray è convinta che questa civiltà sottoponga il nostro corpo e il nostro spirito ad aggressioni permanenti, e si chiede se, abituati come siamo all’uso di mediazioni tecnologiche, sappiamo ancora cos’è un corpo che vive. Siamo ancora capaci di raggiungere l’altro/l’altra senza intaccarne o forzarne alcuna direzione, seguendo le rughe della sua fragilità?
Ecco che la carezza, come linguaggio di relazione profonda nella sua dimensione apparentemente solo epidermica, mi è sembrata proprio il rovesciamento dell’appropriazione, del controllo, della forza di chi piega e modella anche il bello, e con esso gli altri due universali fondamentali, cioè il vero e il buono. In che modo la bellezza può salvare "dall'anonimato dell'omologazione"?
Riappropriarsi della relazione vitale con il corpo proprio e con quello dell’altro, liberandone tutti linguaggi e le possibilità di senso, è un percorso necessario che inizia dall’oltrepassamento dell’egemonia dello specchio di Narciso e dall’esposizione di corpi decontestualizzati dal sé sulle piazze telematiche. Nell’“Elogio del toccare” di Irigaray c’è, appunto, tutta l’intenzione etica del superamento del possesso, dell’aggressione o della non accettazione del corpo che siamo e che parla per noi, in noi e attraverso di noi.
Certo bisogna comprendere di che bellezza parliamo, da dove sorge, cioè quale ne è il suo momento o punto sorgivo? In cosa, o in base a cosa la riconosco come tale? Sebbene rispondere a questi interrogativi non sia possibile in poche battute, credo personalmente che la bellezza non sia mai possesso, presa che blocca, pugno che domina, mano che traccia ferite sulla pelle del corpo e dell’anima. Bellezza è un respiro che ci attraversa e che si espande in una relazione tra persone, o tra esseri viventi, o tra me/noi e l’universo. Bellezza può essere la meraviglia indecifrabile dinnanzi a ciò che si fa presente, o che si fa assente e che ci manca. Bellezza può essere “La carne stessa che diventa spirituale pur restando carne”, un divenire che superi l’inerzia, il vuoto, l’uniformità dell’ovvio. Bellezza per Irigaray è un soffio che tocca attraverso parole che tacciono nella carezza, in un “toccare” mai autoritario o egemonico. In un amare a te, cioè in una comunicazione d’amore che non possiede l’altro, nemmeno per farne oggetto d’amore, ma che si apre e si dilata al suo poter essere, al suo potere fiorire, al suo poter ri-nascere. “Nel comunicare allora interviene il toccare a, un toccare che rispetta l’altro, che dispone per lui/lei un’attenzione speciale, anche carnale. Un incontro tra sguardi, corpi, percezioni ed emozioni che non può ridursi a cattura, appropriazione, seduzione, ricatto. Un altro aspetto che affronta sono le connessioni tra bellezza, rispetto e liberazione. Pensa ai modelli estetici di riferimento per le donne o in generale?
Nel mio intervento al Festival di Bioetica prenderò come altro spunto di riflessione le tesi di Jean Baudrillard, che riguardo alla omologazione tecnoscientifica e virtuale delle nostre vite, offre riflessioni interessanti sebbene spiazzanti. Baudrillard ricorre, ad esempio, alla nozione di “transestetica”, (collegata ad analoghi fenomeni di “transpolitica”, “transessualità” e “transeconomia”), come nuova dimensione in cui ogni principio fondativo si rovescia in una pervasiva autoproliferazione ed autoreferenzialità. Il risultato è una condizione confusa in cui non ci sono più criteri di valore, di giudizio, o di gusto. E dunque anche la stessa funzione normativa del¬l’alterità sprofonda in una palude di indifferenza e di inerzia. Il destino del corpo è in quest’ottica il riflesso e il luogo in cui si compie questo processo di desostanzializzazione simbolica e di rivestimento funzionale e narcisistico. Il corpo non è più né carne, né forza-lavoro, né prigione dell’anima. È un segno dei segni: solo superficie, erotismo, sessualità, piacere. Il corpo come “carnaio dei segni” è la conseguenza di quella società dei simulacri a cui fa costante riferimento, cioè una società in cui predomina l’egemonia seriale dell’algoritmo, del tempo reale, della virtualità, in una parola del simulacro.
Credo che questa ipotesi transestetica, per quanto possa sembrare paradossale, abbia già alcuni riscontri nella realtà odierna, con riflessi più significativi sulla rappresentazione estetica femminile e del femminile, ancora molto condizionata da rappresentazioni e figure simboliche di matrice patriarcale. Il corpo femminile erotizzato, ad esempio, continua ad essere oggetto, merce, attrattore ed amplificatore sociale di consenso/consumo. Ma il problema non è nemmeno solo questo.
È certamente evidente che le donne, come anche alcune fasce sociali, o persone in condizioni di vulnerabilità, sono ancora oggi oggetto di una molteplicità di forme, esplicite o implicite, di violenza, psicologica, fisica, affettiva, etica ed estetica,e dunque richiamare l’attenzione al gesto-parola della carezza, dal sapore quasi anacronistico, può essere una forma di rivolta non violenta ad ogni cultura di prevaricazione del più debole, alle logiche di controllo biopolitico sui corpi, alla mistificazione della bellezza che salva confusa con una bellezza che condanna, giudica, esclude, mortifica, e uniforma per essere accettati. Accarezzare quindi qui significa “stare attenti alle qualità velate nella vita comunitaria, qualità che leggi e vita civile dovrebbero garantire come proprie, sottratte alla violenza di un quotidiano che non si cura di intersoggettività, alle violenze di un uso utilitario (che si tratti di commercio in senso stretto o commercio del desiderio sessuale) sottratte ad uno sguardo o a un uso non preoccupati del rispetto dell’altro”.
E nell’attuale mercato dei corpi come simulacri di modelli senza originale, che inseguono un’estetica di conformità e di serialità consumistica, permeando di sé forme, stili e rappresentazioni collettive, significa chiedersi: dov’è bellezza che salva dall’anonimato dell’omologazione e dalla violenza dei forti sui vulnerabili? Cos’è bellezza senza responsabilità, rispetto, liberazione?
La risposta qui sta davvero nel senso del domandare, e nel cammino che siamo disposti a fare per
cercare questo senso.
Intervista a cura di Tiziana Bartolini

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