Per una storia del Festival di Bioetica.
Luisella Battaglia
“Prendi una cosa qualsiasi e scoprirai che è legata a tutto il resto”. L’affermazione di John Muir, un pioniere dell’ambientalismo, può aiutarci a capire che cos’è la bioetica, nella sua concezione originaria di “etica per il mondo vivente”. Tale era, in effetti, l’idea del teologo e pastore protestante Fritz Jahr che nel 1927 ne coniò il termine per designare i rapporti etici che avrebbero dovuto instaurarsi tra l’uomo, la natura e il mondo animale. L’imperativo bioetico cui pensava era infatti di trattare, nella misura del possibile, ogni essere vivente come un fine in sé e di non considerarlo solo strumentalmente, in funzione dei nostri interessi, piaceri, bisogni.
E’ quanto ha inteso ricordare, nelle sue diverse edizioni, il Festival di Bioetica. Troppo spesso, infatti, quando si parla di bioetica si fa riferimento alla sola pratica medica e alle questioni legate alle nuove possibilità offerte dalla cosiddetta ‘rivoluzione biologica’, attinenti l’inizio e la fine della vita, il rapporto medico/paziente, le frontiere aperte dalle nuove tecnologie biomediche. Se ci limitassimo, tuttavia, al solo ambito medico, rischieremmo di smarrire la portata autenticamente innovativa di un campo d’indagine che, sulla base delle conoscenze scientifiche, intende allargare le frontiere della morale oltre i confini tradizionali dell’umano. Il ruolo dell’ecologia, in questo senso, si è rivelato fondamentale. Intesa come “scienza della casa” - il termine ‘ecologia’ deriva dal greco oikos (casa) – ci consegna una visione del mondo come dimora comune, abitazione solidale, in cui l’uomo riconosce di essere parte integrante di in tutto che gli è legato inseparabilmente. Il livello di consapevolezza ambientale è certamente cresciuto negli ultimi decenni, sollecitato anche da eventi catastrofici. Mari, fiumi, montagne non formano soltanto il paesaggio che l’uomo ha abitato dalla preistoria ma sono anche le forze vive con cui si è misurato, creando la sua storia e alimentando la sua fantasia. Da qui il riconoscimento della forza dei legami tra cultura e natura. Per questo, prendere sul serio la gravità della crisi ambientale, uscendo da un quadro di riferimento angustamente antropocentrico, non richiede la rinuncia alla nostra eredità culturale e, in particolare, alla tradizione umanistica. E’ quanto ci fa scoprire anche un’altra scienza della vita con cui la bioetica ha uno stretto rapporto: l’etologia. La conoscenza ravvicinata della ricchezza e della complessità della vita degli animali ce li ha mostrati come creature senzienti, dotate di intelligenza, sentimenti, emozioni. Simili, dunque, a noi ma, insieme, diversi da noi, e quindi fonte continua di apprendimento, di meraviglia, di stupore. Ciò ha concorso a sviluppare una presa di coscienza delle loro sofferenze e del loro destino: per questo, oggi, la questione animale si impone come impegno ineludibile per la nostra stessa umanità. Ecco dunque profilarsi la “Nuova Alleanza” tra uomo e natura. La consapevolezza della comunità di destino terrestre ha costituito – ci ricorda Edgar Morin – l’evento chiave di fine millennio: occorre essere solidali con la terra perché la nostra vita è legata alla sua.
2017 La salute
Il primo Festival di Bioetica è stato dedicato a un tema cruciale: la ‘salute’. Negli ultimi decenni, l’idea stessa di salute è andata evolvendosi, riproponendo il significato aristotelico della “buona vita”: il bene possibile, in una rinnovata concezione del benessere, è infatti tutto ciò che, a partire dalle capacità e dalle opportunità materialmente offerte, è in grado di situare la salute all’interno di un progetto di autorealizzazione della persona. Come superando una soglia, si ha qui un innesto tra l’etica medica e l’antropologia filosofica e quindi un confronto con le diverse immagini dell’uomo, della sua origine e del suo destino che sono state elaborate nel corso della nostra storia. È a questo livello che un filosofo come Paul Ricoeur ha ritenuto possibile inscrivere l’idea di salute nel quadro di una riflessione sulla buona vita. Da qui una serie di interrogativi. Che legame porre tra la domanda di salute e l’auspicio di vivere bene? Come integrare la sofferenza e l’accettazione della mortalità con la nostra idea di benessere? Come raccordare la concezione del bene comune proposta dalla società in cui viviamo con la pluralità irriducibile delle visioni del bene-salute dei singoli individui? Nella prospettiva filosofica di Ricoeur, al “ben-essere” - esemplificato da massime quali l’ottimizzazione dei Qalys (acronimo di Quality Adjusted Life Years) proprie di una visione in senso lato utilitaristica - si sostituisce il “ben- vivere” in cui è esplicito il riferimento alla lezione aristotelica e a cui è propria la tensione verso l’autorealizzazione presente in ogni essere umano: un orizzonte popolato dai nostri progetti di vita, le nostre anticipazioni della felicità, in breve tutte le figure mobili di ciò che consideriamo segni di una vita compiuta”.
Se la cosiddetta “medicina dei desideri” promette di soddisfare ogni nostra aspirazione e ci incita anzi ad accrescere le nostre aspettative, il potere tecnologico spinge in direzione di un tipo di obiettivi che in passato erano peculiari delle utopie: il prolungamento indefinito della vita, il controllo del comportamento, le manipolazioni genetiche in vista del traguardo del post umano. Per questo occorre chiedersi se siamo veramente preparati a questa trasformazione radicale del mondo indotta dalla tecnica. Siamo all’altezza di questa sfida? Il monito di Heidegger ritorna nelle pagine di Hans Jonas, nel suo proposito di orientare, secondo una prospettiva etica in cui campeggia il “principio di responsabilità”, la grande marcia tecnologica dell’umanità. Un’umanità che riscopre sempre più i suoi legami con la natura e col mondo non umano con cui deve interagire responsabilmente. Ma questi legami, più che come contaminazioni da temere, cominciano ad apparirci come vincoli di solidarietà, di coappartenenza da riconoscere e da salvaguardare. Ne discende una visione allargata della comunità morale: le generazioni non ancora nate, la biosfera minacciata, la totalità a noi prossima delle creature viventi dovrebbero entrare nel campo etico. Ciò dovrebbe consentirci di cogliere l’intreccio indissolubile tra la protezione dell’ambiente e la salute individuale e collettiva. Da qui l’importanza delle azioni quotidiane e delle scelte individuali, a partire, ad esempio, da un’alimentazione sostenibile che dovrebbe riuscire a tenere insieme, in una vera e propria diet-etica, salute umana, benessere animale e tutela dell’ambiente. Un ampliamento di questo genere dell’idea di cittadinanza non può non implicare una coscienza allargata del mondo in cui viviamo: si tratta infatti di tutelare la qualità della vita non solo degli umani ma di tutti i viventi. Le recenti emergenze ambientali e i ricorrenti allarmi in campo alimentare ci hanno mostrato l’impossibilità di separare il nostro benessere da quello della natura e delle altre specie. Per questo, la stessa nozione di qualità della vita andrebbe ridefinita in relazione a parametri più ampi, che corrispondono agli interessi non solo dell’umanità attuale ma anche delle generazioni future, dell’ambiente e degli animali – i nuovi soggetti morali emergenti dalla bioetica.
Ne deriva un inedito rilievo conferito alle nuove dimensioni della responsabilità umana. Cambiamenti epocali? Forse. In effetti, se riuscissimo a guadagnare una prospettiva davvero globale, la nostra scala di valori subirebbe una radicale trasformazione: diverremmo responsabili delle sorti dell’aria, dell’acqua, della biosfera, in una parola della Terra. Ne discenderebbe, conseguentemente, la centralità da attribuire ai quei beni comuni-- aria, acqua, energia pulita --, che si presentano come la proiezione nel mondo dei diritti fondamentali che devono accompagnare ogni persona. Veri e propri diritti di una cittadinanza planetaria, ci mostrano, ancora una volta, la connessione con i valori e i temi cruciali della bioetica: il rispetto delle generazioni future, la tutela dei viventi.
2018 La felicità
La seconda edizione del Festival ha avuto per oggetto il tema della felicità declinato nelle sue diverse dimensioni – umana, ambientale, animale – secondo un’idea di bioetica globale che riguarda l’intero mondo vivente.
“Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima”. Le parole con cui Epicuro inizia la sua Lettera a Meneceo assumono un particolare significato in un momento storico, come l’attuale, in cui essere felici non è più solo un’aspirazione individuale ma si è venuto trasformando in un diritto/dovere collettivo. E’ così che gli economisti hanno cominciato a usare il termine ‘felicità’ al posto del Pil per misurare il benessere delle nazioni - si parla infatti di ‘felicità nazionale lorda’ - nella consapevolezza crescente che, come è stato efficacemente detto,” il Pil misura tutto, tranne le cose per cui vale la pena di vivere”. In questo appunto risiede il suo paradosso. Molti parametri infatti contribuiscono alla felicità, intesa non come uno stato, un fatto strettamente personale, ma una categoria più ampia di benessere che vada oltre la mera misurazione del reddito. Ancora una volta, la felicità è un concetto sfuggente e ancor più lo è la percezione della propria felicità: l’oggetto del desiderio è più che mai oscuro. In effetti, se la mentalità tecnologica ha identificato la felicità col benessere materiale, tale equazione sta entrando in crisi. Non perché l’uomo abbia rinunciato al benessere materiale ma perché, dopo averlo lungamente desiderato, ha scoperto che esso non produce affatto quella ‘felicità’ che ci si attendeva ma genera, in alcuni casi, addirittura infelicità. La tecnica ha messo a nostra disposizione una quantità di beni materiali che, nella sua storia, l’uomo non solo non ha mai avuto ma neppure ha mai supposto di poter avere. Eppure oggi l’uomo si sente più che mai insoddisfatto. Che cosa è successo? La civiltà contemporanea promette la soddisfazione di tutti i bisogni ma le tecniche, la mentalità con cui sono state usate e la temperie culturale che fa loro da sfondo, anziché soddisfare i bisogni in modo radicale, li hanno paradossalmente moltiplicati. I bisogni, insomma, vengono resi più prepotenti dalle stesse tecniche che vorrebbero soddisfarli. E’ un circolo perverso le cui implicazioni – antropologiche, etiche, filosofiche – cominciano a manifestarsi con estrema chiarezza.
Su questo i Greci avrebbero molto da insegnarci, a partire dalla sentenza di Eraclito: ”Difficile è la lotta contro il desiderio poiché ciò che esso vuole lo compra a prezzo dell’anima”. Non a caso in alcune correnti dell’etica e della filosofia politica contemporanee – mi riferisco, in particolare, all’approccio delle capacità nella formulazione offertane da Amartya Sen e in modo parzialmente differente da Martha Nussbaum - l’idea greca della “felicità” è stata riproposta nei termini di “vita fiorente” (flourishing Life) o di pieno compimento (Fulfillement) delle proprie capacità assumendo come punto di partenza l’insegnamento di Aristotele sviluppato nell’Etica Nicomachea. Se ne desume un importante criterio di giudizio: le conseguenze delle azioni o delle scelte pubbliche non devono essere valutate – come per gli utilitaristi o i welfaristi – in termini di utilità o di benessere ma alla luce di quell’ideale più ampio di “fioritura umana” o di pieno compimento delle capacità cui attribuiamo maggior valore. È questa, tra le altre, la novità di una lettura che evidenzia taluni elementi essenziali, come appunto l’idea di buona vita – da intendersi come completo sviluppo delle capacità umane – svolgendoli però in una direzione che ha al suo centro il valore irrinunciabile della libertà individuale e la rivendicazione di una libertà eguale per tutti e, soprattutto, animata da una forte ispirazione pluralistica. Ci si può dunque chiedere se una prospettiva incentrata sull’idea di “buona vita “possa suggerire talune direzioni utili per una bioetica liberale, rispettosa delle minoranze e delle loro preferenze morali e, soprattutto, desiderosa di sfuggire alle strettoie della classica dicotomia tra ‘sacralità’ e ‘qualità’ della vita. Vediamo brevemente in che senso. Innanzitutto per “buona vita” deve intendersi una vita realizzata in tutte le capacità che un essere umano ritiene importante realizzare. L’aristotelismo ci aiuta, in tal senso, a comprendere ciò che ci accomuna tutti e in un certo senso ci rende eguali, al di là delle differenze culturali. Il riferimento va certo ad una “identità di specie” che fonda su base bio-antropologica le capacità proprie dell’individuo umano in quanto tale ma, nel contempo, sottolinea il carattere irriducibilmente personale delle scelte che ciascuno è chiamato a compiere, in relazione alla sua storia, alla sua cultura di appartenenza, ai valori e alle credenze che danno un senso alla sua esistenza. Potrebbe forse così prendere corpo un’idea di felicità mirabilmente espressa da Bertrand Russell nella sua visione di un uomo che “si sente cittadino dell’universo, gode liberamente dello spettacolo che offre e delle gioie che arreca, non turbato dal pensiero della morte perché non si sente realmente separato da coloro che verranno dopo di lui”.
2019 Il futuro
In che mondo vivremo? I cambiamenti climatici, la crescita della popolazione mondiale, i nuovi scenari aperti dall’ingegneria genetica e dalla robotica costituiscono altrettante sfide. Nell’immagine del futuro, da un lato, confluiscono speranze e timori che a tratti oscurano quel che davvero sta accadendo nelle nostre città come nei laboratori di ricerca, dall’altro, le stesse dimensioni del cambiamento aprono grandi ambiti di incertezza. Occorre aggiungere che negli ultimi decenni il progresso scientifico ci ha fornito strumenti prima impensabili per migliorare la società e la nostra vita ma, per ottenere risultati concreti, è necessario operare in modo coordinato su molteplici livelli: etico, scientifico, tecnologico, economico, sociale. Per questo la bioetica, in ragione della sua vocazione interdisciplinare, è chiamata in causa. Ad una riflessione a più voci su “Il futuro” è stata dedicata la terza edizione del Festival.
Il Covid19 è suonato come un campanello d’allarme sui rischi che ci attendono. “Una crisi – qualcuno ha detto – non si dovrebbe mai sprecare”. Cosa abbiamo imparato dalla crisi rappresentata dalla pandemia? Dovremmo ormai aver raggiunto la consapevolezza che le pandemie sono endemiche e in parte, almeno, legate agli effetti del cambiamento climatico, predisponendo risposte adeguate che richiedono risorse e capacità di natura globale. Per affrontare le grandi sfide del nostro tempo – clima e salute - è necessario un radicale ripensamento del modo di operare sia dei singoli stati che delle istituzioni internazionali.
Una tra le più urgenti questioni da affrontare è apparsa la ricerca di una via per lo sviluppo sostenibile ripensando i sistemi di produzione e di welfare ed esplorando nuovi percorsi per accelerare tale transizione. Ma quali sono le sfide della conoscenza per il nostro domani? Siamo ormai chiamati a interpretare la complessità del presente per costruire il nostro futuro impegnandoci sia a promuovere una valutazione delle biotecnologie in relazione al loro impatto sulle nostre vite e sulla vita del pianeta - premiando le imprese pubbliche e private che fanno della sostenibilità la loro cifra e favoriscono un’innovazione che abbia ricadute positive sui dipendenti, la comunità in cui operano e l’ambiente - sia a potenziare la ricerca diretta alla prevenzione dei rischi per la salute nazionale e globale, valorizzando la “nuova medicina”, fondata su un lavoro interdisciplinare e aperta alle nanotecnologie e alla biorobotica. Indispensabile è apparsa anche una riflessione critica sugli sviluppi della robotica, con particolare riferimento alle opposte interpretazioni dei tecno-ottimisti e dei tecno-pessimisti, in relazione all’impatto sul mondo del lavoro e alle problematiche etiche e sociali emergenti in tema di dignità umana e di giustizia. Per questo dovremmo fare “esercizi di futuro” provando a immaginare le conseguenze che potranno avere le decisioni che prendiamo oggi sull’umanità attuale, le generazioni future e il destino del nostro pianeta. Il termine esercizi rinvia appunto a questa incertezza ma anche alla volontà di reagire alla rassegnazione e al cosiddetto ‘presentismo’, cioè a quella sorta di preferenza per il presente e per il pensiero a breve termine che caratterizza il nostro orizzonte etico e politico.
Il tema della ‘buona vita’, oltre che sul piano individuale, ha pertanto una profonda risonanza sul piano collettivo prefigurando un nuovo paradigma di civiltà fondato su una vita in armonia con la natura della quale tutta la comunità è parte. Si tratta di una risposta che, a partire dalla democrazia deliberativa e dalla responsabilizzazione collettiva, si basa su educazione popolare, orizzontalità, giustizia ed ecologia sociale. In Europa ci si può riferire al movimento delle ‘transition towns’, comunità che decidono di riconvertire le attività di produzione e di consumo verso forme sempre più indipendenti dai combustibili fossili con lo scopo di promuovere nuove pianificazioni energetiche e la localizzazione delle risorse di base all’insegna del ‘meno petrolio’, riconfigurando i modelli attraverso i quali si produce e si consuma cibo ed energia, si fa turismo, ci si occupa della salute.
Riforma o rivoluzione? Per rispondere con Arne Naess, siamo dinanzi a un cambiamento di portata rivoluzionaria che avviene attraverso un gran numero di azioni concrete, di piccoli passi capaci di condurci in una direzione radicalmente nuova. Sperimentazioni locali, dunque, che anticipano strategicamente le trasformazioni globali e che mobilitano un’energia creativa verso la costruzione di una società del ‘ben vivere’ libera dall’ossessione del consumismo e dal mito della crescita. Andare oltre al Pil, per aprire un ponte verso la felicità, significa infatti capire che ci sono beni di importanza basilare per la qualità della vita – come la conoscenza, la capacità di comprendere il mondo in cui si vive, i rapporti interpersonali, l’equilibrio con l’ambiente, la partecipazione alla vita sociale, la sicurezza e la solidarietà - che si definiscono ‘immateriali’ proprio perché richiedono meno materia e energia per essere prodotti e riprodotti e la cui diffusione permette di diminuire la pressione sul consumo di cose materiali. Dobbiamo pensare di essere in un mondo interdipendente e avere il coraggio di impostare una gestione condivisa dell’interdipendenza per assicurare la sostenibilità dello sviluppo con giustizia ed equità a tutti i paesi. Una prospettiva ‘conviviale’ che richiama temi largamente presenti nell’idea di cura al centro della riflessione femminista.
2020 La cura
Cura di sé, degli altri, del mondo. La tragedia planetaria della pandemia ci ha fatto riscoprire l’importanza del ‘prendersi cura’: una pratica che, nell’esprimere una vocazione profonda dell’essere umano, include tutto ciò che dovremmo fare per conservare, custodire e riparare il nostro mondo, al fine di potervi vivere nel miglior modo possibile. La quarta edizione del Festival, nel richiamare alla centralità del valore della cura in ambito etico e politico, ci ha invitato a riflettere sulle sfide che ci attendono: la lotta contro le antiche e le nuove diseguaglianze in ambito sanitario, la tutela del benessere dei soggetti più vulnerabili, l’impegno per una città più inclusiva e vivibile per tutti (bambini, anziani, disabili), la salvaguardia del nostro habitat naturale. Se volessimo condensare tutto ciò in una immagine potremmo riferirci a quella bellissima impiegata da Renzo Piano, - “il grande rammendo”- per indicare quel complesso di attività piccole e umili che sono fondamentali per garantire la sopravvivenza di una comunità. La manutenzione, che implica attenzione, umiltà e lungimiranza, è un tipo di attività che non permette di capitalizzare i risultati in breve tempo e ciò spiega perché una politica inghiottita dal presente non abbia interesse a investire in manutenzione, dal momento che i frutti verranno raccolti da altri, da chi verrà dopo. Ma una politica incentrata sulla cura proprio questo dovrebbe richiedere e oggi, l’emergenza sociale ha bisogno come non mai di una politica generosa, capace di guardare al futuro, non di una politica fragile, impegnata a sopravvivere.
Riparare, ricucire, rammendare: sono tutti termini che rinviano alla pazienza, alla concretezza ma insieme alla speranza. Oggi è dominante il sentimento della paura: siamo una società “stress-integrata” dominata da parole come ‘allarme’ e ‘allerta’. La paura è stata tuttavia collegata alla cura, se la intendiamo - nel senso positivo e altruistico indicato dal filosofo Hans Jonas – come apprensione ansiosa per la sorte di un altro essere, preoccupazione per la sua esistenza minacciata. Si trascura, tuttavia, enfatizzando l’elemento della paura, quella che è una componente essenziale della cura: la speranza, appunto, da intendersi come apertura al nuovo, facoltà propriamente umana – secondo la lezione di Hannah Arendt - di ‘dare inizio’.
Ancora una volta, l’immagine del ‘grande rammendo’ ci richiama sobriamente al riconoscimento della comune vulnerabilità e, quindi, al bisogno condiviso e reciproco di cura. Per questo sembra giunto il momento di chiedersi se il trauma collettivo della pandemia non abbia attivato anche comportamenti positivi, contribuendo, ad esempio, a suscitare sentimenti solidali e altruistici che negli ultimi decenni erano stati trascurati, se non smarriti. Sappiamo che taluni eventi che irrompono drammaticamente nelle nostre vite, come la minaccia incombente di un pericolo che ci coinvolge tutti o l’esposizione ad un rischio da cui nessuno può sentirsi esente, possono contribuire a farci riconoscere la nostra costitutiva fragilità e, insieme, la nostra appartenenza ad una comunità di destino. Ecco che l’attenzione può divenire un elemento fondamentale del ‘prendersi cura’ e generare effetti costruttivi: solidarietà, empatia, apertura al vissuto delle persone col loro carico di sofferenze. Un ‘prendersi cura’ – come ci insegna la bioetica – che significhi anche guardare alla natura e al mondo animale in termini di etica della responsabilità. Che cosa evoca infatti il ‘salto di specie’, lo spillover da cui la pandemia sembra si sia generata? Non significa forse che abbiamo alterato equilibri, sottratto habitat naturali alle specie selvatiche, dimenticando sia le regole più elementari della prudenza, sia le norme di rispetto che dovrebbero governare i nostri rapporti con le altre specie? Oggi dovremmo aver maturato la consapevolezza che la salute è globale: siamo elementi di un ecosistema in cui il benessere di ogni elemento – umano, ambientale, animale – è strettamente dipendente da quello degli altri. Mi sembra molto significativo, a questo riguardo, che nell’enciclica Laudato sì si ricordi che “non ci sono due crisi separate, una ambientale e l’altra sociale, bensì una sola complessa crisi socio-ambientale, la cui soluzione richiede un approccio integrale”.
Potremmo dire che la democrazia ha bisogno della cura per trattare ogni persona con eguale considerazione e rispetto: da qui l’esigenza di uno spazio morale e politico in cui elaborare una cultura civile della responsabilità. Ma non è questa, a ben riflettere, la radice virtuosa della democrazia? Forse l’educazione alla cittadinanza, di cui abbiamo tanto parlato senza riuscire a darne una convincente definizione, potrebbe cominciare proprio da qui.
2021 La giustizia
Al tema della Giustizia, il valore più universalmente rivendicato ma insieme l’ideale più inafferrabile, per la stessa ricchezza dei suoi significati, è stata dedicata la V edizione del Festival. Pensiamo, per fare un esempio, alla formula più classica con cui si esprime: “a ciascuno il suo”. L’accordo pare facilmente raggiungibile: dare a ciascuno ciò che gli spetta, un’istanza e una regola del tutto ragionevole e condivisibile. Sennonché i problemi sorgono appena ci si addentra nella formula e ci si pongono le prime fondamentali domande. Chi è quel “ciascuno”? Intendiamo i nostri concittadini, i nostri connazionali, gli europei, gli extraeuropei, i membri dell’intera comunità mondiale? Non solo quel “ciascuno” avrà un’identità diversa in termini di estensione spaziale ma anche - a ben riflettere - temporale. Ci si riferisce, in altri termini, solo chi vive attualmente sulla terra, i nostri coevi, i nostri figli, nipoti o anche chi vivrà dopo di noi, decenni e secoli dopo la nostra scomparsa, le cosiddette ‘generazioni future’, il cui destino dipende dalle nostre scelte? E ancora, per “ciascuno” intendiamo soltanto gli esseri umani o anche gli animali non umani? Anche per costoro la richiesta di giustizia può essere avanzata, come dimostrano le odierne teorie dei diritti degli animali. Si aprono in tal modo i grandi capitoli della giustizia planetaria, della giustizia intergenerazionale e della giustizia interspecifica. Sarà di conseguenza la stessa nozione di “prossimo” ad essere messa in discussione, sganciandosi sempre più, come si è visto, dal concetto di “prossimità” spaziale, temporale e di specie per delineare quelle che la filosofa Martha Nussbaum, in uno dei suoi testi più significativi, chiama “le nuove frontiere della giustizia”. Le conoscenze di cui oggi disponiamo, insieme al nuovo potere offerto dalle biotecnologie, esigono infatti una riflessione a tutto campo che tenga conto della rete di relazioni che ci collega alla natura e agli animali ed estenda la giustizia oltre i confini della nostra specie. Ciò rende evidente che la ricerca di una giustizia davvero globale non può non comprendere soggetti che fino ad anni recenti non erano ritenuti degni di considerazione etica e giuridica, come l’ambiente e le altre specie ma, insieme, richiede di pensare quale tipo di giustizia le nazioni possano pretendere nell’ambito dei loro reciproci rapporti. La crisi sanitaria che stiamo vivendo trascende infatti i confini nazionali e richiede soluzioni globali: apparteniamo ad una comunità mondiale, siamo cittadini di un mondo interconnesso, ma siamo anche membri di un ecosistema in cui la salute di ogni elemento – umano, ambientale, animale – è strettamente dipendente da quella degli altri.
Molte sono state le domande cui rispondere dinanzi alle sfide poste dalla pandemia che ha fortemente aggravato le diseguaglianze a causa del suo impatto, in particolare, sulla partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Se il Covid ha rallentato il percorso verso la parità (in Italia il 98% di chi ha perso il lavoro è donna) ha aumentato parallelamente i carichi di lavoro per chi ha ruoli di caregiver. Per questo occorre esigere politiche sistematiche e permanenti di tutti i governi, investimenti in servizi pubblici e supporti alle Ong che garantiscono l’autodeterminazione delle donne. Ma anche investire sulla medicina di genere, nel quadro di un piano culturale che preveda un approccio educativo diverso - a partire dal mondo della scuola per evitare pregiudizi e stereotipi - e che assicuri l’accesso alle nuove tecnologie in campo digitale. Fin dalla sua fondazione, nel 1993, l’Istituto Italiano di Bioetica si è impegnato a “dare voce alle donne” - allora in gran parte assenti o scarsamente rappresentate nei Comitati di maggior rilievo politico – promuovendo una “bioetica di genere” e valorizzando i contributi del pensiero femminile e femminista ai diversi settori della bioetica: medica, ambientale, animale. Per questo il Festival ha posto al centro dei suoi lavori il grande tema della “giustizia di genere” delineandone una sorta di Road Map. Con la ripresa post Covid si è imposta infatti una riflessione a tutto campo sull’empoverment femminile elaborando una serie di proposte non generiche, ma divise per aree di intervento. Con uno sguardo rivolto al futuro sostenibile che – come auspica l’Ecofemminismo - dovrebbe vedere le donne in prima linea per salvaguardare, anche per le generazioni future, la salute del pianeta.
Ancora una volta, la prospettiva del “vivere bene” sarebbe incompleta se non comprendesse il senso della giustizia, implicato nella nozione stessa di “altro”. La giustizia ci ricorda, da un lato, che il “vivere bene” non si limita al piano delle relazioni interpersonali ma si estende alla vita nelle istituzioni, dall’altro, che presenta tratti etici non contenuti nella sollecitudine e che spingono essenzialmente verso un’esigenza di eguaglianza. Poiché la giustizia è chiamata ad “attribuire a ciascuno la sua parte”, l’iscrizione del giusto nella prospettiva della “buona vita” ha grande rilievo per la bioetica per il suo ricordarci che esso non si esaurisce sul piano della legalità, non si risolve nella costruzione pur necessaria dei sistemi giuridici. Il senso della giustizia è solidale con quello dell’ingiusto che spesso lo precede: è proprio attraverso l’indignazione e la denuncia che ci avvediamo della discrepanza tra la giustizia statica dei codici e la giustizia dinamica dei valori che attendono di incarnarsi in norme. Sempre Ricoeur attribuisce un posto d’onore nella vita morale a un sentimento forte come l’indignazione, “che riguarda tanto la dignità dell’altro quanto la dignità propria” chiedendosi perché mai non si dovrebbe “ricavare piacere dal salvare la dignità degli umiliati della storia”. Un tema, questo, di fondamentale importanza per una bioetica davvero globale, aperta alle istanze di tutti gli ‘altri’ finora esclusi dal godimento dei diritti e che dovrebbe farci diventare sempre più consapevoli delle mutue implicazioni tra la sfera della politica e quella della vita, tra polis e bios. Per questa via la bioetica apre alla biopolitica.