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La Prof.ssa Grazia Zuffa - componente del Comitato Nazionale per la Bioetica, psicologa, PhD, svolge attività di ricerca e formazione nel campo dell'uso di droghe, delle dipendenze, del carcere - porta il suo contributo al Festival di Bioetica 2022 (Santa Margherita Ligure 27 e 28 agosto) affrontando il tema dello Spazio Etico in carcere. Le rivolgiamo alcune domande che possano introdurre l'argomento.

Prof.ssa Zuffa lei si è sempre interessata alla realtà carceraria, anche pubblicando dei libri. Quali sono (o sarebbero) a suo modo di vedere i benefici dello Spazio Etico nell'Istituzione carceraria?
La proposta dello Spazio Etico è interessante perché asseconda l’allargamento alla società del dibattito etico. Questa non è un’idea nuova, perché molti di noi che ci occupiamo di bioetica abbiamo sempre sostenuto che la bioetica non fosse solo un affare di esperti e di comitati istituzionali, ma che il corpo sociale dovesse essere coinvolto quanto più possibile. Lo Spazio Etico va oltre, perché offre un suggerimento operativo - si potrebbe dire - in tale direzione.

 

Che reazioni ha potuto riscontrare da parte della popolazione detenuta e da parte dell'apparato, pensiamo alle Guardie e agli operatori e operatrici sociali?
Rispetto alla problematica del carcere, la promozione di Spazi Etici sarebbe preziosa, proprio per la natura stessa del carcere, eticamente controversa. Si pensi alla questione cruciale dei diritti dei detenuti e delle detenute: questi dovrebbero essere tutti garantiti, alla pari degli altri cittadini, a parte ovviamente il diritto alla libertà personale. Ma ciò determina un conflitto, perché la perdita della libertà tende a comprimere tutti gli altri diritti: emblematico è il conflitto con il diritto alla salute, in particolare alla salute mentale. Tale conflitto, per di più, è in gran parte opaco, per il carattere stesso del carcere come luogo opaco di segregazione. In altri termini, i diritti dei detenuti/e rischiano di ridursi ad affermazioni di principio se le pratiche nel carcere non spingono in avanti il conflitto: in questo senso, la consapevolezza e la formazione etica di chi concretamente vive il carcere (detenuti/e, operatori della sicurezza, del sociale e del sanitario) è fondamentale e lo spazio etico, inteso come confronto fra i vari soggetti sulle contraddizioni che vivono nel quotidiano, può essere un valido strumento. Ovviamente, non ho avuto modo di sentire l’opinione dei vari operatori sulla proposta specifica dello Spazio Etico, ma nelle ricerche che ho condotto emerge in larga parte del personale (non in tutto) una tensione positiva per realizzare un carcere in cui si concretizzino i diritti costituzionali nel rispetto della soggettività delle persone detenute. Preciso che si tratta di operatrici donne, anche di diverse assistenti di Polizia penitenziaria.

 

Ha qualche considerazione specifica sulle donne detenute in relazione allo Spazio Etico?
Le carceri (o reparti) femminili, potrebbero funzionare come “laboratorio” di spazio etico nel carcere. Questo perché alcuni stereotipi del femminile tradizionale influiscono sull’atteggiamento verso le donne detenute, rendendo più pesante la sofferenza della carcerazione. Nelle nostre ricerche l’abbiamo chiamata la “sofferenza aggiuntiva”. In generale, nel carcere si attua un processo di “minorazione” della persona detenuta, conseguente allo stato di dipendenza totale in cui si trova. La “minorazione” è più accentuata per le donne però, e con caratteri differenti, perché si nutre della visione storica della donna come soggetto “debole", non pienamente responsabile, bisognosa di una guida (maschile). Non a caso, il carcere femminile di fine Ottocento e inizi Novecento si configurava più come un riformatorio, per riportare le donne nei binari stretti del modello femminile socialmente accettato. Oppure le donne finivano facilmente in manicomio. In altre parole, la tentazione “terapeutico-correzionale” attecchisce di più nel carcere femminile, e oggi le donne la vivono come una umiliazione e una perdita di sé (nel carcere mancano diritti e rispetto: sono le parole incisive di una donna detenuta, da noi intervistata qualche anno fa in un carcere della Toscana)".
Intervista a cura di Tiziana Bartolini

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