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di Tiziana Bartolini

Abbiamo incontrato il lato oscuro di una globalizzazione distorta che ha dimenticato l'essere umano e i valori etici

Nel villaggio globale ci sentiamo un po' tutti cittadini del mondo e ci siamo abituati a godere dei vantaggi prodotti dall'abbattimento di tante barriere. Apprezziamo la libertà di viaggiare potendo percorrere con velocità e a basso costo grandi distanze, di studiare o lavorare all'estero, di importare o esportare grandi quantità di prodotti. Da tempo c'è chi segnala le distorsioni di un sistema imperniato esclusivamente sui benefici economici e sul predominio della tecnologia, approcci che non pongono al vertice della scala dei valori l'essere umano. In sostanza abbiamo voluto vedere della globalizzazione solo gli aspetti positivi e non abbiamo avuto il coraggio o la lungimiranza di valutare i rischi correlati ad una così larga e variegata condivisione di interessi e bisogni, abitudini e percorsi storici e culturali. Abbiamo vissuto una sorta di folle corsa a briglie sciolte e a senso unico verso un profitto miope, incuranti delle crescenti disuguaglianze tra popoli e persone. Sul tema dell'ambivalenza della globalizzazione, che ha investito prepotentemente il mondo con l'epidemia Covid-19, dialoghiamo con la professoressa Luisella Battaglia, professoressa di Filosofia Morale all'Università di Genova e componente del Comitato Nazionale di Bioetica e fondatrice dell'Istituto Italiano di Bioetica, continuando il ciclo di riflessioni sugli aspetti bioetici e filosofici che l'epidemia ci sottopone (iniziato con il PRENDERSI CURA). Tutta Italia è dichiarata 'zona rossa'. Siamo passati dal massimo delle libertà al massimo delle restrizioni: confinati nelle nostre case e obbligati a rispettare quelle che non sono semplici indicazioni o inviti, ma obblighi precisi. Professoressa Battaglia, questo le sembra il prezzo da pagare per una globalizzazione che non è stata mai 'meditata' o per la quale non c'è stata negli anni una adeguata elaborazione?
L’interdipendenza del mondo contemporaneo è profondamente ambivalente. Gli eventi catastrofici che abbiamo vissuto nel passato – da Seveso a Bopal, da Chernobyl a Fukushima –, generando il timore di una contaminazione generalizzata della nostra vita quotidiana, ci hanno fatto percepire il lato oscuro della globalizzazione. Le catastrofi che ormai temiamo maggiormente sono quelle indotte dal nostro sistema socio-economico e dal nostro modo di vivere: non sono più, come un tempo, un’espressione della natura ma piuttosto del nostro rapporto tecnico e simbolico con essa e, aggiungerei, delle nostre relazioni distorte e pericolose con le altre specie. Con l’avvento dell’antropocene, è emerso infatti in tutta la sua drammaticità il nodo cruciale e eticamente ancora irrisolto del rapporto tra umani e animali, sollevato - nel caso del coronavirus - dal sospetto di una trasmissione attraverso un salto di specie. Un tema, questo, che chiama in causa le enormi questioni della globalizzazione dei mercati e gli stessi equilibri politici ed economici del mondo ma solleva anche l’istanza di una giustizia che - come ammonisce la filosofa Martha Nussbaum in Nuove frontiere della giustizia - dovrebbe ormai estendersi oltre i confini della nostra specie. Se il problema è globale la soluzione non può che essere globale. Non meno, quindi, ma più buona globalizzazione.

Al momento il fermo totale nazionale è previsto fino al 25 marzo 2020, un tempo lungo in cui tutta la popolazione sarà costretta a vivere una inedita condizione. Dal suo punto di vista, quali sono le conseguenze o gli effetti - sui singoli individui e/o sulla comunità - prevedibili? E quelli auspicabili?
La decretazione d’urgenza che stiamo vivendo, a causa della pandemia appena conclamata, ci mostra l’intreccio sempre più forte tra politica e vita biologica, un intreccio che può assumere caratteri inquietanti – e di questi si occupa diffusamente in particolare la biopolitica – per la spinta crescente verso stati d’eccezione che potrebbero mettere a rischio i nostri diritti di libertà, omologando le procedure di stati democratici a quelle di stati autoritari. E tuttavia, la stessa severità di talune decisioni per cui, ad esempio, i gesti più minuti della nostra quotidianità sono sottratti alla sfera privata e tendono ad assumere loro malgrado un rilievo pubblico, può contribuire a rafforzare un sentimento della comunità, un’idea di appartenenza che sembra confluire in una sorta di patto di cittadinanza. “Aiutiamoci l’un l’altro”, “insieme ce la faremo” sono solo slogan consolatori o esprimono una nuova consapevolezza, portando alla luce quella che potremmo chiamare la radice virtuosa della democrazia? Forse l’educazione alla cittadinanza di cui abbiamo tanto parlato, senza mai riuscire a darne una convincente definizione, potrebbe cominciare proprio da qui.

Stiamo vivendo una circostanza eccezionale che ci obbliga ad "essere comunità" nei comportamenti e nelle preoccupazioni, condividendo i rischi del contagio e le sorti del sistema economico. L'assunzione di responsabilità individuale e collettiva che ci viene richiesta, secondo lei, è destinata ad avere un impatto rispetto alla nostra percezione del e nel mondo?
La trasformazione del mondo in un ‘villaggio globale’ – effetto non secondario anche dell’esplosione del coronavirus – ha prodotto una differenza cruciale, benché non ancora sufficientemente riconosciuta, nella nostra situazione morale. L’estensione dei nostri orizzonti morali, al di là dei confini spaziali, costituisce in effetti uno stadio significativo nello sviluppo di un’etica autenticamente umana. L’idea guida è quella dell’expanding circle, ovvero di un cerchio che si allarga progressivamente fino a comprendere ambiti sempre più vasti, in una dimensione planetaria. Da qui l’esigenza di uscire dal vecchio quadro di riferimento della moralità tradizionale e di elaborare un’etica della responsabilità su scala mondiale, come sola adeguata ad affrontare i problemi cruciali di sopravvivenza per un’umanità intesa ormai come una comunità di destino.
Se ci chiedessimo, ad esempio, chi è il nostro prossimo, per rispondere dovremmo forse cominciare a sganciare il concetto di prossimo da quello di prossimità. Non è un’operazione facile ma, a ben riflettere, ormai il prossimo – inteso in senso forte come composto da tutti coloro su cui esercitiamo potere e su cui pertanto siamo moralmente tenuti a vincolare le nostre scelte - si colloca al di là della prossimità, sia essa spaziale - la nostra ‘tribù’ -, temporale - i nostri figli - o di specie - la razza umana.

Intervista pubblicata in noidonne.org

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