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di Tiziana Bartolini

La paura della pandemia restituisce valore alle competenze, ma attenzione a non confondere la fiducia nella scienza con il bisogno di ricette rassicuranti e semplificatorie. Intervista alla prof.ssa Fiammetta Ricci.

Continuano, con questa intervista alla professoressa Fiammetta Ricci, docente di Filosofia politica all’Università di Teramo e componente dell'Istituto Italiano di Bioetica, le riflessioni di carattere filosofico e bioetico intorno alle questioni che l’epidemia del coronavirus pone con forza alla nostra attenzione. Il tema della fiducia, dell’affidarsi è diventato cruciale e permea la nostra quotidianità. Siamo sovrastati dalle tante incognite dell’impatto che questo morbo sconosciuto porta con sé, ci sentiamo totalmente indifesi, non possediamo strumenti né conoscenze per interpretare il fenomeno o immaginare soluzioni. Possiamo solo credere nelle persone di scienza e nei medici, affidandoci alle loro competenze. La facile polemica sembra aver momentaneamente lasciato spazio e parola ai tecnici, riconoscendo loro le capacità e possibilità di curarci. È un generale atto di fiducia totale e, per certi versi, sorprendente se consideriamo che in questo paese abbiamo visto dare credito a improbabili cure omeopatiche per il cancro o che fino a pochi mesi fa divampava il dibattito sull’opportunità delle vaccinazioni.

Le altre interviste sono centrate su: il prendersi cura, la globalizzazione, la morte, salute/economica

Professoressa Ricci, stiamo assistendo ad una ritrovata fiducia nella scienza, alla riaffermazione del primato delle competenze oppure è, secondo lei, solo un effetto momentaneo dovuto alla paura dell’epidemia?
In questa condizione epocale, c’è il rischio di banalizzare la fiducia nella scienza e confonderla con il bisogno di ricette rassicuranti e semplificatorie, o con la pretesa di avere risposte certe da dare in pasto all’opinione pubblica e ai media. Così si finisce per strumentalizzare le posizioni dialettiche ed il dibattito scientifico o per ridurlo ad una rissosità da talk show. In realtà il cammino della conoscenza è da sempre aperto alle idee differenti. Non le teme, ma le cerca e ne fa uno slancio per progredire, per andare più avanti. Ma in situazioni come quella che stiamo vivendo c’è sempre il rischio di trasformare anche la scienza, e le sue feconde ammissioni di incertezza e di antagonismo dialettico, in qualche forma di sensazionalismo che faccia notizia.
Fiducia nella scienza per me significa fiducia nella conoscenza, che non astrae mai dal concreto ma si situa nel momento storico e culturale, ancor più in situazioni di emergenza della vita umana. Ma, la domanda che mi è stata posta credo intenda riferirsi a che tipo di fiducia e di aspettative oggi abbiamo nei confronti dell’impegno e dell’investimento nella ricerca scientifica. Io ritengo che fiducia nella conoscenza comprenda accettarne i tempi di elaborazione e di analisi, le messe alla prova, il paziente lavoro di scavo e la tensione costante ad andare oltre, a verificare e superare il traguardo raggiunto; insomma, implica che, insieme all’importanza per la vita umana, se ne riconoscano e se ne accettino tutti i principi di incertezza e di probabilità. Come, del resto, ci insegna l’epistemologia contemporanea e il nuovo modo di concepire il cosmo fisico e le prospettive aperte dal fallibilismo popperiano, dalla nuova concezione dello spazio-tempo della teoria della relatività, dal principio di indeterminazione, e molti altri sviluppi del pensiero scientifico tra XX e XXI secolo, che sono di fondamentale importanza per comprendere il rapporto tra pensiero, mondo ed essere; e per meglio saper affrontare le sfide e le prospettive aperte sul nostro presente e sul nostro futuro.
Riguardo alla paura, è un potente stimolatore dell’immaginario collettivo, e direi, al tempo stesso, un inibitore: da un lato amplifica ed estremizza reazioni e comportamenti, dall’altro, chiude, paralizza e tende alla diffidenza e allo scetticismo. Potrei citare, tra i tanti, Zygmunt Bauman quando scrive che l’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro sono le più spaventose e insopportabili forme del demone della paura. Parole che in questi giorni ci suonano ancora più tremendamente vere. Un’umanità globale che lotta contro un destino comune e un nemico sconosciuto è certo un’esperienza estrema. Ma appunto perché estrema deve portare a cambiamenti estremi, nel senso di rivoluzionari. Quando si ha l’impressione di perdere il controllo sulle forze che determinano la nostra condizione comune, sembra sfuggirci il controllo su chi siamo, cosa facciamo e dove vogliamo andare.
Tuttavia ritengo e, al tempo stesso, mi auguro, che assistere all’impegno profuso da tanti scienziati, studiosi e ricercatori, di tutto il mondo, possa ridestare, nei nostri giovani, ma direi in generale in tutte le persone, una vera passione per la scienza, e dunque per il valore e l’amore per la conoscenza, riconoscendo il grande servizio che può dare all’umanità nell’affrontare tutto ciò che sfida e mette a dura prova le stessa capacità umana di prevedere e controllare il mondo che ci circonda.

Nel caso del coronavirus, la comunità scientifica non nasconde incertezze, dichiara di non conoscere il virus e il possibile andamento dell’epidemia. Insomma non esita a mettere a nudo i propri limiti. Eppure ciò non sminuisce la sua autorevolezza e la fiducia che le persone ripongono in lei. Tra l’altro non sembra essere una fiducia cieca paragonabile a quella che si riserverebbe a un qualche santone, ma l’espressione di una consapevolezza, quasi di una maturità. Cosa osserva in proposito?
La seconda domanda mi consente di approfondire meglio quanto ho detto a proposito della prima. Come dicevo, questa che mi auguro sia davvero una rinnovata fiducia per il sapere e per la scienza, dovrebbe riportarci al cuore più profondo e aurorale del pensiero occidentale. E alle sue domande fondamentali. Che sono quelle di sempre.
Vorrei qui ricordare che la filosofia è fin dalle origini un modo per affrontare il caos del mondo ed introdurvi un ordine, come del resto si propone di fare la scienza. Il problema non solo del fondamento, ma dell’origine e della causa di tutto ciò che esiste e che interroga la ragione umana, è fin dalle origini del pensiero occidentale al centro del cammino e dei limiti della conoscenza, sia che essa si definisca come ontologia, o come etica o come metafisica, ecc.…. Il rigore del metodo scientifico nei confronti della realtà implica tener sempre conto di alcuni presupposti epistemologici e direi, ancor prima, filosofici fondamentali. Ma sappiamo bene che dal metodo cartesiano alla fisica newtoniana e poi al principio di indeterminazione corrispondono cambiamenti profondi della visione tradizionale del cosmo fisico fra i secoli XVII e XIX, ed anche della conoscenza umana. Pensiamo alle geometrie non euclidee e alla fine del mito del concetto di evidenza e di conoscenza oggettiva. La nuova visone del cosmo fisico, che introduce un nuovo modo di intendere soggetto, oggetto, spazio, tempo, energia, ecc., attesta che le entità elementari sono in permanente movimento, che vi è una sorta di dinamismo universale, che l’essere stabile degli oggetti, se osservato a livello subatomico, è in continuo divenire, e ciò che chiamiamo oggetti o materia sono in realtà campi di energia. E questo è oggetto della ricerca filosofica, in realtà, fin dai tempi di Eraclito; ed oggi noto come la rivincita di Eraclito su Parmenide.
Nel nuovo orizzonte epistemologico, le incertezze della conoscenza sono la garanzia di un sapere non dogmatico e monolitico. Da qui anche l’idea di un’etica dell’incertezza va pensata come educazione del pensiero e dell’azione a riconoscere le contraddizioni e ad affrontare l’imprevedibile e il non totalizzabile. Penso anche ai chiaroscuri della ragione e all’intelligenza delle emozioni, altro apporto filosofico forse poco considerato. Ma penso anche al pensiero complesso, che si innesta sulla teoria della complessità o dei sistemi complessi a partire dalla fine del XIX secolo: è un pensiero animato da una tensione permanente tra l’aspirazione a un sapere non parcellizzato, non settoriale, non riduttivo, e il riconoscimento dell’incompiutezza e della incompletezza di ogni conoscenza, nella necessità di riarticolare e ricomporre le separazioni senza annullare, però, le distinzioni. Due parole chiave ci possono aiutare a comprenderne il senso: il limite e l’apertura. Ogni scoperta di un limite è in se stessa un progresso di conoscenza, è un passaggio, una soglia, una relazione di possibilità. Ogni limite, della conoscenza come anche della libertà umana, è innanzitutto un accesso, un guado tra epistemologia e d antropologia. Basti citare K. Popper secondo il quale “La storia della scienza, come quella di tutte le idee umane, è storia di sogni irresponsabili, di ostinazioni e di errori… ma nella scienza noi impariamo dagli errori, e in questo senso possiamo parlare di progresso”. Ma il delirio di onnipotenza prometeica dell’uomo contemporaneo ha rimosso, in un certo senso, la coscienza del limite e la vulnerabilità della natura umana, quasi da intendersi come fallimento.
Voglio riproporre qui una domanda elaborata da Morin: come considerare la complessità in modo non semplificante? Con questo interrogativo credo voglia intendere che bisogna tener conto di un pensiero multidimensionale e dunque di un pensare scientifico non dogmatico né univoco. Il riconoscimento dei limiti della scienza è la certezza della sua fondatezza epistemologica.
Ma ciò vuol dire anche che è giunto il tempo della nuova alleanza, come il titolo del famoso libro delle due scienziate Iliya Prigogine e Isabelle Stengers: una nuova alleanza, una metamorfosi della scienza, che è anche una nuova interrogazione filosofica sulla realtà e sull’uomo. Ma soprattutto è un paradigma epistemologico rivoluzionario perché, rispetto alla tradizione occidentale, intende reintegrare umanesimo e scienze della natura, considerati per troppo tempo campi di indagine separati.
Io spero che questa attenzione verso la scienza, nello specifico per la medicina, e quindi per la ricerca scientifica in generale, possa ricomporre la scissione tra filosofia e scienza, e risvegliare una questione spesso dimenticata o trascurata nella nostra cultura, e cioè la stretta connessione tra le forme di conoscenza: bisogna ricongiungere ciò che abbiamo separato, poiché distinguere non implica di per sé dividere o contrapporre.

Questa larga e condivisa ri-scoperta del valore delle competenze può avere effetti nel tessuto sociale e nel nostro panorama culturale a breve e lungo termine? Quali?
Superata questa emergenza ed il senso di inadeguatezza e di insicurezza che stiamo vivendo, potrebbe aprirsi davvero un percorso rigenerativo, le cui tappe imprescindibili sono una riforma/trasformazione della società, una riforma della mente come riforma dell’educazione, una riforma della vita che comporta in sé una riforma morale. Sottolineo, potrebbe. Poiché una "riforma del pensiero" necessita di un metodo, cioè di una via attraverso cui analizzare, interpretare e pensare la complessità del reale. E necessita di una visione politica, sociale e culturale coraggiosa e lungimirante, che ne riconosca l’urgenza e che la promuova con forme e strumenti concreti. Come raccomanda Morin, non possiamo pensare di spiegare tutto, ma ciò che conta è sforzarsi di capire bene come procedere.
Credo che il riscatto di una conoscenza come strumento di emancipazione, di progresso e di sviluppo di una scienza a servizio del benessere dell’uomo e del pianeta - e dunque di una conoscenza che distingue ma non divide né oppone - debba trovare voce soprattutto in ogni ordine e grado dell’istruzione scolastica ma, ancor più nell'università, nella sua dimensione trans-secolare, trans-nazionale, e trans-disciplinare: collegando le discipline¬ verso una relazione organica, sistemica, pur lasciandole sviluppare liberamente.
Per questo, mi piacerebbe parlare non solo di riscoperta del valore delle competenze, ma di rinnovata valorizzazione della cultura, sì la cultura, una parola oggi spesso abusata, logorata da polisemie che non di rado ne confondono i significati, e rischiano di indebolirne la portata più profonda per la società e per la stessa democrazia. La cultura la penso come amore per una conoscenza polifonica e dialogica, una polifonia di saperi, che sia però in grado di riaggregare, di riportare ad uno sguardo d’insieme le parti, ad una visione riarticolata del valore della vita e dell’umanità come “cittadinanza terrestre”. Ecco, se usciamo da questa esperienza di criticità epocale con questo nuovo slancio, allora davvero potremo dire che, nonostante tutto, sia servito a qualcosa. Se invece, come sento sempre più frequentemente affermare, ne usciremo solo con una rafforzata fede nella socialità digitale, (fermo restando la preziosa utilità di strumenti e mezzi informatici soprattutto in casi di coatta distanziazione sociale), in questo caso mi chiedo se la tecnologia, rischiando di amplificare ulteriori forme di tecnocrazia, non possa davvero diventare “la forma più rigorosa di follia”, riprendendo un’ espressione di Emanuele Severino, con forti implicazioni biopolitiche, e dunque con riflessi ancora tutti da valutare sulle nostre democrazie.
In sintesi, mi auguro che il post coronavirus ci porti ad una più convinta considerazione della cultura intesa come insieme di saperi che non possono camminare disgiunti, per settorializzazioni e con gerarchie di importanza dettate spesso dai mercati e dal profitto economico. E penso certamente a quanto la filosofia, debitamente considerata e maggiormente valorizzata nel nostro orizzonte culturale e scolastico, potrebbe restituire all’uomo contemporaneo proprio in termini di avanzamento scientifico e tecnologico. Invitando anche a porci più seriamente domande, oggi ancora più urgenti che in passato, sul rapporto tra etica, scienza e tecnica; e tra scienza, tecnica e politica in questo tempo storico. In poche parole, riaccendendo una maggiore attenzione al rapporto tra responsabilità etica e responsabilità scientifica. Dunque, credo che questi e molti altri interrogativi, peraltro già oggetto di convegni, dibattiti e pagine e pagine di volumi e testi accademici, dovranno entrare a far parte di una riflessione più diffusa e consapevole tra i cittadini e tra coloro che ci governano, che operano scelte e prendono decisioni per tutto il popolo cosiddetto sovrano.

Ascoltiamo autorevoli medici e specialisti dichiarare in televisione che stanno sperimentando sui malati Covid 19 l’efficacia di farmaci e, mentre muoiono migliaia di persone, si continua ad elogiare il loro impegno. A suo parere come si tengono insieme, nello stesso paese, una incrollabile fiducia e le frequenti aggressioni ai medici negli ospedali?
Come ho detto, bisogna innanzitutto verificare se la fiducia di cui parliamo sia quella autentica che indicavo prima, o sia una forma di reazione o di bisogno emotivo collettivo; in secondo luogo, le aggressioni a medici e a personale paramedico si collegano, a mio parere, al quadro ben più ampio, e direi preoccupante, di una crescente aggressività sociale, figlia di una cultura del far west, talvolta latente ma molto devastante, secondo cui è meglio farsi “giustizia” da soli, e che premia chi si impone con la forza dell’intimidazione o della prevaricazione violenta: insomma, che è vincente chi incute paura piuttosto che chi sa rispettare gli altri per una convivenza civile. Viviamo in un clima sociale e culturale violento anche quando non si parla direttamente ed esplicitamente di violenza. C’è aggressività e prevaricazione nelle parole, nelle idee, nelle immagini simboliche e nelle rappresentazioni dei nuovi miti, delle icone di successo, in cui spesso prevale la forza del più forte, il potere di chi ha potere, ecc. C’è scarsa considerazione sociale per chi preferisce i toni pacati, il rispetto delle regole, per chi è debole e vulnerabile, sotto vari aspetti e implicazioni. E non c’è tolleranza per chi non accetta di stare al gioco del più forte, per chi non scende a compromessi, o non teme minacce e intimidazioni. Per non parlare del ricorso purtroppo sempre più diffuso e gratuito tra gli adolescenti a comportamenti violenti di gruppo, spesso consumati a danno appunto di soggetti fragili, inoffensivi ed incapaci di reagire.
A proposito di violenza, non posso non citare anche quella di genere. E non perché ormai sia diventato un richiamo quasi di rito. Ma perché l’attuale situazione di segregazione domiciliare a causa delle misure di contenimento del contagio stanno costringendo molte donne a vivere con il loro partner maltrattante senza alcuna possibilità di contatto esterno e di richiesta di aiuto. Molte associazioni e reti di centri antiviolenza hanno segnalato e continuano ad allertare istituzioni e opinione pubblica su questa emergenza nell’emergenza. E qui bisognerebbe aprire un ampio capitolo, ma magari in un’altra occasione.
Tornando ad un discorso più generale, paura, insicurezza, rabbia, impotenza, sono elementi di una miscela esplosiva che dunque non risparmia nemmeno i medici e gli operatori sanitari, persino in questo momento nel quale potremmo dire che siamo proprio nelle loro mani. Ma è altresì vero che violenza e aggressività fanno parte fin dalle origini della natura e della convivenza umana. Freud rispose ad Einstein che non c’è speranza nel voler sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Ed il filosofo Thomas Hobbes teorizzò in modo acutissimo come la paura della morte violenta, nello stato di natura, sia alla base del contratto sociale e della nascita dello Stato. Piuttosto, la novità del nostro tempo è che non ci troviamo dinnanzi ad un mutamento della sua essenza ma ad un diverso modo di considerare, di percepire e di valutare la violenza. Inoltre, separazione e isolamento possono contribuire ad aumentare condizioni psicologiche favorevoli a considerare l’altro un ostacolo o un pericolo alla propria libertà e salute.
Ma credo che in questa esperienza di distanziazione sociale si stia anche sperimentando una mancanza dell’incontro con l’altro che spinge, in maniera più o meno consapevole, a considerare un senso più profondo della comunità, del vivere con gli altri e prendendosi cura degli altri. Voglio pensare che la condizione in cui stiamo vivendo in questi mesi potrebbe ridestare a lungo termine, cioè superato l’attuale stato psicologico e sociale di criticità, un nuovo senso della relazione e della prossimità, un rinnovato bisogno di custodire e coltivare una dimora comune. Voglio crederci. È su questo scatto di umanità che bisogna puntare, che bisogna scommettere.
Da qui si può e si deve fare un passo in avanti, salire più in alto per un orizzonte più ampio sulla vita umana e sul futuro di questo pianeta.

Questo articolo è pubblicato anche in noidonne.org

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