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di Maura Marogna

Le implicazioni etiche nell’assistenza al malato con SLA durante l’emergenza Covid-19

 

Maura Marogna, S.C. di Neurologia, Ospedale Villa Scassi, ASL3 genovese, Genova

Negli ultimi anni i sistemi sanitari dei paesi più evoluti, si sono organizzati intorno alla cura centrata sul paziente cronico, con polipatologie e disabilità complesse. Le malattie neurodegenerative come la Demenza, gli esiti post ictus, la Sclerosi Multipla, il M. di Parkinson, la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), sono diventate il paradigma di una complessità assistenziale che richiede alla collettività ingenti e duraturi sforzi economici rispetto a risorse sempre più scarse.
Sono state identificate nuove strategie organizzative, quali percorsi di cura personalizzati, gestione olistica del paziente e della famiglia, setting di cura declinati per priorità dei bisogni, lavoro di rete, deospedalizzazione di pratiche sanitarie, formazione di èquipe dedicate a domicilio con flessibilità degli accessi e dei follow-up, ricoveri ospedalieri programmati.
L’applicazione della tecnologia alla medicina ha aumentato la sopravvivenza e migliorato la qualità di vita grazie alle sonde enterali per la nutrizione, i ventilatori meccanici per la respirazione, i supporti per la tosse assistita, i comunicatori ad alta tecnologia per garantire relazioni sociali e rispetto delle volontà di cura.
Alle pratiche riabilitative è stato affidato un ruolo fondamentale per lo sfruttamento delle capacità funzionali residue e l’impiego di ausili personalizzati allo scopo di limitare l’impatto della disabilità nella vita quotidiana e procrastinare la dipendenza dagli altri con i suoi effetti negativi psicologici, sociali ed economici.
Anche per i malati con patologie neurologiche progressive è diventata una pratica eticamente doverosa avviare un tempestivo approccio palliativo con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita residua del malato e della sua famiglia, al fine di evitare terapie sproporzionate per eccesso.
Di fronte alla diffusione della pandemia da Covid -19, la sfida intrapresa dai sistemi sanitari nei confronti delle malattie neurodegenerative si è interrotta precocemente, mettendo a rischio gli obiettivi assistenziali fino a qui raggiunti e facendo emergere nuove questioni etiche.
I malati con SLA sono considerati ad alto rischio di complicanze respiratorie da Covid-19, in quanto già affetti da severi problemi respiratori e della deglutizione, portatori disupporti ventilatori non invasivi (NIV) e invasivi (tracheostomia).
La riorganizzazione dei servizi sanitari e l’attivazione delle misure di contenimento hanno determinato la chiusura degli ambulatori specialistici e la riduzione delle visite domiciliari da parte delle èquipe dedicate, sostituite da contatti telefonici e videochiamate. La chiusura di centri dedicati alla diagnosi e la cura dei malati neuromuscolari ha interrotto quei programmi di riabilitazione ad alta specializzazione, che riescono in molti casi a contenere l’evoluzione peggiorativa delle disabilità complesse di cui sono portatori i malati con SLA. Pur confermandosi misure corrette per evitare la diffusione del contagio, le ricadute in tempi diversi sulla qualità dell’assistenza appaiono evidenti. I pazienti con funzionalità respiratoria gravemente compromessa (FCV <60%), in ventilazione meccanica, sono esposti a un maggior rischio di cure non appropriate in termini di tempestività e prevenzione delle situazioni critiche. Una sintomatologia respiratoria acuta (iperpiressia, dispnea, ingombro delle secrezioni..) non gestibile a domicilio potrebbe richiedere manovre specifiche da parte di pneumologi e/o anestesisti in strutture ospedaliere. I pazienti con gastrostomia, che presentano acutamente una sintomatologia gastrointestinale acuta non reversibile, potrebbero avvalersi di indagini strumentali. Anche lo scarso controllo di sintomi, quali vomito, delirium, perdita di coscienza , febbre, eventuali effetti collaterali dei farmaci, cosi come il malfunzionamento dei device, se non gestiti efficacemente a domicilio, richiedono il ricovero in ospedale. In tutti i casi, il trasporto e l’ ospedalizzazione di questi pazienti aumentano il rischio di esposizione alle infezioni, comprese quelle da coronavirus, peggiorando le loro condizioni respiratorie già compromesse e dalle quali difficilmente potrebbero recuperare in caso di contagio. Le complicanze di ciò sono talmente ovvie agli operatori che è comprensibile lo sforzo di gestire le situazioni critiche a domicilio e di differire, per quanto possibile, eventuali interventi programmati. La sostituzione della cannula tracheale in un paziente tracheostomizzato è però una pratica non esente da gravissime complicanze se effettuata in urgenza da personale non esperto e in un setting non adatto. In questo paradosso tra l’emergenza coronavirus e la cronicità altamente critica delle malattie neuromuscolari, anche le implicazioni psicologiche, sociali ed etiche della cura sono gravose. I pazienti con SLA temono l’abbandono da parte degli operatori impegnati a salvare più vite possibili nei dipartimenti di urgenza, nelle terapie intensive, nei reparti di pneumologia. Gli operatori, a loro volta, vivono la gestione dei bisogni quotidiani specifici dei pazienti con il timore e l’ansia di prendersi meno cura di loro in termini di appropriatezza, sicurezza e qualità della cura.
Ancora più problematico, sul piano etico, è diventato il rispetto della volontà del singolo malato da parte del team che lo ha in cura, quando l’obiettivo, in corso di pandemia, è il bene della collettività. I malati con SLA, nelle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) e nella Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC) hanno la possibilità di esprimere le loro volontà di fine vita, su come e dove morire, se accettare o rinunciare ai supporti vitali per la nutrizione e la respirazione. Il team di Cure Palliative condivide le scelte con lo scopo di rispettarle e di renderle operative attraverso la relazione di cura. Se, però, in epoca Covid , il messaggio degli operatori sanitari, per proteggere questi malati estremamente fragili, è più spesso quello di evitare i ricoveri in ospedale, è facile che all’interno della relazione di cura emergano timori, dubbi e conflittualità tra le parti. Di fronte alla volontà del paziente di essere sottoposto a tracheotomia, procedura che richiede inevitabilmente il ricovero ospedaliero, il team è in difficoltà a rispettare le scelte per diverse ragioni. Il rischio elevato di contagio potrebbe complicare il quadro respiratorio già grave rendendo inappropriato e sproporzionato tale intervento. In caso di procedura in elezione potrebbe non essere disponibile un letto nei reparti di Terapia Intensiva già sotto pressione. In caso di procedura in urgenza, il personale sanitario potrebbe non essere attivo perché impegnato sul fronte covid. Qualora il paziente, giunto in ospedale, diventasse terminale, la sedazione palliativa potrebbe presentare alcune criticità per la mancanza di palliati visti nel trattamento di sintomi specifici e di tempo dedicato all’informazione, alla comunicazione e alla relazione con il paziente e con i famigliari, a loro volta, assenti per ragioni di contagio.
Gli esempi riportati costringono a ripensare alle buone pratiche assistenziali nei confronti di quei pazienti affetti da malattie croniche progressive, che hanno esercitato con le DAT e le PCC il diritto di autodeterminazione, nel contesto di situazioni di emergenza pandemica, con scarsità di accesso alle risorse. Per tale ragione è indispensabile confermare il ruolo essenziale delle Cure palliative e dell’Hospice nella risposta al Covid. In un’ottica di scarsità di mezzi, le Cure Palliative (C.P.) garantiscono vantaggi certi nell’ottimizzazione delle risorse, nella scelta dei setting di cura più appropriati, limitando gli interventi diagnostici e terapeutici non proporzionati e rimodulando gli obiettivi di salute. Gli specialisti di C.P. dispongono di competenze specifiche per guidare l’informazione, la comunicazione e la relazione con il malato, affinché le scelte di cura siano informate e consapevoli. Sul piano pratico, ciò si realizza con la continuità assistenziale tra ospedale territorioe l’intervento degli operatori di C.P. dalla fase di triage in ospedale a quella di dimissione sul territorio. Il loro coinvolgimento aiuterebbe a prevenire i ricoveri di pazienti SLA, le cui decisioni di fine vita non sono compatibili con l’ospedalizzazione. Il loro supporto nei processi decisionali delle èquipe ospedaliere sarebbe utile nel triage, quando sono indispensabili risposte rapide e flessibilie durante il ricovero per facilitare la panificazione delle cure, attraverso una comunicazione trasparente e rispettosa della persona di fronte a opportunità di cura diverse da quelle pianificate. Il training agli specialisti per gestire l’accompagnamento di coloro che muoiono in ospedale senza la presenza dei propri cari e di un ambiente confortevole.
Anche nelle situazioni di emergenza con scarsità di accesso alle cure, una relazione medico-paziente fondata sulla fiducia, il rispetto reciproco e la responsabilità, rimane la premessa indispensabile affinché il paziente possa esercitare la sua volontà fino alla fine.

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