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“Figli di una coppia minore”. “Figli di serie B”. “Si fa battaglia sulla pelle dei minori”.
I titoli dei giornali evidenziano efficacemente la crescente preoccupazione nei confronti di un grande vuoto normativo: quello della tutela dei diritti dei bambini nati da coppie omosessuali, a cui viene assegnato uno status diverso, scaricando su di loro il peso di un differente trattamento riservato ai genitori a causa della modalità con cui sono stati concepiti. Si tratta della decisione del nostro governo di bocciare anche la possibilità di un certificato europeo di filiazione, che permetterebbe ai figli delle coppie dello stesso sesso il riconoscimento dei propri diritti in tutta Europa. Personalmente ho molti dubbi sul fatto che si possa in senso proprio parlare di un diritto a diventare genitori, essendo quella di procreare una facoltà che non si converte automaticamente in un diritto, ma sono assolutamente certa che esista un diritto di tutti i figli ad essere trattati in modo eguale, senza alcuna discriminazione legata alla loro nascita.
Al di là dei profili strettamente giuridici, sono ben note sul piano bioetico le ragioni che motivano forti riserve nei confronti della maternità surrogata o “gestazione per altri’, al fine di disincentivare il ricorso ad una procedura considerata nel nostro paese un reato: pericoli di sfruttamento, riduzione della procreazione a lavoro retribuito, mercificazione del corpo femminile, riduzione del bimbo a merce di scambio, etc.
La stessa maternità surrogata oblativa – compiuta a titolo gratuito nello spirito del dono, nell’ambito di relazioni familiari o amicali – non appare del tutto esente da riserve critiche, dal momento che il bimbo verrebbe comunque ‘ceduto’, trattato come un oggetto anziché rispettato come un soggetto-persona.
Entro questo quadro, teso a evidenziare il disvalore etico della gestazione per altri, non si è preso tuttavia in sufficiente considerazione un caso che non rientra affatto, a mio avviso, nella fattispecie della maternità surrogata.
Mi riferisco alle coppie di donne omosessuali che decidono di affrontare l’avventura della genitorialità avvalendosi di una tecnica – la fecondazione eterologa – che prevede l’intervento di un donatore di gameti che deve restare rigorosamente anonimo, in un ben definito quadro di garanzie, e in cui non si verifica in alcun modo un contratto di maternità con la connessa cessione del neonato alla coppia committente. Qui, innanzitutto, siamo dinanzi a una donna che a tutti gli effetti deve essere considerata madre biologica in quanto partorisce un bimbo che è e resta suo figlio e che quindi - secondo punto essenziale - non solo non è tenuta a consegnarlo ad altri – come nella maternità per contratto – ma lo tiene per sé, assistita dalla sua compagna che si impegna a prendersene cura. Vorrei aggiungere che numerosi e ben noti (basti pensare alla tenerissima storia di Zeffirelli) sono i casi di bimbi accuditi nella loro infanzia da donne, a vario titolo presenti e cooperanti, come nonne, zie, amiche di famiglia, ben capaci di dar loro affetto e assistenza.
Tali rilievi avranno, certo, scarso valore per tutti coloro che si oppongono per principio alle modalità artificiali della procreazione in nome della sua ‘naturalità’ o che difendono strenuamente la famiglia formata da un uomo e da una donna nella sua forma per definizione immutabile.
Resta tuttavia il fatto che, al di là dei valori in cui crediamo, non possiamo sottrarci al dovere di distinguere e non confondere sotto la stessa etichetta – la gestazione per altri - casi ben differenti per motivazioni e intenzioni.
Tenendo ben presente che al centro delle nostre preoccupazioni dovrebbe sempre essere la tutela del soggetto più debole e la difesa del suo migliore interesse.

Articolo di Luisella Battaglia pubblicato in Il Secolo XIX (16 marzo 2023)

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