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La Consulta contro il paternalismo di Stato*
Luisella Battaglia
La sentenza della Corte Costituzionale ha ulteriormente smantellato l’impianto della legge 40 sulla fecondazione assistita, facendo cadere il divieto di ricorrere a tecniche di fecondazione eterologa (cioè con gameti di persone estranee alla coppia) e consentendo quindi a coppie desiderose di avere un figlio di non dover più migrare verso paesi più tolleranti e liberali del nostro.
In precedenza, la legge aveva conosciuto altre e ben meritate bocciature: dal divieto di produrre più di tre embrioni all’obbligo di impiantare contemporaneamente tutti gli embrioni prodotti al divieto di diagnosi preimpianto. Oggi salutiamo una sentenza civile e largamente auspicata che ha suscitato tuttavia alte grida di dolore da parte del consueto stuolo di profeti di sventure: v’è chi ha parlato di ‘fecondazione selvaggia’, di ‘sentenza choc’ e di ‘ultima follia italiana’. Ma in che precisamente consisterebbero lo choc e la follia? Proviamo a riflettere.
Sappiamo che esistono rilevanti ostacoli di origine culturale nei confronti della procreazione assistita, tra cui la diffidenza per l’artificiale identificato col negativo e col male e contrapposto al naturale associato, simmetricamente, al positivo e al buono. Si può rilevare però che è artificiale anche quella famiglia adottiva che muove da un’idea di genitorialità che va al di là del piano meramente biologico ma che—si è tutti pronti ad ammetterlo--riflette un ethos profondo. Perché, dunque, dovremmo preferire la casualità assoluta della procreazione naturale all’intenzionalità deliberata di un progetto tenacemente perseguito? Perché dovremmo pensare che la coppia che si affida alle nuove tecnologie riproduttive non sia mossa dagli stessi sentimenti che animano le altre? Perché negare pregiudizialmente l’esistenza di un ethos a quell’altra forma di famiglia altrettanto artificiale che si serve, per realizzare il suo progetto esistenziale, della fecondazione assistita? Lo potremmo, sì, ma a condizione di sostenere che solo ciò che è naturale e biologico è. per ciò stesso. buono: il che, forse, può valere per gli alimenti, molto meno per le famiglie.
Una delle conseguenze della legge 40 è stato di ridurre drasticamente, se non di vanificare, lo spazio delle azioni permissibili, la cosiddetta ‘sfera di liceità’, collocabile tra i due estremi di ciò che è obbligatorio e di ciò che è vietato – quella sfera, propria dello stato liberale, che dovrebbe consentire ad ogni cittadino, in piena libertà di coscienza, di assumere decisioni relative ai suoi progetti, anche procreativi, che corrispondano alla sua idea di ‘vita buona’.
Su un tema delicato e complesso, come quello della procreazione assistita, è legittimo—e forse necessario—che si diano opinioni diverse. La tolleranza rende possibile la differenza ma la differenza, come rileva Michael Walzer, rende necessaria la tolleranza. Se non vogliamo vivere in uno stato paternalista che decide per noi quel che è bene fare o evitare, se intendiamo ‘uscire dallo stato di minorità’, per riprendere le parole del massimo filosofo liberale tedesco del 700, Immanuel Kant, occorre l’assunzione esplicita delle responsabilità che ci vengono dal nostro status di cittadini. Ora, tenendo conto della natura controversa delle tesi filosofiche ed etiche cui si richiamano sia i divieti che le prescrizioni della legge 40, non si può non rilevare che essa traduce sul piano giuridico una sola delle diverse concezioni etiche in campo, quella appunto più rigorista, intransigente e restrittiva, ignorandone altre, sostenute da ragioni eticamente altrettanto valide.
Da qui il rischio, segnalato da più parti,di una regressione culturale e istituzionale con la messa in crisi del principio stesso della laicità dello Stato, quale si era venuto affermando fin dagli anni settanta con l’approvazione delle leggi sul divorzio, il nuovo diritto di famiglia, secondo una linea evolutiva che valorizzava l’autodeterminazione degli individui e rispettava la pluralità delle concezioni etiche. La legge 40, col suo sancire il primato del vincolo di sangue, sembra in effetti contraddire quel ridimensionamento del dato biologico come fondamento delle relazioni familiari che era stato uno dei cardini della riforma del diritto di famiglia, ma soprattutto viola quella distinzione tra sfera pubblica (politica) e sfera privata (morale) che, dal ‘600 in poi, costituisce un patrimonio ideale irrinunciabile del mondo moderno.
Si è parlato, a proposito di procreazione assistita, di famiglia ‘artificiale’ ma esiste un altro esempio di artificialità: l’adozione. Le differenze sono evidenti: la prima e più ovvia, è che l’adozione è un istituto pensato per dare una famiglia a un bambino che già c’è, laddove la fecondazione eterologa è una pratica che intende aiutare una coppia ad avere un bambino ‘suo’; nel primo caso al centro dell’attenzione è il bambino, nel secondo la coppia. E’ tuttavia un progetto di genitorialità che si realizza: in entrambi i casi, c’è una forte volontà di costituire una famiglia fondata su legami sociali anziché su vincoli di sangue; è la decisione di un uomo e di una donna che sottraggono la paternità e la maternità alla natura e al destino. Perché ostacolarla? Quando il progetto procreativo è voluto con piena consapevolezza da una coppia--debitamente informata su tutti gli aspetti problematici che le nuove tecnologie comportano--non sembra in alcun modo giustificato un divieto che nega di fatto quell’autonomia che costituisce un principio irrinunciabile della nostra civiltà in campi come la famiglia, la sessualità, la procreazione.
*Una versione più breve è stata pubblicata giovedì 10 aprile 2014 sul ‘Secolo XIX’ (1° e 3° pagina) col titolo
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