I quesiti e la consultazione popolare: quanti strappi alla sentenza Paladin
Sempre più variabile il giudizio sull’ammissibilità delle proposte
di Mauro Fusco
(pubblicato su D&G, supplemento settimanale a “Diritto e giustizia” n.7 del 19 febbraio 2005)
Referendum abrogativo totale sulla procreazione assistita: dopo la bocciatura da parte della Consulta vale la pena di fare il punto sulle motivazioni di un prevedibile diniego. C’era molta attesa, negli ultimi mesi, per la pronuncia della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei cinque referendum proposti al fine di abrogare parzialmente o integralmente la contestatissima legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita. Tale attesa si è caricata di ulteriore tensione negli ultimi giorni, nelle more di conoscere le motivazioni delle sentenze n. 45, 46, 47, 48 e 49/2005 (il testo integrale delle sentenze è pubblicato su Diritto&Giustizia del 1 febbraio), depositate il 28 gennaio, il cui dispositivo, che dichiara ammissibili unicamente i quattro referendum parziali e respinge invece quello sull’abrogazione integrale, era già stato anticipato lo scorso 13 gennaio.
L’iniziativa referendaria, portata avanti da vari comitati promotori (radicali innanzitutto, ma anche comitati trasversali composti da esponenti di vari partiti, compresi quelli della maggioranza ed associazioni varie) ha visto, infatti, un’ampia partecipazione popolare e si era conclusa il 30 settembre scorso con il deposito in Cassazione di oltre 4 milioni di firme, di cui oltre un milione per il solo quesito abrogativo totale. Il risultato, notevole anche in considerazione della pausa estiva, era tuttavia prevedibile a causa dell’ampio dibattito popolare che dalla fine del 2003 ha avuto come oggetto i numerosi limiti e punti oscuri di una legge che ha profondamente diviso il paese.
Non può che destare particolare interesse, pertanto, la decisione della Corte Costituzionale di non ammettere, con la sentenza n.45 del 2005, il quesito maggiormente rappresentativo che, proponendosi di eliminare in toto una legge ritenuta troppo rigida ed ideologicamente connotata, aveva avuto il maggior sostegno popolare (un milione e 50 mila firme contro le 750 mila depositate per gli altri). A tal proposito va detto innanzitutto che il quesito abrogativo su una intera legge non costituisce di certo la regola nella storia di questo istituto, atteso che sulle 128 richieste di referendum su cui la Corte era stata chiamata a pronunciarsi prima della campagna attuale, soltanto 18 riguardavano interi testi normativi e solo 10 erano stati ritenuti ammissibili. Nel caso di specie l’abrogazione totale della legge avrebbe avuto l’indiscutibile pregio di evitare correzioni tardive ed approssimative apportate ad una legge già di per sé contraddittoria e con molti dubbi di costituzionalità, oltre che di costringere il Parlamento a pronunciarsi nuovamente ed in tempi brevi in materia di procreazione assistita. Dall’altro lato un’eventuale abrogazione totale avrebbe, tuttavia, comportato l’inevitabile problema di privare nuovamente la materia di qualsivoglia regolamentazione, condizione in cui versava fino allo scorso anno il nostro paese, dove tutto era consentito poiché nulla era esplicitamente vietato. Questa motivazione è sicuramente alla base della decisione della Corte Costituzionale n. 45/2005 di ritenere inammissibile il quesito che avrebbe cancellato la “prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che negli anni piu' recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche e che indubbiamente coinvolge una pluralita' di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un minimo di tutela legislativa”.
Per comprendere appieno le ragioni espresse dai giudici costituzionali nella sentenza in questione non si può però prescindere dai precedenti giurisprudenziali della Corte degli ultimi venticinque anni, che inevitabilmente hanno condizionato, in maniera anche rilevante, tutte le pronunce che ci si appresta ad esaminare. A parte il dettato letterale dell’art. 75 della Costituzione, che prevede l’inammissibilità dei referendum sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e d'indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, la Corte ha infatti elaborato, a partire dalla ormai storica sentenza n.16 del 1978, una serie di ulteriori cause d'inammissibilità, interpretate in modo non sempre univoco, e relative all’oggetto del quesito, alla formulazione del medesimo, nonché ai possibili effetti incostituzionali dell’abrogazione. In particolare i criteri di inammissibilità introdotti dalla sentenza erano sostanzialmente quattro: 1) mancata omogeneità e chiarezza dei quesiti; 2) abrogazione di leggi costituzionali con forza passiva peculiare (le cosiddette leggi rinforzate o leggi costituzionali); 3) abrogazione di leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, “il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)”, 4) abrogazione di leggi strettamente collegate “all'ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall'art. 75”. Tali criteri, rigorosamente enunciati nella sentenza Paladin, sono stati poi nel corso degli anni interpretati in maniera assai eterogenea da una giurisprudenza che ne ha progressivamente allargato i confini, nel tentativo di mettere al riparo l’ordinamento giuridico e l’insieme dei cittadini, dalle eventuali conseguenze di quesiti oscuri e da eventuali effetti negativi sulla legislazione che ne potevano scaturire. Ne è derivata una giurisprudenza costituzionale oltre che contraddittoria, del tutto incerta e dunque sostanzialmente imprevedibile nei suoi sviluppi (cfr. A. Barbera a A. Morrone, La Repubblica dei referendum, Il mulino, Bologna, 2003) che ha introdotto nuove prassi come “la tecnica del ritaglio” da cui sono scaturiti i referendum cd. manipolativi, o sottili distinzioni come quella tra leggi a contenuto costituzionalmente obbligatorio e leggi a contenuto costituzionalmente vincolato. In particolare quest’ultima categoria assume particolare rilevanza nella sentenza della Corte n. 45 del 28.01.05 che ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo totale sulla procreazione assistita. Nata quindi per difendere da un’eventuale e improvvida abrogazione le norme che danno attuazione alla Costituzione, che regolano il funzionamento di organi costituzionali o che assicurano garanzie costituzionali (es. abolizione di una legge elettorale che impedisca nuove elezioni), la categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato è stata progressivamente estesa, nel corso degli anni anche alle leggi che garantiscano quel “minimo di tutela” che un diritto esige in base alla Costituzione (per l’analisi di tale percorso cfr. le decisioni n. 16/1978, n. 26/1981; n. 27/1987; n. 63/1990; n. 47/1991; n. 35/1993; nn. 15, 17, 18, 19, 21, 24, 25, 31, 33, da 35 a 38 del 1997; n. 13/1999, nn. 42 e 49 del 2000), formula, questa, delineata dalla giurisprudenza della Corte in occasione delle decisioni relative all’ammissibilità del referendum sulla 194/78 in materia di aborto. In particolare, proprio nella sentenza n. 35 del 30 gennaio 1997 alcuni quesiti abrogativi della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza venivano ritenuti inammissibili sulla base della necessità di assicurare la tutela necessaria minima ai diritti costituzionalmente garantiti contenuti nella legge 194, ovvero il diritto alla vita ed alla salute della donna, la protezione della maternità ed, in subordine, la tutela del concepito, già peraltro affermati nella sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975. Tale orientamento veniva poi ripreso dalla sentenza n. 49/2000, richiamata anche nella sentenza n. 45/2005, che affermava il principio per cui le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato in quanto «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».
Proprio questa motivazione, utilizzata nel 1997 per “difendere” dall’attacco referendario la legge sull’aborto viene oggi ripresa per “salvare” la legge sulla procreazione assistita, dalle conseguenze, ritenute inammissibili di un’abrogazione totale. L’applicazione analogica di tale principio, così come l’argomentazione in base alla quale il ritorno al vuoto normativo preesistente non sarebbe accettabile, non possono tuttavia che destare alcune perplessità.
In primo luogo va rilevato che, sebbene le normative sull’aborto e sulla procreazione assistita, abbiano numerosi punti in comune, primo fra tutti l’autodeterminazione della donna e della coppia in materia di procreazione, esse coinvolgono interessi sicuramente differenti, così come pure è differente il contesto della sentenza del ’97 da quello della decisione attuale. La pronuncia Vassalli del ’97 interveniva infatti su di un referendum che rimetteva in discussione un bilanciamento di interessi, operato dalla stessa Corte nella storica sentenza n. 27/1975, ormai consolidato ed accettato dalla coscienza morale di gran parte dei cittadini da circa venti anni, e che, fra le altre cose, aveva già avuto una conferma dalla volontà popolare in sede referendaria. E’ evidente che tutto questo non sia comparabile in alcun modo con gli interessi tutelati dalla legge 40. Come già è stato ampiamente rilevato più volte e da più parti (cfr. D&G numero 18 dell’8 maggio 2004 e n. 25 del 26 giugno 2004), e come risulta anche dalla semplice lettura della legge in questione, la 40/2004 si pone come obiettivo principale la tutela del concepito che, nella fattispecie, non si trova nel grembo della madre al secondo mese della gravidanza ma allo stato di 2-8 cellule in provetta o crioconservato sotto azoto liquido. Sul punto è ben noto a tutti che il dibattito intorno allo statuto ontologico e giuridico di tale embrione ai primissimi stadi del suo sviluppo sia tutt’altro che pacifico, così come pure il fatto che non sia assolutamente consolidato né nella coscienza morale né in giurisprudenza il ritenere prevalente il diritto a nascere di quest’ultimo sul bisogno della coppia di procreare, per non parlare di quello del malato di veder utilizzati eventuali embrioni “in soprannumero” per la cura di una patologia degenerativa. A riguardo la legge prevede, in una materia estremamente delicata e personale, un bilanciamento tra valori contrastanti che è solo uno dei tanti bilanciamenti possibili, frutto di una scelta squisitamente politica (e, ci si consenta, per molti versi ideologica) e, come tale, pienamente sindacabile dal corpo elettorale. Fuorviante appare, pertanto, il riferimento ulteriore, fatto dagli attuali giudici, alla sentenza n.347 del 1998, nella quale, pronunciandosi sulla necessità di tutelare la status giuridico dei nati da procreazione assistita, e non dei “nascituri” (nella fattispecie la questione era relativa all'esperibilità dell'azione di disconoscimento di paternità da parte del padre che avesse precedentemente acconsentito alla procreazione eterologa; sul punto cfr. anche Cass. n.2315 del 16 marzo 1999), la Corte affermava unicamente l’esigenza di operare tale bilanciamento, ma men che mai prendeva posizione nei confronti dei cd. “diritti del concepito”.
Giova inoltre ricordare che, per quanto concerne la sindacabilità di una legge da parte del corpo elettorale con lo strumento del referendum, tale istituto si colloca nella sfera della libertà dei cittadini, in quanto è volto ad ottenere che il popolo possa liberarsi di una legge ritenuta iniqua o non condivisa dalla maggioranza degli elettori. Pertanto, secondo la lettera e lo spirito del dettato costituzionale, l’ammissibilità del referendum dovrebbe essere la regola, mentre l’inammissibilità l’eccezione. In questo la mancata ammissibilità del quesito abrogativo totale si presenta come un’occasione persa per verificare se la cittadinanza condivida o meno il bilanciamento di interessi operato dal legislatore e se approvi o meno un intervento tanto deciso ed invadente dello stato in una materia così delicata, giudizio ricavabile solo in parte dai quattro referendum “parziali”.
In secondo luogo, pure non convincenti appaiono i riferimenti, mossi nell’ultima parte delle motivazioni della sentenza n. 45 ma presenti in tutte e cinque le pronunce, alla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina. Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina), e al relativo protocollo aggiuntivo sulla clonazione del 12 gennaio 1998, entrambi ratificati dall’Italia con la legge 145/2001, nonché alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000. Nonostante tali atti internazionali siano documenti importantissimi per la tutela dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione, appare francamente eccessivo ritenere che le norme contenute nella legge 40 possano costituire “osservanza dei precetti derivanti da norme internazionali o europee, o quanto meno in stretto collegamento con esse”, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, insolitamente costituitasi in giudizio per conto del Governo, né tantomeno realizzazione delle “finalità di bilanciamento e di tutela” contenute in tali atti, così come riportato nella sentenza n.45.
Sebbene la legge sulla procreazione assistita si proponga, infatti, di tutelare i medesimi valori difesi dalla Convenzione e dalla Carta di Nizza, è altrettanto vero che l’abrogazione della legge 40 non influirebbe in alcun modo sull’applicabilità dei principi della Convenzione, divenuta a tutti gli effetti legge dello stato dal 2001, né della Carta di Nizza, oggi assorbita nella recente Costituzione Europea. Va inoltre detto che i limiti imposti dalla legge 40/2004 vanno ben oltre le formulazioni di principio sia della Convenzione di Oviedo che della Carta di Nizza e che lasciano, tra l’altro, ampia autonomia ai legislatori nazionali, assolutamente omettendo di prendere posizione (circostanza impossibile, attesa l’estrema disomogeneità delle legislazioni dei vari stati membri) su temi specifici e controversi quali la ricerca sulle staminali, la procreazione eterologa o i diritti dell’embrione.
Per quanto concerne invece le altre quattro sentenze, con cui la Corte, ha ammesso i quattro referendum “parziali”, si deve osservare, in via preliminare, che i quesiti proposti vertono su alcune delle norme più controverse della legge 40, su alcune delle quali vi è più di un sospetto di incostituzionalità. A tal proposito, in tutte e cinque le sentenze depositate il 28 gennaio scorso, la Corte ritiene “opportuno” premettere che il giudizio di inammissibilità sul referendum sia autonomo rispetto a quello sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, precisando di non pronunciarsi né sull’eventuale illegittimità costituzionale della legge 40 né sull’illegittimità delle parti che residuerebbero dall’effetto abrogativo dei quesiti parziali. Non è il caso in questa sede di effettuare congetture su eventuali significati nascosti di tale “opportuna premessa”, ma ci si limiterà solo ad evidenziare che i quattro referendum ammessi hanno ad oggetto alcune fra le norme ritenute maggiormente restrittive della normativa, che i comitati promotori si propongono di abrogare mediante la ormai consolidata tecnica del “ritaglio”, consistente nell’eliminazione di singole parole o frasi dal testo normativo. Nonostante la corte abbia ritenuto che i singoli quesiti fossero tutti “omogenei e non contraddittori” perchè tendenti ad abrogare disposizioni normative tra loro “intimamente connesse”, è però innegabile che tali quesiti, oltre ad essere evidentemente oscuri per gli elettori che non possono conoscere e men che mai ricordare parola per parola il testo dei vari articoli abrogati, hanno un chiaro intento manipolativo che, volendo applicare rigorosamente la Costituzione, sarebbe ai limiti dell’ammissibilità. Secondo l’interpretazione più ortodossa della carta costituzionale, il referendum non dovrebbe avere infatti altro scopo che l’eliminazione di una norma da parte della volontà popolare e non di manipolarne il significato attraverso l’eliminazione mirata di singole parole dal contesto in cui si trovano. Orbene, nel caso di specie, l’eliminazione di un divieto, soprattutto in una legge dall’impianto rigido e specifica come quella in questione, equivale, invero, ad ammettere una possibilità, facendo dire al dettato normativo ciò che non voleva dire e finendo, pertanto, inequivocabilmente, col travalicare i limiti intrinseci dell’istituto referendario. Ne discende che, paradossalmente, i quesiti parziali avrebbero dovuto avere meno chanches di ammissibilità rispetto a quello totale, oggi respinto.
Il primo di essi, relativo alla libertà di ricerca scientifica e proposto da un comitato referendario trasversale composto da vari gruppi, comitati e associazioni, oltre che da parlamentari di vari schieramenti ed esponenti del mondo scientifico, si propone di abrogare gli articoli che limitano la libertà di ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni. Tra questi, viene richiesta l’abrogazione delle parti degli art. 12, 13 e 14 che vietano la crioconservazione, la clonazione di qualsiasi tipo e l’utilizzo di embrioni per fini che non ne tutelino la salute e lo sviluppo, vincoli che attualmente impediscono in Italia la ricerca sulle cellule staminali di provenienza embrionale. In relazione a tale quesito la Corte, nella sentenza n.46/05, ha correttamente osservato che la Convenzione di Oviedo, si limita esclusivamente a porre un divieto alla clonazione riproduttiva (intervento che ha per scopo di creare un essere umano identico ad un altro essere umano morto o vivente) e non anche a quella terapeutica, finalizzata invece alla produzione di cellule staminali embrionali, così come invece fa la legge 40. Pertanto, in considerazione del fatto che gli interventi di clonazione riproduttiva “risultano vietati anche alla stregua della normativa di risulta” e che il quesito “mira, univocamente, ad ampliare la possibilità di ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni umani con finalità terapeutiche e diagnostiche”, la Corte ne ha sancito l’ammissibilità.
Il secondo quesito sulla “salute della donna”, sostenuto anch’esso da comitati ed associazioni di diversa provenienza politica, chiede l’abrogazione delle norme che limitano le possibilità di successo della riproduzione assistita e che limitano i casi in cui questa è consentita. Il referendum in questione riguarda le parti della legge che circoscrivono la procreazione assistita ai soli casi di infertilità o sterilità in assenza di altri metodi terapeutici, il cosiddetto principio di gradualità, il limite dei tre embrioni trasferibili in utero e le contestate disposizioni degli articoli 6 e 13 relative alla presunta irrevocabilità del consenso della donna e all’altrettanto presunto obbligo di impianto. Tale obbligo, considerato da molti incostituzionale, è stato, tra l’altro, già qualificato come “non coercibile” sia dal Tribunale di Catania del 3 maggio 2004 (cfr. Diritto&Giustizia del 28.05.04) sia dalle linee guida emanate con D.M. del 21 luglio 2004.
In ogni caso, le molteplici disposizioni della legge che tale quesito si propone di abrogare sono state ritenute dalla sentenza n.47 del 2005 come aventi “matrice razionalmente unitaria […] riconducibile alla rimozione di una serie di limiti all’accesso ed allo svolgimento delle procedure di procreazione medicalmente assistita”.
Di contenuto del tutto analogo è il referendum oggetto della sentenza n.48/2005, che prevede, oltre all’abrogazione delle norme oggetto del precedente quesito, anche l’eliminazione di quella della parte dell’art.1 che riconosce esplicitamente i diritti del concepito. Tale disposizione è stata qualificata dalla Corte come avente “contenuto meramente enunciativo, dovendosi ricavare la tutela di tutti i soggetti coinvolti e, quindi anche del concepito, dal complesso delle altre disposizioni della legge” e, in quanto tale, legittimamente abrogabile dalla volontà popolare.
L’ultimo quesito, anch’esso giudicato ammissibile con la sentenza n. 49/2005 ha invece ad oggetto la fecondazione eterologa e si propone di eliminare il divieto di ricorrere alle tecniche di fecondazione con i gameti di un donatore/rice e la relativa sanzione. Anche tale pratica, ampiamente diffusa sia nelle strutture sanitarie private italiane prima dell’entrata in vigore della legge, sia negli altri paesi europei, come ammesso, tra l’altro, dall’Avvocatura dello Stato nella sua memoria, non è stata ritenuta dai giudici costituzionali contraria alla Convenzione di Oviedo né il relativo quesito “suscettibile di far venir meno un livello minimo di tutela costituzionalmente necessario”.
Un’ultima considerazione va necessariamente dedicata alle prospettive per il voto, fissato per una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno, soprattutto per quanto concerne le possibilità di raggiungere il quorum stabilito dalla legge.
Come è sicuramente noto ai più, la recente storia del nostro paese ha dimostrato una progressiva crisi dell’istituto referendario che è culminata con il frequente mancato raggiungimento del quorum nelle consultazioni degli ultimi anni (più o meno dal 1997 fino ad oggi). A parte la presentazione di gruppi di quesiti su materie spesso tutt’altro che omogenee, che potevano prevedibilmente suscitare negli elettori una certa “overdose” di consultazioni con la relativa perdita di interesse, ha fatto notevolmente discutere anche il mancato raggiungimento del quorum alle elezioni del 15 giugno 2003 sull’art.18 dello statuto dei lavoratori. La materia, di sicuro interesse per un’ampia parte della cittadinanza, e i quesiti, sostenuti dai sindacati più rappresentativi, non lasciavano infatti supporre un’astensione dalle urne così copiosa. Questo dato di fatto, risalente tra l’altro a meno di due anni fa, non può che alimentare notevoli dubbi sulla possibilità di scongiurare un esito analogo in occasione della prossima consultazione. La materia della procreazione assistita infatti, pur essendo estremamente delicata, riguarda solo una parte minimale della popolazione (nonostante i dati statistici degli ultimi anni sulla sterilità/infertilità diano tali patologie in netto aumento) e, sebbene vi siano notevoli analogie con le battaglie referendarie degli anni ’70 e ’80 su divorzio ed aborto, soprattutto per la contrapposizione, ormai usurata, tra laici e cattolici, non desta sicuramente il medesimo interesse di tali storiche consultazioni. Se a questo si aggiunge la forte spinta dei sostenitori della legge a disertare le urne piuttosto che a votare negativamente, la mancata presa di posizione di molti partiti sia di maggioranza che di opposizione, e l’estrema tecnicità e complessità dei quesiti, è chiaro che le probabilità di una consultazione valida siano sicuramente scarse.
A questa situazione va, infine, ad aggiungersi la consapevolezza che il quesito non ammesso era, fra i cinque, sicuramente il più immediatamente comprensibile per gli elettori, ivi compresi i più distratti e i meno informati sulla materia (così come è stato, tra l’altro, dimostrato anche dal numero di firme raccolte, nettamente superiore agli altri quattro), constatazione che non può che far riflettere, al di là di ogni considerazione giuridica effettuata in precedenza, sulle conseguenze, anche inevitabilmente politiche, delle sentenze appena esaminate sull’esito del voto di maggio.
L’iniziativa referendaria, portata avanti da vari comitati promotori (radicali innanzitutto, ma anche comitati trasversali composti da esponenti di vari partiti, compresi quelli della maggioranza ed associazioni varie) ha visto, infatti, un’ampia partecipazione popolare e si era conclusa il 30 settembre scorso con il deposito in Cassazione di oltre 4 milioni di firme, di cui oltre un milione per il solo quesito abrogativo totale. Il risultato, notevole anche in considerazione della pausa estiva, era tuttavia prevedibile a causa dell’ampio dibattito popolare che dalla fine del 2003 ha avuto come oggetto i numerosi limiti e punti oscuri di una legge che ha profondamente diviso il paese.
Non può che destare particolare interesse, pertanto, la decisione della Corte Costituzionale di non ammettere, con la sentenza n.45 del 2005, il quesito maggiormente rappresentativo che, proponendosi di eliminare in toto una legge ritenuta troppo rigida ed ideologicamente connotata, aveva avuto il maggior sostegno popolare (un milione e 50 mila firme contro le 750 mila depositate per gli altri). A tal proposito va detto innanzitutto che il quesito abrogativo su una intera legge non costituisce di certo la regola nella storia di questo istituto, atteso che sulle 128 richieste di referendum su cui la Corte era stata chiamata a pronunciarsi prima della campagna attuale, soltanto 18 riguardavano interi testi normativi e solo 10 erano stati ritenuti ammissibili. Nel caso di specie l’abrogazione totale della legge avrebbe avuto l’indiscutibile pregio di evitare correzioni tardive ed approssimative apportate ad una legge già di per sé contraddittoria e con molti dubbi di costituzionalità, oltre che di costringere il Parlamento a pronunciarsi nuovamente ed in tempi brevi in materia di procreazione assistita. Dall’altro lato un’eventuale abrogazione totale avrebbe, tuttavia, comportato l’inevitabile problema di privare nuovamente la materia di qualsivoglia regolamentazione, condizione in cui versava fino allo scorso anno il nostro paese, dove tutto era consentito poiché nulla era esplicitamente vietato. Questa motivazione è sicuramente alla base della decisione della Corte Costituzionale n. 45/2005 di ritenere inammissibile il quesito che avrebbe cancellato la “prima legislazione organica relativa ad un delicato settore che negli anni piu' recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche e che indubbiamente coinvolge una pluralita' di rilevanti interessi costituzionali, i quali, nel loro complesso, postulano quanto meno un bilanciamento tra di essi che assicuri un minimo di tutela legislativa”.
Per comprendere appieno le ragioni espresse dai giudici costituzionali nella sentenza in questione non si può però prescindere dai precedenti giurisprudenziali della Corte degli ultimi venticinque anni, che inevitabilmente hanno condizionato, in maniera anche rilevante, tutte le pronunce che ci si appresta ad esaminare. A parte il dettato letterale dell’art. 75 della Costituzione, che prevede l’inammissibilità dei referendum sulle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e d'indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, la Corte ha infatti elaborato, a partire dalla ormai storica sentenza n.16 del 1978, una serie di ulteriori cause d'inammissibilità, interpretate in modo non sempre univoco, e relative all’oggetto del quesito, alla formulazione del medesimo, nonché ai possibili effetti incostituzionali dell’abrogazione. In particolare i criteri di inammissibilità introdotti dalla sentenza erano sostanzialmente quattro: 1) mancata omogeneità e chiarezza dei quesiti; 2) abrogazione di leggi costituzionali con forza passiva peculiare (le cosiddette leggi rinforzate o leggi costituzionali); 3) abrogazione di leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, “il cui nucleo normativo non possa venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali)”, 4) abrogazione di leggi strettamente collegate “all'ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall'art. 75”. Tali criteri, rigorosamente enunciati nella sentenza Paladin, sono stati poi nel corso degli anni interpretati in maniera assai eterogenea da una giurisprudenza che ne ha progressivamente allargato i confini, nel tentativo di mettere al riparo l’ordinamento giuridico e l’insieme dei cittadini, dalle eventuali conseguenze di quesiti oscuri e da eventuali effetti negativi sulla legislazione che ne potevano scaturire. Ne è derivata una giurisprudenza costituzionale oltre che contraddittoria, del tutto incerta e dunque sostanzialmente imprevedibile nei suoi sviluppi (cfr. A. Barbera a A. Morrone, La Repubblica dei referendum, Il mulino, Bologna, 2003) che ha introdotto nuove prassi come “la tecnica del ritaglio” da cui sono scaturiti i referendum cd. manipolativi, o sottili distinzioni come quella tra leggi a contenuto costituzionalmente obbligatorio e leggi a contenuto costituzionalmente vincolato. In particolare quest’ultima categoria assume particolare rilevanza nella sentenza della Corte n. 45 del 28.01.05 che ha dichiarato inammissibile il referendum abrogativo totale sulla procreazione assistita. Nata quindi per difendere da un’eventuale e improvvida abrogazione le norme che danno attuazione alla Costituzione, che regolano il funzionamento di organi costituzionali o che assicurano garanzie costituzionali (es. abolizione di una legge elettorale che impedisca nuove elezioni), la categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato è stata progressivamente estesa, nel corso degli anni anche alle leggi che garantiscano quel “minimo di tutela” che un diritto esige in base alla Costituzione (per l’analisi di tale percorso cfr. le decisioni n. 16/1978, n. 26/1981; n. 27/1987; n. 63/1990; n. 47/1991; n. 35/1993; nn. 15, 17, 18, 19, 21, 24, 25, 31, 33, da 35 a 38 del 1997; n. 13/1999, nn. 42 e 49 del 2000), formula, questa, delineata dalla giurisprudenza della Corte in occasione delle decisioni relative all’ammissibilità del referendum sulla 194/78 in materia di aborto. In particolare, proprio nella sentenza n. 35 del 30 gennaio 1997 alcuni quesiti abrogativi della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza venivano ritenuti inammissibili sulla base della necessità di assicurare la tutela necessaria minima ai diritti costituzionalmente garantiti contenuti nella legge 194, ovvero il diritto alla vita ed alla salute della donna, la protezione della maternità ed, in subordine, la tutela del concepito, già peraltro affermati nella sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975. Tale orientamento veniva poi ripreso dalla sentenza n. 49/2000, richiamata anche nella sentenza n. 45/2005, che affermava il principio per cui le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato in quanto «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona, una volta venute ad esistenza possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina, ma non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento».
Proprio questa motivazione, utilizzata nel 1997 per “difendere” dall’attacco referendario la legge sull’aborto viene oggi ripresa per “salvare” la legge sulla procreazione assistita, dalle conseguenze, ritenute inammissibili di un’abrogazione totale. L’applicazione analogica di tale principio, così come l’argomentazione in base alla quale il ritorno al vuoto normativo preesistente non sarebbe accettabile, non possono tuttavia che destare alcune perplessità.
In primo luogo va rilevato che, sebbene le normative sull’aborto e sulla procreazione assistita, abbiano numerosi punti in comune, primo fra tutti l’autodeterminazione della donna e della coppia in materia di procreazione, esse coinvolgono interessi sicuramente differenti, così come pure è differente il contesto della sentenza del ’97 da quello della decisione attuale. La pronuncia Vassalli del ’97 interveniva infatti su di un referendum che rimetteva in discussione un bilanciamento di interessi, operato dalla stessa Corte nella storica sentenza n. 27/1975, ormai consolidato ed accettato dalla coscienza morale di gran parte dei cittadini da circa venti anni, e che, fra le altre cose, aveva già avuto una conferma dalla volontà popolare in sede referendaria. E’ evidente che tutto questo non sia comparabile in alcun modo con gli interessi tutelati dalla legge 40. Come già è stato ampiamente rilevato più volte e da più parti (cfr. D&G numero 18 dell’8 maggio 2004 e n. 25 del 26 giugno 2004), e come risulta anche dalla semplice lettura della legge in questione, la 40/2004 si pone come obiettivo principale la tutela del concepito che, nella fattispecie, non si trova nel grembo della madre al secondo mese della gravidanza ma allo stato di 2-8 cellule in provetta o crioconservato sotto azoto liquido. Sul punto è ben noto a tutti che il dibattito intorno allo statuto ontologico e giuridico di tale embrione ai primissimi stadi del suo sviluppo sia tutt’altro che pacifico, così come pure il fatto che non sia assolutamente consolidato né nella coscienza morale né in giurisprudenza il ritenere prevalente il diritto a nascere di quest’ultimo sul bisogno della coppia di procreare, per non parlare di quello del malato di veder utilizzati eventuali embrioni “in soprannumero” per la cura di una patologia degenerativa. A riguardo la legge prevede, in una materia estremamente delicata e personale, un bilanciamento tra valori contrastanti che è solo uno dei tanti bilanciamenti possibili, frutto di una scelta squisitamente politica (e, ci si consenta, per molti versi ideologica) e, come tale, pienamente sindacabile dal corpo elettorale. Fuorviante appare, pertanto, il riferimento ulteriore, fatto dagli attuali giudici, alla sentenza n.347 del 1998, nella quale, pronunciandosi sulla necessità di tutelare la status giuridico dei nati da procreazione assistita, e non dei “nascituri” (nella fattispecie la questione era relativa all'esperibilità dell'azione di disconoscimento di paternità da parte del padre che avesse precedentemente acconsentito alla procreazione eterologa; sul punto cfr. anche Cass. n.2315 del 16 marzo 1999), la Corte affermava unicamente l’esigenza di operare tale bilanciamento, ma men che mai prendeva posizione nei confronti dei cd. “diritti del concepito”.
Giova inoltre ricordare che, per quanto concerne la sindacabilità di una legge da parte del corpo elettorale con lo strumento del referendum, tale istituto si colloca nella sfera della libertà dei cittadini, in quanto è volto ad ottenere che il popolo possa liberarsi di una legge ritenuta iniqua o non condivisa dalla maggioranza degli elettori. Pertanto, secondo la lettera e lo spirito del dettato costituzionale, l’ammissibilità del referendum dovrebbe essere la regola, mentre l’inammissibilità l’eccezione. In questo la mancata ammissibilità del quesito abrogativo totale si presenta come un’occasione persa per verificare se la cittadinanza condivida o meno il bilanciamento di interessi operato dal legislatore e se approvi o meno un intervento tanto deciso ed invadente dello stato in una materia così delicata, giudizio ricavabile solo in parte dai quattro referendum “parziali”.
In secondo luogo, pure non convincenti appaiono i riferimenti, mossi nell’ultima parte delle motivazioni della sentenza n. 45 ma presenti in tutte e cinque le pronunce, alla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina. Convenzione sui diritti dell'uomo e la biomedicina), e al relativo protocollo aggiuntivo sulla clonazione del 12 gennaio 1998, entrambi ratificati dall’Italia con la legge 145/2001, nonché alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000. Nonostante tali atti internazionali siano documenti importantissimi per la tutela dei diritti fondamentali all’interno dell’Unione, appare francamente eccessivo ritenere che le norme contenute nella legge 40 possano costituire “osservanza dei precetti derivanti da norme internazionali o europee, o quanto meno in stretto collegamento con esse”, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, insolitamente costituitasi in giudizio per conto del Governo, né tantomeno realizzazione delle “finalità di bilanciamento e di tutela” contenute in tali atti, così come riportato nella sentenza n.45.
Sebbene la legge sulla procreazione assistita si proponga, infatti, di tutelare i medesimi valori difesi dalla Convenzione e dalla Carta di Nizza, è altrettanto vero che l’abrogazione della legge 40 non influirebbe in alcun modo sull’applicabilità dei principi della Convenzione, divenuta a tutti gli effetti legge dello stato dal 2001, né della Carta di Nizza, oggi assorbita nella recente Costituzione Europea. Va inoltre detto che i limiti imposti dalla legge 40/2004 vanno ben oltre le formulazioni di principio sia della Convenzione di Oviedo che della Carta di Nizza e che lasciano, tra l’altro, ampia autonomia ai legislatori nazionali, assolutamente omettendo di prendere posizione (circostanza impossibile, attesa l’estrema disomogeneità delle legislazioni dei vari stati membri) su temi specifici e controversi quali la ricerca sulle staminali, la procreazione eterologa o i diritti dell’embrione.
Per quanto concerne invece le altre quattro sentenze, con cui la Corte, ha ammesso i quattro referendum “parziali”, si deve osservare, in via preliminare, che i quesiti proposti vertono su alcune delle norme più controverse della legge 40, su alcune delle quali vi è più di un sospetto di incostituzionalità. A tal proposito, in tutte e cinque le sentenze depositate il 28 gennaio scorso, la Corte ritiene “opportuno” premettere che il giudizio di inammissibilità sul referendum sia autonomo rispetto a quello sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, precisando di non pronunciarsi né sull’eventuale illegittimità costituzionale della legge 40 né sull’illegittimità delle parti che residuerebbero dall’effetto abrogativo dei quesiti parziali. Non è il caso in questa sede di effettuare congetture su eventuali significati nascosti di tale “opportuna premessa”, ma ci si limiterà solo ad evidenziare che i quattro referendum ammessi hanno ad oggetto alcune fra le norme ritenute maggiormente restrittive della normativa, che i comitati promotori si propongono di abrogare mediante la ormai consolidata tecnica del “ritaglio”, consistente nell’eliminazione di singole parole o frasi dal testo normativo. Nonostante la corte abbia ritenuto che i singoli quesiti fossero tutti “omogenei e non contraddittori” perchè tendenti ad abrogare disposizioni normative tra loro “intimamente connesse”, è però innegabile che tali quesiti, oltre ad essere evidentemente oscuri per gli elettori che non possono conoscere e men che mai ricordare parola per parola il testo dei vari articoli abrogati, hanno un chiaro intento manipolativo che, volendo applicare rigorosamente la Costituzione, sarebbe ai limiti dell’ammissibilità. Secondo l’interpretazione più ortodossa della carta costituzionale, il referendum non dovrebbe avere infatti altro scopo che l’eliminazione di una norma da parte della volontà popolare e non di manipolarne il significato attraverso l’eliminazione mirata di singole parole dal contesto in cui si trovano. Orbene, nel caso di specie, l’eliminazione di un divieto, soprattutto in una legge dall’impianto rigido e specifica come quella in questione, equivale, invero, ad ammettere una possibilità, facendo dire al dettato normativo ciò che non voleva dire e finendo, pertanto, inequivocabilmente, col travalicare i limiti intrinseci dell’istituto referendario. Ne discende che, paradossalmente, i quesiti parziali avrebbero dovuto avere meno chanches di ammissibilità rispetto a quello totale, oggi respinto.
Il primo di essi, relativo alla libertà di ricerca scientifica e proposto da un comitato referendario trasversale composto da vari gruppi, comitati e associazioni, oltre che da parlamentari di vari schieramenti ed esponenti del mondo scientifico, si propone di abrogare gli articoli che limitano la libertà di ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni. Tra questi, viene richiesta l’abrogazione delle parti degli art. 12, 13 e 14 che vietano la crioconservazione, la clonazione di qualsiasi tipo e l’utilizzo di embrioni per fini che non ne tutelino la salute e lo sviluppo, vincoli che attualmente impediscono in Italia la ricerca sulle cellule staminali di provenienza embrionale. In relazione a tale quesito la Corte, nella sentenza n.46/05, ha correttamente osservato che la Convenzione di Oviedo, si limita esclusivamente a porre un divieto alla clonazione riproduttiva (intervento che ha per scopo di creare un essere umano identico ad un altro essere umano morto o vivente) e non anche a quella terapeutica, finalizzata invece alla produzione di cellule staminali embrionali, così come invece fa la legge 40. Pertanto, in considerazione del fatto che gli interventi di clonazione riproduttiva “risultano vietati anche alla stregua della normativa di risulta” e che il quesito “mira, univocamente, ad ampliare la possibilità di ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni umani con finalità terapeutiche e diagnostiche”, la Corte ne ha sancito l’ammissibilità.
Il secondo quesito sulla “salute della donna”, sostenuto anch’esso da comitati ed associazioni di diversa provenienza politica, chiede l’abrogazione delle norme che limitano le possibilità di successo della riproduzione assistita e che limitano i casi in cui questa è consentita. Il referendum in questione riguarda le parti della legge che circoscrivono la procreazione assistita ai soli casi di infertilità o sterilità in assenza di altri metodi terapeutici, il cosiddetto principio di gradualità, il limite dei tre embrioni trasferibili in utero e le contestate disposizioni degli articoli 6 e 13 relative alla presunta irrevocabilità del consenso della donna e all’altrettanto presunto obbligo di impianto. Tale obbligo, considerato da molti incostituzionale, è stato, tra l’altro, già qualificato come “non coercibile” sia dal Tribunale di Catania del 3 maggio 2004 (cfr. Diritto&Giustizia del 28.05.04) sia dalle linee guida emanate con D.M. del 21 luglio 2004.
In ogni caso, le molteplici disposizioni della legge che tale quesito si propone di abrogare sono state ritenute dalla sentenza n.47 del 2005 come aventi “matrice razionalmente unitaria […] riconducibile alla rimozione di una serie di limiti all’accesso ed allo svolgimento delle procedure di procreazione medicalmente assistita”.
Di contenuto del tutto analogo è il referendum oggetto della sentenza n.48/2005, che prevede, oltre all’abrogazione delle norme oggetto del precedente quesito, anche l’eliminazione di quella della parte dell’art.1 che riconosce esplicitamente i diritti del concepito. Tale disposizione è stata qualificata dalla Corte come avente “contenuto meramente enunciativo, dovendosi ricavare la tutela di tutti i soggetti coinvolti e, quindi anche del concepito, dal complesso delle altre disposizioni della legge” e, in quanto tale, legittimamente abrogabile dalla volontà popolare.
L’ultimo quesito, anch’esso giudicato ammissibile con la sentenza n. 49/2005 ha invece ad oggetto la fecondazione eterologa e si propone di eliminare il divieto di ricorrere alle tecniche di fecondazione con i gameti di un donatore/rice e la relativa sanzione. Anche tale pratica, ampiamente diffusa sia nelle strutture sanitarie private italiane prima dell’entrata in vigore della legge, sia negli altri paesi europei, come ammesso, tra l’altro, dall’Avvocatura dello Stato nella sua memoria, non è stata ritenuta dai giudici costituzionali contraria alla Convenzione di Oviedo né il relativo quesito “suscettibile di far venir meno un livello minimo di tutela costituzionalmente necessario”.
Un’ultima considerazione va necessariamente dedicata alle prospettive per il voto, fissato per una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno, soprattutto per quanto concerne le possibilità di raggiungere il quorum stabilito dalla legge.
Come è sicuramente noto ai più, la recente storia del nostro paese ha dimostrato una progressiva crisi dell’istituto referendario che è culminata con il frequente mancato raggiungimento del quorum nelle consultazioni degli ultimi anni (più o meno dal 1997 fino ad oggi). A parte la presentazione di gruppi di quesiti su materie spesso tutt’altro che omogenee, che potevano prevedibilmente suscitare negli elettori una certa “overdose” di consultazioni con la relativa perdita di interesse, ha fatto notevolmente discutere anche il mancato raggiungimento del quorum alle elezioni del 15 giugno 2003 sull’art.18 dello statuto dei lavoratori. La materia, di sicuro interesse per un’ampia parte della cittadinanza, e i quesiti, sostenuti dai sindacati più rappresentativi, non lasciavano infatti supporre un’astensione dalle urne così copiosa. Questo dato di fatto, risalente tra l’altro a meno di due anni fa, non può che alimentare notevoli dubbi sulla possibilità di scongiurare un esito analogo in occasione della prossima consultazione. La materia della procreazione assistita infatti, pur essendo estremamente delicata, riguarda solo una parte minimale della popolazione (nonostante i dati statistici degli ultimi anni sulla sterilità/infertilità diano tali patologie in netto aumento) e, sebbene vi siano notevoli analogie con le battaglie referendarie degli anni ’70 e ’80 su divorzio ed aborto, soprattutto per la contrapposizione, ormai usurata, tra laici e cattolici, non desta sicuramente il medesimo interesse di tali storiche consultazioni. Se a questo si aggiunge la forte spinta dei sostenitori della legge a disertare le urne piuttosto che a votare negativamente, la mancata presa di posizione di molti partiti sia di maggioranza che di opposizione, e l’estrema tecnicità e complessità dei quesiti, è chiaro che le probabilità di una consultazione valida siano sicuramente scarse.
A questa situazione va, infine, ad aggiungersi la consapevolezza che il quesito non ammesso era, fra i cinque, sicuramente il più immediatamente comprensibile per gli elettori, ivi compresi i più distratti e i meno informati sulla materia (così come è stato, tra l’altro, dimostrato anche dal numero di firme raccolte, nettamente superiore agli altri quattro), constatazione che non può che far riflettere, al di là di ogni considerazione giuridica effettuata in precedenza, sulle conseguenze, anche inevitabilmente politiche, delle sentenze appena esaminate sull’esito del voto di maggio.