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Che cosa ha rappresentato – e continua a rappresentare – per noi il crollo del ponte Morandi? Quali effetti ha prodotto nelle nostre vite e nelle nostre coscienze? Secondo una lettura strettamente psicoanalitica il crollo, per l’ondata emotiva suscitata dalla catastrofe, più intensa nella nostra città che altrove, avrebbe prodotto effetti psichicamente devastanti in uomini e donne che non hanno avuto una relazione diretta col disastro. Tra questi, vissuti di precarietà psichica, azzeramento di progetti esistenziali, depressione e angoscia di morte, paura del futuro, lutti e perdite irrisarcibili, impotente bisogno di giustizia.

Senza negare, in alcun modo, la validità di questa analisi, vorrei introdurre qualche altro elemento che potrebbe integrare, da un punto di vista etico, quanto è stato detto.

Siamo davvero sicuri che quella ferita aperta non abbia prodotto altri effetti, non distruttivi, ma invece costruttivi? Mi è tornato alla mente una riflessione della filosofa Judih Butler in Vite precarie - una raccolta di saggi scritti dopo la tragedia delle Twin Towers - circa la “possibilità di trovare un fondamento di comunità” a partire dalla condizione di vulnerabilità. A suo avviso, riconoscere di essere vulnerabili significa uscire da una prospettiva individualistica per accedere a una visione relazionale capace di recuperare il legame di responsabilità collettiva per la vita l’uno dell’altro.

La nostra indifferenza trova probabilmente il suo fondamento nella mancata consapevolezza della nostra comune vulnerabilità, quella condizione che già Rousseau aveva indicato come spiegazione dell’arrogante durezza di chi si ritiene per natura superiore al dolore degli altri: “Perché i ricchi sono così duri con i poveri? Perché non hanno paura di cadere in povertà.” La sua conclusione pedagogica era di non insegnare a un giovane di guardare dall’alto i dolori degli infelici: “Non sperate di insegnargli a compiangerli, se li considera estranei alla propria esistenza”. Ecco dunque la radice della compassione, un sentimento da recuperare nel suo significato autentico del “patire con”, della condivisione fraterna e quindi della solidarietà. Questo aspetto è evidenziato da Aristotele con una straordinaria sapienza psicologica. Secondo la sua analisi, la compassione ha bisogno, per manifestarsi, di tre condizioni. La prima è che un evento assai grave abbia colpito qualcuno; la seconda è che esso non sia dipeso dalla sua responsabilità; la terza è che noi avvertiamo di essere potenzialmente esposti allo stesso pericolo. In estrema sintesi, perché scatti la compassione occorre un triplice riconoscimento: quello della gravità di un evento; quello dell’innocenza della vittima; quello della nostra stessa vulnerabilità.

Ora, queste condizioni sono tutte palesemente presenti nella tragedia che la nostra città ha vissuto e a cui sta dando una risposta collettiva in termini di vera comunità e di fraterna solidarietà. È possibile, dunque, educare alla compassione, un sentimento probabilmente radicato nel nostro patrimonio biologico ma che ha bisogno tuttavia di essere coltivato? Taluni eventi che irrompono drammaticamente nelle nostre vite possono essere - lo si è visto - un’occasione per riconoscere la nostra comune vulnerabilità, per attivare la nostra immaginazione morale facendoci comprendere che cosa significherebbe per noi - vivi per caso - provare quel lutto e quel dolore.

Il SECOLO XIX
sabato 20 ottobre 2018

Luisella Battaglia

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