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Introduzione al volume di imminente pubblicazione: "Bioetica", Milano, Editrice Bibliografica.

Parliamo di Bioetica di Luisella Battaglia

Quando si parla di Bioetica – ancora per molti una parola misteriosa – si pensa abitualmente che la sua nascita sia piuttosto recente, collocabile negli anni ‘70 e legata soprattutto ai problemi etici connessi agli sviluppi delle scienze e delle biotecnologie e al loro impatto sulle nostre vite. In realtà la Bioetica ha origini ben più lontane e il suo stesso vocabolo – coniato nel 1927 dal filosofo tedesco e psicologo del mondo vegetale Fritz Jahr (1895-1953) – fa dichiaratamente riferimento a quel particolare aspetto dell’etica che concerne i rapporti che dovrebbero instaurarsi tra l’uomo, gli animali e le piante, ossia con l’intero mondo dei viventi. Si tratta quindi di superare l’idea ormai scientificamente insostenibile di un grande salto tra mondo umano e mondo non umano e di adeguare coerentemente il nostro comportamento nella vita quotidiana ai dati che le scienze ci offrono. Su questa base potrà fondarsi il riconoscimento di obblighi morali nei confronti di tutti gli esseri viventi.
Oggi, a quasi un secolo di distanza, siamo in grado di cogliere la portata innovativa della visione di Jahr il quale enuncia quello che potrebbe definirsi un imperativo bioetico: “Rispetta ogni essere vivente, in linea di principio, come un fine in sé e trattalo, se possibile, come tale”. Si tratta di un imperativo che non prevede alcun tipo di reciprocità – animali e piante manifestamente non possono reciprocare – ma ciò non diminuisce la sua forza. Solo l’uomo, in quanto ‘agente morale’, ha dei doveri verso gli altri viventi; neppure molti umani (ad esempio i neonati) d’altra parte possono reciprocare, avverte Jahr, ma i nostri doveri non per questo vengono meno. La clausola “se possibile” evidenzia il carattere inevitabilmente relativo e contestuale dei nostri obblighi morali. Sta al nostro giudizio valutare di volta in volta i limiti e le possibilità di applicare, nelle situazioni in cui ci troviamo, un imperativo che per molti aspetti richiama la ‘regola aurea’(“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”). Jahr adotta in tal modo una prospettiva indubbiamente audace che non intende tuttavia essere utopica, nella misura in cui non può non tener conto di quella ‘lotta per la vita’ in cui siamo inevitabilmente coinvolti. L’impegno per la nostra sopravvivenza non dovrebbe comunque indebolire l’idea di un imperativo bioetico che resta per molti aspetti esigente.
Già da questi sommari rilievi emergono alcuni punti salienti per il discorso bioetico. Jahr, innanzitutto, coglie assai bene la portata innovativa di una riflessione che intende promuovere un confronto critico tra scienziati e filosofi a favore del rispetto delle varie forme di vita. Grazie all’incontro tra le due culture, l’etica non potrà continuare a ignorare l’apporto offerto dalle scienze della vita. Sono queste, infatti, a fornirle un quadro di informazioni indispensabili per determinare le nuove circostanze dell’agire e adeguare il nostro comportamento ai dati che esse ci offrono.
Quella di Jahr può, pertanto, considerarsi una testimonianza particolarmente significativa per quanto riguarda l’estensione della sfera della bioetica. La sua è una visione ben più ampia di quella ormai consolidata – interessata peculiarmente, secondo una visione che resta nei suoi fondamenti teorici ancora antropocentrica, alle questioni relative alla salute umana –, in quanto anticipa una concezione davvero ‘globale’ di cui oggi possiamo verificare l’attualità: Jahr prefigura infatti temi che non solo sono al centro del dibattito pubblico, ma anticipano significativamente alcune delle direzioni più interessanti della ricerca scientifica. Basti pensare agli studi di neurobiologia vegetale, a partire dalle ricerche di Stefano Mancuso sulla sensibilità e intelligenza delle piante che dovrebbero far parte a pieno titolo della comunità dei viventi. Una visione pioneristica, quindi, che risponde pienamente anche alle sfide poste dall’emergenza pandemica che stiamo vivendo e che richiede soluzioni globali che tengano conto della rete di relazioni che ci collegano alla natura e agli animali: siamo cittadini di un mondo interconnesso in cui la salute di ogni elemento è strettamente dipendente da quella degli altri. Per questo la Bioetica, intesa come un’etica che riguarda l’intero mondo vivente e, per estensione, anche l’ambiente in cui si svolgono le varie forme di vita, è chiamata in causa.

Una Bioetica globale.
Perché allora è stato così a lungo dimenticato il significato originario del termine Bioetica? Se ci interrogassimo sulle ragioni di quello che potremmo chiamare l’oblio delle origini, la spiegazione dovrebbe risalire al clima politico e culturale della Germania, certo non favorevole al diffondersi della Bioetica, che dovrà infatti attendere una sorta di rinascita per riapparire sulla scena, questa volta per merito del medico oncologo Van Rensselaer Potter, con la pubblicazione del volume Bioetica. Ponte per il futuro (1971).
«Scienza della sopravvivenza dell’uomo nell’ecosistema»: così Van Potter definisce la nuova disciplina, nata dall’incontro delle “due culture” – scientifica e umanistica – che dovrebbe avvalersi delle nozioni della biologia, della medicina, dell’ecologia per realizzare i valori della vita e promuoverne la realizzazione. Profondamente influenzato dall’opera dell’antropologa Margaret Mead e dalla filosofia di Teilhard de Chardin – in cui ravvisa il tentativo di superare lo iato tra scienza e religione – Potter dà vita, presso l’università del Wisconsin, a un comitato di studi multidisciplinari sul futuro dell’uomo al fine di promuovere una riflessione a più voci sul destino dell’umanità e il concetto di progresso. Da qui l’enunciazione di un “credo bioetico” (Bioethical Creed) in cinque articoli in cui si condensano i principi di un’etica universale del rispetto che si estende a tutte le specie viventi, all’intero pianeta e alle generazioni future.
Una visione ‘globale’ della Bioetica condivisa anche da Warren Reich, curatore dell’Encyclopedia of Bioethics, secondo cui “la caratteristica distintiva della sfera della bioetica è che si estende a tutti i problemi concernenti la vita, le scienze della vita, la salute e l’organizzazione sanitaria” riguardando anche la vita non umana: la vita degli animali e delle piante, il modo in cui gli uomini influiscono sull’ambiente e i modi in cui l’ambiente, a sua volta, influisce sul benessere di ogni forma di vita. Una concezione ribadita in anni più recenti dal filosofo bioeticista Peter Kemp che evidenzia la necessità di un allargamento dell’ambito etico nella direzione, proposta da Van Potter, di una bioetica globale, inevitabile “in un’epoca in cui le biotecnologie minacciano di trasformare tutti gli esseri viventi, uomini o animali, in oggetti delle più svariate e ardite manipolazioni e implica una critica radicale dello sfruttamento del mondo animale da parte dell’uomo”.
Le argomentazioni qui riportate appaiono assai plausibili specie nel richiamo a un significato più esteso e comprensivo del vocabolo bios: riesce difficile, in effetti, confinarlo al solo ambito umano o ritenere degna di considerazione etica solo la nostra vita. Già questa scelta di campo è compiuta in base ad una pregiudiziale – anche se non dichiarata – opzione di valore antropocentrica che privilegia esclusivamente nel bios la dimensione umana, squalificando ed escludendo come non degne le dimensioni “altre” e smarrendo, in tal modo, la portata autenticamente innovativa della Bioetica.

Il pensiero della complessità.
Al centro della riflessione della Bioetica – intesa come un’etica della scienza che si propone di studiare in modo sistematico i complessi problemi morali, giuridici, sociali indotti dagli sviluppi della biologia, della medicina e, in genere, delle scienze della vita – possiamo porre il quesito “è lecito eticamente realizzare tutto ciò che è tecnicamente possibile?”. Il rischio è infatti che il giudizio tecno-scientifico, che ci dice che cosa è possibile o non possibile fare, appaia come un surrogato del giudizio etico, che ci indica che cosa è lecito o non lecito fare. La Bioetica, che nasce come consapevole reazione critica al cosiddetto ‘imperativo tecnologico’ e all’insufficienza delle riposte puramente tecniche, muove sia dal tentativo di superare le chiusure specialistiche, sia dalla constatazione dell’incidenza enorme che determinate scelte hanno sull’umanità e il suo destino. La stessa complessità delle questioni affrontate è tale che la considerazione di tutti i loro aspetti (filosofici, giuridici, psicologici, economici etc.) esige la partecipazione di studiosi delle più varie aree di ricerca. Interdisciplinarità non significa annullare il ruolo delle singole discipline, bensì potenziarlo ed esaltarlo: ciascuna traduce infatti la questione in esame nel proprio linguaggio, si avvale della sua specifica metodologia ma, insieme, supera la sua inevitabile unilateralità nella misura in cui riesce a pensare, con le altre, la complessità e a integrare le risposte in una prospettiva globale. La Bioetica, in tal senso, può definirsi un campo d’indagine in cui si incontrano le più diverse discipline chiamate a riflettere su un tema centrale: il bios, la vita nelle sue diverse dimensioni, alla luce di un fuoco d’interesse unitario, quello etico.
Si può aggiungere che è propria di questi anni la ricerca di un pensiero complesso che riunisca ciò che appare disgiunto e sappia discernere le interdipendenze e le retroazioni tra i fenomeni. La complessità – ci insegna Edgar Morin – è, in tal senso, una figura positiva giacché ripropone in termini non più antagonistici alcune coppie di concetti chiave del nostro approccio cognitivo al mondo (ordine/disordine, natura/ragione, spirito/corpo). Da qui il riconoscimento delle interrelazioni tra forme e aspetti del vivente, la consapevolezza delle retroazioni che si instaurano tra i fenomeni e il loro contesto e tra ogni contesto e quello planetario (ecologia delle azioni) e, infine, l’accettazione dell’incertezza, cioè degli elementi di imprevedibilità, innovazione e mutamento (fallibilismo). È appunto il pensiero della complessità a proporre un collegamento tra le specifiche questioni attinenti alle diverse dimensioni della bioetica: medica, ambientale, animale.
Se intendiamo per Bioetica – secondo la definizione che ne dà K. Danner Clouser in Encyclopedia of Bioethics – “uno studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della salute, in quanto la condotta umana sia esaminata alla luce di valori e principi morali”, dobbiamo infatti riconoscere che essa abbraccia una pluralità di ambiti di ricerca. Basti menzionare i problemi etici e normativi che sorgono nelle cosiddette “professioni della salute” (Health Professions), ivi compresa la salute mentale, le questioni attinenti alla ricerca biomedica e comportamentale, la costellazione di problematiche sociali connesse alla “salute pubblica”, alla medicina del lavoro, al controllo demografico e le tematiche relative alla vita dell’ecosistema, ai problemi di gestione e di tutela dell’ambiente e delle specie animali.

Le dimensioni della Bioetica.
Molte complesse questioni concernenti il rapporto scienza/tecnologia/società appartengono dunque all’ambito bioetico. Accanto alla Bioetica medica – che concerne la nascita dell’uomo (nuove tecnologie riproduttive, diagnostica prenatale, etc.), la sua salute (rapporto medico/paziente, diritti del malato, consenso informato etc.) e la sua morte (disposizioni anticipate di trattamento, eutanasia etc.) – esistono una Bioetica ambientale – che si interessa delle questioni di valore connesse alle conseguenze pratiche del rapporto di gestione dell’uomo con la natura, di giustizia ambientale, dei nuovi diritti in ambito ecologico etc. – e una Bioetica animale – che si occupa dei diritti degli animali, dei problemi etici, giuridici e sociali connessi alle diverse tipologie di rapporto con l’uomo – animali familiari, da reddito, selvatici etc.
Gli studi di etica applicata hanno dunque dato un decisivo impulso al confronto critico tra scienziati e filosofi, contribuendo sia a rimuovere le barriere che separano corpi specializzati delle conoscenze scientifiche, sia a mostrare la pertinenza della riflessione etico-filosofica in ambiti a essa apparentemente estranei (dalla biologia all’etologia, dalla medicina all’ecologia). Poiché la bioetica si colloca al punto di intersezione di diversi campi del sapere, il rapporto etica/scienza sembra potersi configurare nei termini di una interrelazione dialettica che prevede momenti di conflitto e di scontro, ma anche di apertura e composizione reciproche.
Se riteniamo che la Bioetica debba avere un ruolo non meramente negativo e disciplinatore, bensì creativo e dinamico, l’interrogativo cruciale riguarda non tanto i limiti da assegnare alle scienze, quanto le sfide cui essa è chiamata a rispondere. Per sfide possiamo intendere quel complesso di conoscenze, relative alla nostra natura, all’ambiente, alle altre specie ecc. che non possono non avere riflessi sulla nostra visione del mondo e, in genere, sul nostro modo di atteggiarci e la cui novità radicale rappresenta in ogni modo un problema ineludibile per la coscienza e la riflessione filosofica. Si pensi, ad esempio, a come le conoscenze fornite dall’ecologia e dall’etologia abbiano configurato problemi di grande rilevanza etica, suscitando importanti interrogativi circa i confini dell’universo cui si riferisce il nostro discorso morale. Ci si chiede, ad esempio, sempre più spesso se la morale debba essere circoscritta solo alle relazioni interumane o se gli uomini abbiano vincoli morali nei confronti dell’ambiente e delle altre specie. Domande che, com’è facile intuire, sollecitano la revisione dei giudizi e dei criteri tradizionali circa il bene e il male, il giusto e l’ingiusto e investono lo stesso ambito di applicazione delle principali categorie etiche quali “prossimo”, “giustizia”, “responsabilità”.
In questo senso, ricostruire la storia della bioetica significa riesaminare i modi in cui essa ha risposto alle sfide delle scienze della vita – la biologia e la medicina, ma anche l’ecologia e l’etologia – e ha, a sua volta, posto sfide a tali scienze, esigendo risposte in un confronto tendenzialmente senza fine. Se le diverse “scienze della vita” forniscono all’etica un quadro di informazioni e di dati indispensabile per determinare le nuove circostanze dell’agire e per verificare l’applicabilità e la congruenza di principi e di regole di condotta a situazioni talora inedite, le offrono altresì suggestioni in grado di fondare discorsi teoretici nuovi.

La rivoluzione biologica.
Occorre ammettere, con buona pace dei tradizionalisti, che è improponibile il ritorno all’uomo naturale e che la scelta dell’artificiale è irrevocabile: manipolazioni, interventi dell’uomo sull’uomo fanno ormai parte del nostro orizzonte di vita. Già nel 1958 Hannah Arendt, una delle coscienze più vigili del secolo, scriveva che il problema essenziale del nostro tempo era quello di rendere artificiale anche la vita. Oggi stiamo assistendo ad una delle più importanti rivoluzioni tecnologiche della vicenda umana, la cosiddetta ‘rivoluzione biologica’. Se, fino ad un’epoca recente, la manipolazione della natura era concepita come emancipazione umana, matura progressivamente una presa di coscienza in virtù della quale gli sviluppi della tecnica non provocano unicamente processi di emancipazione ma anche pericoli di asservimento da parte dell’uomo e da parte delle istituzioni. Il dibattito assai acceso sulle biotecnologie, oltre a riflettere in larga misura il contrasto che si è venuto creando nel mondo moderno sul ruolo della scienza, tende a investire l’idea stessa di manipolazione in cui si ravvisa il tema centrale della nostra era tecnologica. Nel potere manipolativo molti vedono una minaccia all’immagine dell’uomo centrata sull’autonomia razionale: anziché rappresentare una crescita delle libertà e delle opportunità, esso segnerebbe il trionfo del più cupo totalitarismo tecnocratico, quello ‘genetico’. Forse proprio perché si fonda su principi completamente nuovi l’ingegneria genetica fa riemergere antichi fantasmi e ataviche paure. La tecnologia che osa affrontare il massimo segreto – la vita – è considerata di volta in volta o come una sfida diabolica che vuole rubare alla divinità i poteri della creazione o come la violazione di un ordine naturale fisso e immutabile nella sua intatta perfezione. Su ciò fa leva il pessimismo antitecnologico nutrito dei timori ancestrali espressi dai miti di Prometeo, di Icaro, della Torre di Babele e – ora – dall’immagine ricorrente dell’apprendista stregone punito per la sua audacia.
Le biotecnologie presentano, per la loro stessa complessità, elementi di forte ambivalenza: da qui la necessità di promuovere un’analisi seria, informata ed equilibrata che eviti sia il rifiuto aprioristico che l’incondizionata accettazione al fine di favorire una discussione critica tale da alimentare dubbi salutari ma, insieme, consentire scelte razionali e consapevoli. A queste istanze intende appunto rispondere la Bioetica, nella consapevolezza che ogni progresso scientifico rende più difficile la morale e le nuove possibilità offerte dalle biotecnologie pongono alla coscienza degli uomini quesiti morali, giuridici e sociali tra i più ardui da risolvere.

I nuovi diritti.
Si pone, ad esempio, con particolare urgenza la questione del confronto tra i cosiddetti ‘diritti naturali’ – come erano stati elaborati nel pensiero dei secoli precedenti – e i ‘diritti umani’ quali ci si presentano nella prospettiva aperta dal futuro che ci attende. Quali sono i diritti dell’uomo di fronte alle manipolazioni della vita e della morte? Sono ancora sufficienti i diritti tradizionali o v’è bisogno di elaborare un nuovo habeas corpus, uno statuto del corpo umano che comprenda, ad esempio, il diritto all’identità genetica, ovvero a un patrimonio genetico non manipolato? Occorre ormai prendere atto che i diritti umani non sono un elenco che si possa fisare una volta per tutte, in riferimento a una pretesa struttura naturale e permanente sulla cui base poter fondare una legislazione definitivamente garantita. Perché tuttavia, ci si potrebbe chiedere, di tali diritti ci si accorge solo adesso? Una delle risposte possibili è che l’affermazione di un diritto si collega strettamente a un valore minacciato nei cui confronti ci sentiamo responsabili. A ben riflettere, non esiste la necessità di affermare un diritto finché non si dia la possibilità della violazione di un bene avvertito come precario: in tal senso, i diritti non nascono tutti in una volta ma si affermano, ad esempio, quando l’aumento del nostro potere sull’uomo e sulla natura – indotto dai progressi tecnologici – crea minacce inedite e imprevedibili alle libertà individuali. E’ proprio il nostro potere, la nostra capacità di mettere in questione un valore a farcene scoprire il significato (si veda il caso della clonazione che, implicando una minaccia all’identità personale, ha indotto a una ferma difesa della dignità umana contro ogni tentativo di manipolazione genetica).
In tal senso la Bioetica è destinata a diventare una parola familiare perché le questioni da essa poste toccano ciascuno di noi: attraversano la nostra coscienza ma riguardano anche la vita della comunità, a metà del guado, per così dire, tra pubblico e privato. Non solo. In quanto risposta alle crescenti preoccupazioni relative alle tecnologie del controllo del corpo dell’uomo e della sua mente, essa fa parte di un più vasto movimento della coscienza collettiva contro il determinismo tecnologico, in favore dei diritti minacciati, specie dei soggetti più deboli, umani e non umani, e degli oppressi senza voce. Ma è soprattutto l’emergere della problematica ecologica ad allargare il quadro di riferimento: si fa strada una tendenza sempre più decisa verso l’universalizzazione legata al sentimento di appartenere ad una comunità di destino. Si affermano diritti riguardanti il controllo delle risorse del pianeta, la protezione dell’ambiente, la vita delle generazioni future. Soggetto titolare di diritti è ormai il genere umano presente e futuro, dal momento che l’ambiente è visto come patrimonio universale dell’umanità.

La quarta generazione dei diritti umani.
Lo sbocco finale dì questo processo tuttora in corso può considerarsi la quarta generazione dei diritti umani collegati alla bioetica, che riguardano fondamentalmente le questioni legate all'entrata e all'uscita dalla vita. Lo scenario creato dalla rivoluzione biologica si fa ancora più complesso e, al suo interno, si possono individuare tre grandi aree: i diritti legati alla nascita; i diritti legati alla salute e alla cura; i diritti legati al morire.
Quanto alla prima area, le nuove tecnologie riproduttive hanno imposto una ridefinizione sia dei soggetti che dei ruoli parentali. Appaiono nuove figure come la madre sostitutiva, la donatrice di ovuli, il donatore di seme (nel caso della fecondazione eterologa): quali i diritti e i doveri rispettivi? Ci si chiede se esista un diritto procreativo e, se esiste, a quali condizioni; emerge un nuovo soggetto – l'embrione – sulla cui identità ed eventuali diritti il dibattito rimane aperto. L'ingegneria genetica, col progetto genoma, pone sfide ulteriori all'idea di dignità umana.
Quanto alla seconda area, si fa strada, con l'affermazione del diritto alla salute, il principio di libertà terapeutica, con i problemi etici e giuridici legati al "consenso informato". Accanto al diritto di sapere (di avere un'adeguata informazione sul proprio stato di salute) compare il diritto contrario di non sapere (di poter rifiutare le informazioni sulle proprie prospettive di vita e di ottenere una più efficace protezione della privacy).
Quanto alla terza area, a causa dello sviluppo tecnologico sono divenute sempre più labili le frontiere tra la vita artificiale e la morte. Casi recenti hanno rotto la congiura del silenzio sulla morte, costringendoci a parlare di che cosa è – e sarà sempre più – lo stato terminale della vita, il tratto estremo del nostro passaggio umano in società tecnologiche ad alta medicalizzazione. La tecnica sta ormai cancellando la morte naturale nei termini in cui l’aveva finora vissuta la nostra specie. La crescente medicalizzazione degli eventi più privati dell'esistenza umana e le possibilità offerte dal progresso medico di prolungare indefinitamente la durata della vita, con le connesse questioni relative alle disposizioni anticipate di trattamento, alla problematica relativa al suicidio assistito e all’eutanasia, hanno posto drammaticamente in discussione quello che è forse il più paradossale dei diritti umani: il diritto di morire.

Età dei diritti o età della responsabilità?
Con la quarta generazione entriamo ormai nel quadro di una etica planetaria, che corrisponde pienamente, peraltro, al contesto della mondializzazione. Al di là delle frontiere nazionali, delle diverse culture e tradizioni, le sfide poste dalle tecnologie biomediche al genere umano esigono, per la loro stessa radicalità, risposte da autorità sovranazionali e richiedono il consenso più ampio possibile che possa valere come fondamento di quei diritti che ci eravamo abituati a considerare come naturali e indiscutibili. In questa prospettiva, diritti e responsabilità umane appaiono inscindibilmente intrecciati, da ripensare in relazione ai nuovi poteri che sono stati acquisiti grazie alla tecnologia e che hanno fatto entrare nell'ambito delle libere scelte ciò che un tempo apparteneva alla natura e al destino. Il tema della responsabilità appare centrale nella civiltà tecnologica che, se è stata definita da Norberto Bobbio come l'età dei diritti, potrebbe altrettanto bene essere definita, seguendo il filosofo Hans Jonas, come l'età della responsabilità. Soltanto quando un certo elemento della definizione di umanità è rimesso in causa dal progresso tecnico; scopriamo sia il valore che esso possiede sia la necessità di preservarlo. I diritti, per la loro dinamicità intrinseca, si sviluppano e si specializzano man mano che la società cresce e si organizza: per questo sono aperti al progredire dell'umanità, nella sua storia. Ma c’è un altro aspetto importante su cui richiamare l’attenzione. Le nostre responsabilità – ci ricorda Hans Jonas – nascono dal nostro potere e ogni progresso della scienza e della tecnologia aumenta questo potere. Sta a noi, come esseri moralmente responsabili, tenere presenti tutte le conseguenze volute e possibili del nostro agire attraverso uno sforzo anticipatorio di ragione e di immaginazione che includa la previsione degli effetti a lungo termine delle operazioni umane sul sistema planetario, sulle generazioni future, sulle altre specie.

Le nuove frontiere dell’etica.
L’allargamento dei confini morali alle dimensioni della biosfera implica di conseguenza un allargamento della nozione di prossimo sganciata da quella di prossimità, spaziale, temporale e di specie. La Bioetica ci invita dunque a un’estensione dei confini della comunità morale lungo tre direzioni: nello spazio, oltre i confini geografici; nel tempo, al di là delle barriere delle generazioni; oltre la specie, verso gli animali non umani. Vediamo in che senso.

Lo spazio.
L’estensione dei nostri orizzonti morali, al di là dei confini spaziali, costituisce uno stadio significativo nello sviluppo di un’etica autenticamente umana. L’idea guida è quella dell’Expanding Circle, ovvero di un cerchio che si allarga progressivamente fino a comprendere ambiti sempre più vasti, in una dimensione planetaria, un’idea che nasce dalla convergenza tra le più classiche tematiche relative alla giustizia globale e le più recenti consapevolezze ecologiche. La maggior parte dei nostri mali più gravi – la fame nel mondo, l’inquinamento etc. – sono problemi alla cui soluzione dovremmo sentirci tutti impegnati, essendovi ciascuno ugualmente coinvolto. Da qui un allargamento del concetto di responsabilità e, insieme, un approfondimento della nozione di dovere. Secondo una tesi sostenuta dal filosofo australiano Peter Singer, se accettiamo i principi universalistici di imparzialità e di eguaglianza tra gli uomini, non possiamo discriminare qualcuno su base geografica e cioè semplicemente perché lontano da noi. La trasformazione del mondo in un villaggio globale ha prodotto una differenza cruciale, benché non ancora sufficientemente riconosciuta, nella nostra situazione morale. Occorre infatti che si tenga conto della dimensione planetaria delle azioni umane sull’ambiente, giacché le ripercussioni delle nostre operazioni sulla natura non sono più circoscritte ma ubiquitarie, e riguardano tendenzialmente i destini di tutti i viventi. Da qui la consapevolezza dell’impossibilità di rispondere efficacemente a talune sfide del nostro tempo – a partire dall’emergenza ambientale – senza uno sforzo coordinato di decisioni su scala mondiale.

Il tempo.
L’allargamento dei problemi morali alle dimensioni della biosfera implica un allargamento decisivo della nozione di prossimo anche nel tempo. Emerge, in tal modo, il tema delle cosiddette generazioni future, di quegli esseri, cioè, che abiteranno il pianeta Terra non immediatamente dopo di noi (come i nostri figli e nipoti), ma secoli e millenni dopo la nostra scomparsa. Se è generalmente ammesso un obbligo morale nei confronti delle generazioni prossime alla nostra, non altrettanto chiara e condivisa è l’idea di una responsabilità verso i discendenti più remoti. Esistono obblighi morali nei confronti delle generazioni future? E, in caso di risposta affermativa, che cosa esigono? In linea generale, si ammette che il modo in cui la nostra generazione si comporta, le scelte che si sono fatte e quelle che si faranno potrebbero avere conseguenze molto gravi per le generazioni future. È in nostro potere influire sulla vita di queste creature in meglio o in peggio, contribuendo alla conservazione o al degrado dell’ambiente in cui dovranno vivere.
La richiesta di un atteggiamento di maggiore responsabilità nei confronti del presente e del futuro del genere umano ha condotto tuttavia alcuni filosofi non solo a parlare di doveri nei confronti delle generazioni future, ma altresì ad attribuire a esse precisi diritti morali. È il caso, ad esempio, del filosofo americano Joel Feinberg, a parere del quale, anche se i nostri remoti discendenti non sono presenti qui a reclamare un mondo vivibile, possiamo essere certi che ciascuno di loro avrà un interesse – e, di conseguenza, un diritto morale – a usufruire di uno spazio vitale, di un suolo fertile, di un’aria pulita etc. Proteggere il nostro ambiente, pertanto, non sarebbe più soltanto una questione di prudenza razionale, all’interno di una gestione oculata delle risorse ambientali, bensì di giustizia e cioè di rispetto per i diritti dei futuri abitanti del pianeta.

La specie.
È possibile stabilire un confine tra l’uomo e l’animale e, se sì, dove passa questo confine, quali territori attraversa? Come definire la categoria “animalità”? Di rado essa è interrogata in maniera esplicita pur essendo fonte di perplessità più abissali della domanda relativa all’umanità stessa.
Se, da un lato, grazie anche agli apporti dell’etologia e della neurofisiologia comparata, i confini tra mondo animale e umano si stanno sempre più sfumando e quindi dovrebbe potersi verificare un maggiore avvicinamento, dall’altro si registra una crescente lontananza provocata da una serie di fattori tra cui il fenomeno dell’urbanizzazione ,con la progressiva concentrazione e specializzazione delle attività rurali e l’affermarsi degli allevamenti industriali che hanno condotto a una vera e propria meccanizzazione della vita animale. È possibile contrastare tali tendenze? Oggi una nuova visione del rapporto uomo-animale si sta elaborando, nell’ambito sia della cultura scientifica che in quella umanistica, grazie al contributo di discipline di confine come la bioetica, la zooantropologia, la zoosemiotica, variamente impegnate a sostituire a una concezione rigidamente discontinuista una concezione aperta e dinamica delle relazioni interspecifiche. In campo filosofico, si parla di “liberazione degli animali” – e un nuovo termine, specismo, è stato coniato (in analogia a razzismo e a sessismo) per caratterizzare quelle forme di pensiero che discriminano in base alla mera appartenenza alla specie. Ciò che è in gioco è un problema etico di portata assai generale: quello dell’allargamento della sfera morale, ovvero del passaggio da un’etica intra-specifica, che ha al suo centro la specie umana, a un’etica inter-specifica, che ricomprenda tutte le specie viventi con pari dignità.
Chi è dunque il nostro prossimo? Nella prospettiva di una Bioetica globale, il nostro prossimo – inteso, in senso forte, come composto da tutti coloro su cui esercitiamo potere e verso cui pertanto siamo moralmente tenuti a vincolare le nostre scelte – sembra doversi collocare al di là della prossimità, sia essa spaziale (la nostra “tribù”), temporale (i nostri figli), o di specie (la razza umana). Il nostro progresso scientifico e tecnologico ha creato la possibilità di una società planetaria, ma la nostra coscienza collettiva è in forte ritardo, frenata da barriere razziali e conflitti interstatali. Le nostre intuizioni creative urtano contro vecchie immagini e paradigmi tradizionali, veri e propri atavismi etici. È questa una delle sfide principali nel nuovo scenario aperto dalla Bioetica.

La democrazia cognitiva.
La problematica relativa ai nuovi diritti ci introduce ad un aspetto di grande rilievo bioetico: il rapporto tra specialisti e largo pubblico. Sembra qui profilarsi sempre più il rischio – segnalato, tra gli altri, dal sociologo Edgar Morin – di una “dittatura degli esperti”, di una delega da parte dei cittadini agli ‘specialisti’ per decidere di questioni che riguardano direttamente la loro vita e la loro salute. Per questo c’è bisogno, a suo avviso, di un’etica dell’informazione a sostegno di un’etica della responsabilità. Si tratta quindi di operare per una democratizzazione della conoscenza e cioè, per riprendere la sua stessa espressione, per una democrazia cognitiva, compito che può essere intrapreso solo favorendo la diffusione del sapere oltre l’età scolare e al di là dei recinti universitari.
In effetti, le possibilità biomediche di intervento che ormai influenzano e trasformano il nascere e il morire pongono questioni straordinariamente complesse di etica pubblica che riguardano l’intera cittadinanza. A questa esigenza intende rispondere lo “Spazio Etico”, un organismo in via d’introduzione nel nostro paese, modellato sull’esempio dell’Espace Ethique de l’Assistance Publique, operante in Francia da circa un trentennio, specie in ambito medico. Alle sue origini è l’esigenza di rispondere ai bisogni e alle aspettative delle persone in un contesto di servizio pubblico ospedaliero, nella consapevolezza che le circostanze della malattia coinvolgono molteplici problemi morali e spirituali, diverse tradizioni culturali, specifiche vicende biografiche: in altri termini, il mondo della vita in tutta la sua varietà e complessità. Inteso come luogo d’ascolto e di incontro in diversi ambiti sociali – sanitario, scolastico, giuridico etc. – lo “Spazio etico” si propone di dare voce ai singoli cittadini e alle associazioni che li rappresentano al fine di favorire il dialogo, condividere esperienze di vita, affrontare eventuali difficoltà e incomprensioni, avanzare domande, sollevare dubbi di varia natura, etc. In tal modo può diventare uno strumento importante per promuovere un dibattito pubblico finalizzato ad una informazione, formazione e consultazione dei cittadini al fine di renderli più consapevoli nelle scelte da compiere, rafforzando il loro ruolo nella governance della società sui problemi etici emergenti. Nel tempo di crisi e di inquietudine che stiamo vivendo, la Bioetica non deve diventare un luogo per gli addetti ai lavori di una particolare scuola o disciplina accademica ma essere resa comprensibile e accessibile a tutti i cittadini giacché tutti, individualmente e collettivamente, siamo ormai chiamati a decidere e a prendere posizione.

Dalla bioetica alla biopolitica.
Il dibattito su alcuni temi cruciali della Bioetica che si è cercato di ricostruire in estrema sintesi ripropone, ancora una volta, l'insostenibile rigidità del nostro vecchio arsenale normativo, messo periodicamente in crisi dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. È in questi momenti che avvertiamo la nostalgia di grandi monumenti etici, di guide sicure che ci liberino dalla fatica del dubbio, dal travaglio delle scelte. Che fare? I problemi etici e bioetici ci appaiono come tipici problemi di incertezza. Ponendoci dinanzi a imperativi contraddittori, esigono da noi il riconoscimento della loro straordinaria complessità.
Ciò non comporta che siamo condannati a scelte arbitrarie né, tanto meno, all'irrazionalismo o al nichilismo: negoziare con l'incertezza non significa rinunciare alla ragione, ma richiamarsi ad un suo concetto che non è quello forte della razionalità cartesiana – che separa con assoluta nettezza la verità dall'errore – ma piuttosto quello della ragionevolezza argomentativa – attenta alle condizioni concrete in cui un evento si svolge e sensibile alle differenze che caratterizzano i singoli casi. Mai come oggi c'è bisogno dell'aristotelica fronesis, ovvero di quell'arte della ragion pratica consapevole che i principi ultimi di un sistema morale, pur se enunciati colla massima precisione, non sono in grado di offrire risposte prive di equivoci a tutti i problemi che si pongono gli uomini nell'infinita varietà delle situazioni concrete.
Viviamo un mutamento epocale che se, da un lato, richiede un esercizio straordinario di ragione e di realismo per un carico di decisioni e di responsabilità impensabili nel mondo di ieri, governato dalla natura e dalle sue leggi, dall’altro evidenzia la necessità di un incontro diretto tra piano istituzionale e esistenza umana, l’esigenza, in altri termini, di una politica sensibile alle richieste personali degli individui, attenta ai loro bisogni esistenziali più profondi, capace di ricostruire la fiducia verso le istituzioni. Stiamo diventando sempre più consapevoli delle mutue implicazioni tra la sfera della politica e quella della vita, tra polis e bios. Problemi privati, da risolvere nel foro interiore, sono ormai entrati nel campo politico: ciò che era ai confini sta ora al centro. Dalla Bioetica siamo passati così alla Biopolitica, la quale presenta un’ambivalenza fondamentale: ha una faccia autoritaria, quella con cui lo stato vuole ingerirsi a tutti i costi nella privacy, entrando nelle decisioni più intime e dolorose relative al nascere e al morire; ma ve n’è un’altra liberale per cui la scienza può e deve diventare un’alleata dell’individuo – che resta il protagonista delle sue scelte –, non un avversaria da temere o da combattere.

 

Foto di Tiziana Bartolini, Tarsia Duomo di Siena, particolare

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