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Sandro Spinsanti* riflette sul rapporto medico-paziente, oggi. Sull’incapacità di ascoltare e sulla necessità di abbandonare il partenalismo medico instaurando un rapporto adulto-adulto.

Una ventata di irragionevolezza nelle relazioni di cura sta investendo la nostra società. Medici, infermieri e altri professionisti sanitari, che si sono trovati in prima linea nell’emergenza della pandemia, senza presìdi di protezione e sottorganico, in una prima fase sono stati esaltati con toni enfatici. Ora il clima si sta rovesciando contro di loro. In una lettera ospitata nella rubrica “Italians” di Beppe Severgnini (Il Corriere della Sera, 15 novembre), un medico riporta la frequenza di “affronti, intimidazioni, offese e scontri verbali”. Contestualmente, un’indagine svolta in strutture sanitarie lombarde registra un’ondata di ostilità e discriminazioni da parte della popolazione nei confronti dei sanitari e dei loro familiari, visti come responsabili delle inefficienze nel contrasto dell’epidemia e potenziali portatori del contagio. In questo contesto cresce la demoralizzazione di molti professionisti, che si dichiarano tentati di ritirarsi dall’attività di cura.
È come se nel corpo sociale si stesse diffondendo un altro virus. Questo non toglie il respiro, come quello del Covid 19, ma colpisce due facoltà, fondamentali per la nostra convivenza sociale: l’udito e la parola. È come se nell’ambito dell’attività di cura stessimo diventando sordomuti: incapaci di sentire la voce dell’altro, privati della parola. Più esattamente, resi incapaci di “conversare”, perché la voce che si alza è quella di grida scomposte che prendono il posto della parola condivisa, di quello scambio che presuppone il rispetto dell’altro, l’accettazione dei diversi ruoli – nel contesto della cura, il riconoscimento di competenze professionali, che proprio per questo non sono patrimonio di tutti – e l’incontro nella condivisione delle decisioni.

Se per lungo tempo l’evocazione di malasanità equivaleva a denunciare errori e omissioni da parte di medici, infermieri e amministrativi, ora lo spettacolo di malasanità a cui siamo esposti coinvolge anche i cittadini. Non solo nel ruolo di vittime, ma anche di artefici. Il braccio di forza che li oppone ai curanti equivale alla fine della medicina. Non solo della buona medicina, ma della medicina “tout court”.
Non sembri una forzatura evocare, nel contesto di questa patologia che sta investendo la nostra società, un miracolo evangelico. È la guarigione di un sordomuto, riportata dal Vangelo di Marco (7, 31-36). Lo conducono da Gesù, pregandolo di “mettere le mani sopra di lui”. Il terapeuta messianico esegue alla lettera: prima gli mette le dita negli orecchi, poi gli tocca la lingua con la sua saliva: “Poi alzò gli occhi al cielo, fece un sospiro e disse a quell’uomo: ‘Effatà’, che significa ‘Apriti’”. E l’uomo all’istante udì e parlò. È così importante quella parola che l’evangelista sente il bisogno di riportarla, eccezionalmente, nell’aramaico originale.

Quell’Effatà attraversa i tempi e giunge inalterato fino a noi. In una omelia papa Benedetto XVI ha affermato che quella parola, nel suo senso profondo, riassume tutto il messaggio e l’opera stessa di Cristo. Significa contrastare la chiusura interiore, che non dipende esclusivamente da organi di senso: riguarda il nucleo più profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il cuore. Ci sentiamo così legittimati a invocare un Effatà anche in un contesto più circoscritto, quello dei rapporti di cura. Abbiamo bisogno di un intervento che contrasti la patologia sociale crescente: l’incapacità di ascoltare, la paralisi della parola che unisce.
Non siamo taumaturghi: non è in nostro potere fare miracoli. A meno che non consideriamo tali i progressi verso la competenza comunicativa da introdurre. La capacità di comunicare non è un di più, supererogatorio e gratuito, che si aggiunge alla cura: fa parte costitutiva della cura stessa. Dobbiamo riconoscere che non c’è equivalenza tra l’attenzione che in ambito sanitario viene dedicata agli aspetti bio-medici della cura rispetto all’ascolto e alla parola. Ci si preoccupa delle pillole (e dei vaccini, certo; e dei dispositivi di sicurezza, e dei posti in terapia intensiva…: preoccupazioni sacrosante), molto meno delle parole che intercorrono tra i professionisti che erogano le cure e le persone che le ricevono.
Una delle formulazioni più convincenti di questa impreparazione è offerta dal medico americano Jerome Groopman nel libro Anatomia della speranza (Vita e Pensiero 2004). La speranza di cui parla è diversa dall’ottimismo e non ha niente a che vedere con una percezione edulcorata della realtà. Equivale al mondo interiore del malato, al cammino stesso che deve percorrere nel territorio della cura. Ebbene, Groopman riconosce apertamente che i malati erano per lui e per gli altri studenti soprattutto un’affascinante sfida intellettuale. Finendo per chiudere fuori della porta tutto ciò che non coincideva con l’interpretazione degli esami di laboratorio, delle immagini diagnostiche e delle biopsie. Non esita a intitolare “Impreparato” il primo capitolo della sua autobiografia medica. Tutto ciò che esulava dai contenuti della formazione esplicita ricevuta andava imparato con l’esperienza. E di questa esperienza – fatta a spese dei malati – Groopman non teme di fare un resoconto accurato, riportando i casi nei quali ha sbagliato per difetto o per eccesso di informazione.
Non tutti i clinici sono così espliciti nell’ammettere l’insufficienza dell’equipaggiamento con cui la formazione li ha avviati in prima linea nella pratica della medicina. In generale però sono costretti a riconoscere che la competenza comunicativa non ha fatto parte del bagaglio di capacità che sono state oggetto del curricolo. I frutti amari di questa incompetenza, che abbiamo trascurato, li vediamo dilagare sotto i nostri occhi. Sono la benzina che accende gli scontri.
L’equivalente del miracolo evangelico di cui abbiamo bisogno si chiama formazione. Più esattamente, co-educazione. Non basta l’impegno a recuperare la disattenzione verso le capacità comunicative nella formazione dei professionisti sanitari; anche i cittadini vanno formati a un rapporto diverso con chi li cura. Superato definitivamente il paternalismo del passato, è tempo di dar forma a un rapporto adulto-adulto. Abbandonando le reazioni adolescenziali di tanti malattie loro familiari che caratterizzano il tempo presente. La formazione che auspichiamo è un impegno così radicale da rivendicare un tratto profetico: la buona medicina del futuro sarà frutto della capacità, da una parte e dall’altra, di acquisire orecchie aperte e lingua sciolta, liberandoci con l’Effatà della formazione dalla sindrome di sordomutismo che affligge la medicina dei nostri giorni.
Ci incoraggia a ben sperare la constatazione che nell’insieme del vasto corpo professionale esistono già terapeuti sensibili al valore della competenza comunicativa: sono in particolare coloro che operano nell’ambito delle cure palliative. Hanno imparato dall’esperienza che è proprio quell’ascolto dei bisogni e della biografia delle persone alle quali rivolgono le loro cure, proprio quelle parole offerte con delicatezza che fanno la differenza. E, inversamente, quando questa comunicazione non ha avuto luogo a monte il progetto stesso dell’accompagnamento nell’ultimo tratto di strada è destinato a naufragare. Ecco: quello che auspichiamo è un salutare “contagio” che parta da medici, infermieri, psicologi e altri operatori schierati sul fronte palliativo e si estenda a tutti i professionisti che, a qualsiasi titolo e in qualsiasi momento, intervengono nel percorso di cura. Che le orecchie si aprano, che le lingue si sciolgano, che la comunicazione onesta impregni la medicina intera.

*Sandro Spinsanti è direttore della rivista "Janus. Medicina, cultura, culture" (ed. Zadig-Roma)

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