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La morte di Welby tra Sedazione Palliativa ed Eutanasia
Lorenzo De Caprio
Diciamocelo forte e chiaro, una volta e per tutte: la sofferenza non ha mai fatto migliori gli uomini. Rende più forti i già forti, santi-fica solo i già santi. In noi, ordinari patetici mortali, lascia ulcere sanguinanti ed/o cicatrici invalidanti.
Ridicolizzate le credenze che davano valore morale e sacralità religiosa alla sofferenza, tramontate le utopie rasserenanti che la trasfiguravano in divino salvifico esercizio, la Postmodernità si ritrova indifesa davanti ad essa. Non ha nulla per contrastarla, nulla per esorcizzarla, nulla da opporle nel segno del valore. Incapace di dare ad essa un qualunque significato, la società del benessere la subisce come il lato più assurdo della insensata condizione umana e nella ricerca della felicità a buon mercato si completa l’opera della cultura. La sofferenza è patita come tragico non-senso e la Morte che l’accompagna, sciolta dai vincoli tradizionali, domina selvaggia e incontrastata. La malattia e la morte ci fanno oggi così paura che soffriamo in anticipo… solo al pensiero di soffrire.
Ma la Medicina nella sua infinita benevolenza non permette questo sconcio.
La Medicina, che da queste indomabili paure trae tutta la sua potenza, arriva in nostro soccorso col fragore del…VII Cavalleggeri. Santa Madre Pietosa trasforma la sofferenza in una questione banale, la morte in “esito” meccanizzato: un problema pratico senza interesse o quasi.
I moralisti si sollevano contro queste nuove pretese. Distinguono il dolore fisico dalla sofferenza psichica e l’angoscia della Morte dalle convulsioni dell’Inconscio, freudiano o junghiano che sia. Il facile ricorso a calmanti, antalgici, sedativi, sonniferi, antidepressivi, tranquillanti… conferma ai loro occhi l’incapacità e la presunzione di nostra Madre Misericordiosa. Non che abbiano torto. Ma la Medicina, che si è sempre confrontata col dolore fisico, si trova controvoglia a svolgere un ruolo come di supplenza. Il morire dell’uomo è rogna che competerebbe alla Psicologia, alla Filosofia, alla Religione, obietta un po’ seccata. Essa per parte sua, sa solo e fin troppo bene come un mal di denti possa condurre alla disperazione il più allegro degli uomini; sa come una pillola per l’emicrania possa far rifiorire i più depressi alla vita. Sedare una cefalea è un modo per rassicurare; se il dolore passa il depresso si convince che non ha un tumore.
Bisognerebbe, in alternativa, soffrire? E se la risposta è Si, che i moralisti ci dicano in nome di cosa o di chi? Tra l’altro i moralisti sono spesso incoerenti. Ai loro occhi un antidepressivo od un tranquillante rappresentano una pericolosa debolezza, ma rifiutare la morfina può essere un crimine.
Praticare la sedazione palliativa a Welby è stato un crimine? O sarebbe stato un crimine l’opposto?
Quale che sia la vostra opinione in merito, intanto prendete atto che mentre i moralisti trascinano le loro discussioni sulla natura ineffabile dell’ accanimento e s’ accapigliano sull’eutanasia, la Medicina li ha sopravanzati. Ha da tempo elaborato la sua proposta, già è passata dalle teorie ai fatti.
Welby è morto. Un medico ha staccato la spina e lo ha addormentato. Pochi giorni prima non so quale tribunale aveva respinto la sua richiesta di interrompere le cure e d’essere sedato. Supplica inammissibile, a parere dei giudici, visto che non c’è nessuna legge che regolamenti la materia. Se i giudici hanno ragione e le cose stanno come autorevolmente dicono, siamo autorizzati a pensare che in Italia siano fuori d’ogni legge tutti i reparti di “Cure Palliative” e che il medico che ha sedato Welby, insieme a quelli che la praticano negli ospedali, debba andare in galera. Vedremo.
Incominciamo col dire che in tutta Europa le Cure Palliative sono una parte riconosciuta ed in espansione dell’assistenza sanitaria, e che <<le cure palliative sono un approccio che migliora la qualità della vita dei pazienti e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie mortali, attraverso la prevenzione ed il sollievo della sofferenza per mezzo dell’identificazione precoce, dell’impeccabile valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali>> [1].
La Medicina Palliativa nasce ambiziosa. Si propone di affrontare il morire dell’uomo nel suo complesso, in modo globale: dal fisico… allo spirituale. Che poi riesca a restituire al morire la dignità che si ritiene sia la “perduta” sua dote del passato, è ben altro conto. Gli scettici sostengono, non senza ragioni, che le Cure Palliative propongono solo l’ ennesima variazione sul tema moderno della morte medicalizzata. Tema che, per parte sua, secolarizza e riattualizza in chiave tecnica e rituale il mito pagano e cristiano della “buona morte” occidentale.
Comunque, nel desolante panorama della guerra condotta dalla tecnica medica contro l’opprimente feticcio della Morte, guerra che cosparge per ogni dove cadaveri ri-animati, le Cure Palliative intendono restituire alla morte la naturalezza perduta, non vogliono interferire nei piani della Natura o di Dio. Non intendono anticipare la morte, ma nemmeno posporla. Rifiutano l’accanimento terapeutico ed in accordo col dettato ippocratico, si propongono di: 1), lasciar morire in pace quelli nei quali le forze della malattia hanno ormai prevalso; 2), migliorare la qualità della loro vita; 3), liberarli dalla sofferenza. Nei casi estremi, si propone di conseguire quest’ultimo fine con la sedazione palliativa (terminale). Vale a dire, mediante <<la riduzione della “vigilanza” con mezzi farmacologici, fino eventualmente alla perdita di coscienza, allo scopo di ridurre o abolire la percezione di un sintomo intollerabile per il paziente, nonostante siano stati messi in opera i mezzi più adeguati per il controllo del sintomo, che risulta quindi refrattario ad ogni trattamento convenzionale>>[2].
Nulla di strano se nel caso Welby i medici, “palliativisti” o non, abbiano tergiversato. Due interrogativi infatti attendono una risposta:
1) L’astensionismo terapeutico in un paziente consenziente è sinonimo di eutanasia passiva e dunque di omicidio volontario?
2)   La sedazione palliativa in un paziente consenziente è o non è eutanasia attiva?
Tenteremo di dare una risposta ad entrambe le questioni
L’Associazione Europea di Cure Palliative (EACP)[3] sostiene che il termine eutanasia nel linguaggio ordinario signi-fica sempre e solo omicidio intenzionale e che di conseguenza andrebbe abolita l’inutile distinzione tra eutanasia attiva e passiva. Nello stesso tempo ritiene che l’astensione o la sospensione di trattamenti futili in un paziente consenziente non si possano né si dovrebbero considerare “eutanasia”, vale a dire: omicidio. Il ragionamento non è privo di senso, ma bisogna prendere atto che le polemiche suscitate dai casi Welby, Englaro, Schiavo… dimostrano che il lasciar morire del medico è giudicato atto equivalente all’uccisione intenzionale. Infatti, (art 36 del Codice Deontologico), <<il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte>> e qui <<si intende esplicitare il divieto di favorire attraverso comportamenti vari anche semplicemente indiretti, la morte del paziente>>.
Il nostro ordinamento non prevede l’eutanasia come autonoma forma di reato. Eutanasia attiva e passiva, (con o senza consenso) vengono punite ai sensi dell’art. 575 del C.P. e l’identità di regime con l’ omicidio è riconducibile all’art. 40 comma 2 del C.P. in base al quale : << non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a compierlo>>.
I filosofi, da parte loro, forniscono esempi che comprovano l’equivalenza morale tra il lasciar morire e l’ uccidere[4].
Jones, che vuole uccidere Smith, apprende che questi verrà ucciso da una bomba e, intenzionalmente, non fa nulla per impedirlo. Smith sa che il cugino di 6 anni riceverà un’eredità. Ma l’eredità toccherà a lui se il bambino muore e dunque ne desidera la morte. Smith un giorno vede il cugino cadere nella vasca da bagno e lo lascia morire. Siamo, presumo, tutti d’accordo nel ritenere che le omissioni intenzionali di Jones e Smith si configurino come azioni criminali.
Cambia il giudizio morale quando l’omissione omicida non è frutto di intenzione? No.
Immaginate che un masso (un infarto cardiaco) stia per colpire (per uccidere) A e che B sia nelle condizioni di poterlo salvare. B non ha intenzione di uccidere A, ma non lo salva. Dunque, per omissione, è “in parte” colpevole della sua morte. Non si può affermare che l’atto omissivo di B abbia direttamente ucciso A, in quanto il masso (l’infarto) lo ha materialmente ucciso, ma ciò non di meno la morte di A è causata in via indiretta dal comportamento di B. Si introduce in questo modo una causalità più ampia di quella ristretta tipo “palla da biliardo”. Una nozione che permette di acquisire una prospettiva sui molti fattori coinvolti nella produzione della morte di A.
Ci sono certamente nella vita situazioni nelle quali il non intervenire si configura come elemento causale ( diretto od indiretto) della morte di un uomo, ma trasferire sic et simpliciter questo approccio in medicina ed utilizzarlo per condannare l’astensionismo terapeutico, sembra solo il prodotto di un sofisma fondato su analogie sbagliate. Smith e Jones ommettono un’azione che è in loro potere compiere ma che non hanno intenzione di fare. Diversa è la situazione di B che è nelle condizioni di poter aiutare A, ma che evidentemente non è stato capace di salvarlo. Ben diversa è la condizione del medico nel caso di un morente per il quale non c’è nulla che ragionevolmente egli possa fare.
Pericoloso è, inoltre, giudicare gli uomini sulle intenzioni e non sulle azioni di cui loro sono i responsabili, e se poi si afferma che i fatti non possono essere valutati in funzione dell’intenzione, non ci si può basare sull’intenzione per equiparare azione ed omissione
L’espressione eutanasia passiva, come sostiene la EACP, ha come effetto quello di criminalizzare e nazi-ficare il ragionevole lasciar morire del medico, che, per parte sua, pur di sfuggire all’azione legale, si accanirà sul morente. Ma, allo stesso tempo, la terminologia signi-fica molto più di quanto dica. In essa si riverbera la diffusa credenza che il potere della Tecnica sia virtualmente illimitato e che quella medica possa praticamente tutto, anche cancellare la morte. Il medico che in tutta scienza e buona coscienza si astiene dall’accanimento è colpevole in quanto si crede che intenzionalmente egli abbia omesso le azioni tecniche capaci di sconfiggere la Morte in persona.
La sedazione palliativa è o non è eutanasia “attiva”?
L’ EACP sostiene che la sedazione palliativa non dovrebbe in alcun modo essere confusa con l’eutanasia cosiddetta “attiva” e/o col “suicidio medicalmente assistito”, che definisce nei seguenti modi[5].
Eutanasia: <<l’uccidere intenzionalmente una persona, effettuata da un medico, per mezzo della somministrazione di farmaci, assecondando la richiesta volontaria e consapevole della persona stessa>>.
Suicidio assistito:<< l’azione di aiutare intenzionalmente da parte di in medico, una persona a suicidarsi, rendendo disponibili i farmaci per l’autosomministrazione, assecondandone la richiesta volontaria e consapevole della persona stessa>>.
Entrambe le definizioni pongono l’accento su: A) l’intenzione del medico di uccidere o di aiutare al suicidio; e B) il ricorso da parte del medico a farmaci in grado di uccidere: veleni.
La sedazione terminale si differenzia dall’ eutanasia e dall’ suicidio assistito proprio per questi due aspetti. A) il medico non ha intenzione di uccidere; e, B) il medico somministra farmaci che riducono, aboliscono la coscienza del morente: medicine.
Di notevole interesse è il fatto che tutte le società di Cure Palliative giustificano sul piano morale la sedazione terminale chiamando in causa la dottrina del doppio effetto e, velatamente ed indirettamente, la Chiesa Cattolica.
L’istituzione religiosa condanna l’eutanasia, si esprime a favore del rispetto del principio di Autonomia della persona malata, invoca pace per la “persona” morente e rispetto nei confronti del naturale processo del morire.
La Carta degli Operatori Sanitari , in esplicito riferimento alle posizioni espresse da Pio XII, condanna l’accanimento terapeutico ed enuncia il ragionevole principio della “proporzionalità” nelle cure.
<<La vita terrena è un bene fondamentale ma non assoluto, per cui si devono individuare i limiti dell’obbligo di mantenere in vita una persona. La distinzione tra mezzi “proporzionati”, a cui non si deve mai rinunciare per non anticipare la morte, e mezzi “sproporzionati”, cui si può e, per non cadere nell’accanimento terapeutico, si deve rinunciare è criterio etico decisivo per l’individuazione di quei limiti.
Nella imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunziare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in casi simili. Perciò il medico non ha motivo d’angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo>>[6].
Riguardo all’uso degli analgesici, << il loro impiego può avere come effetto, oltre l’alleviamento del dolore anche l’anticipazione della morte. Quando “motivi proporzionati” lo esigono “è permesso utilizzare con moderazione narcotici che ne allevieranno le sofferenze, ma porteranno anche a una morte più rapida. In tal caso, la morte non è voluta o ricercata, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone>>[7].
La Chiesa, direi, apre agli analgesici perché prende atto dell’angoscia con cui gli uomini nelle società secolarizzate patiscono il dolore e la sofferenza nel momento della propria morte. Al contrario, <<secondo la dottrina cristiana, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla passione di Cristo...Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo. Non sarebbe tuttavia prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico...Gli analgesici che producono la perdita della coscienza, meritano una particolare considerazione nella prospettiva del credente che desidera prepararsi in piena coscienza all’incontro con Cristo. Pio XII ammonisce che non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo>>[8].
E’ consentito al medico, solo <<nel caso di una seria indicazione clinica>> abolire la coscienza dell’agonizzante, ma se la somministrazione di narcotici ha come solo fine quello di evitare al morente una fine consapevole e/o avviene al di fuori di una seria indicazione clinica è <<una pratica veramente deplorevole>>.
La Chiesa prende atto dell’imminenza della morte e poiché non c’è nulla che si possa fare, concede l’uso di sedativi. Ad un gruppo di medici che avevano domandato se fosse permesso dalla religione e dalla morale al medico somministrare farmaci che possono accorciare la vita del morente, <<il papa rispose: se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali, si>>[9].
La posizione della Chiesa sulle questioni di fine vita è, direi, analoga a quella espressa in tema di fecondazione artificiale. Quest’ultima, in quanto tecnica che altera l’ordine naturale della generazione, viene tollerata solo nell’ambito dell’istituto matrimoniale. Per le stesse ragioni, sul fronte della morte si condannano le tecniche salvavita quando, superando ogni limite, esse alterano il naturale processo del morire, e, allo stesso modo, si tollera la sedazione.
Molti sostengono che la sedazione palliativa è un “surrogato” ipocrita dell’eutanasia “attiva” ed uno dei punti di frizione tra laici e cattolici consiste nell’accusa dei primi ai secondi di concedere nei fatti, quello che si vieta sul piano dei Principi. Altri invece, appellandosi alla “teoria del doppio effetto”, sostengono che in un paziente consenziente è lecito somministrare “sonniferi” in quantità che potrebbero portarlo anche alla morte.
La cosiddetta “teoria del doppio effetto” (principio introdotto dalla seconda scolastica sulla scia della trattazione tomistica della “legittima difesa”) non è peculiare dell’etica medica, ma si può applicare a svariate condizioni della vita comune. Il duplice effetto sta ad indicare che quando un’azione, definibile come buona nei fini e nei mezzi, può raggiungere l’effetto buono solo con il rischio ineliminabile di causare un effetto cattivo incidentale, non intenzionale, questa azione è moralmente lecita.
Teoria del doppio effetto
1), l’atto ed il mezzo devono essere in sé buoni o moralmente neutri.
2), l’agente intende intenzionalmente perseguire direttamente l’effetto positivo, limitandosi a permettere (accettare) quello negativo.
3), l’effetto positivo deriva direttamente dall’azione e non dall’effetto negativo.
4), vi deve essere un’adeguata proporzione tra i due, nel senso che l’effetto positivo deve superare quello negativo.
L’applicazione del principio del doppio effetto in medicina palliativa mira evidentemente a giustificare sul piano morale (e legale) la sedazione e vuole anche rispondere ad una serie di quesiti connessi all’impiego di medicine con note azioni collaterali negative. Il ricorso a queste sostanze è giustificato dal rapporto tra i benefici attesi e gli effetti negativi, come calcolati nel bilancio utilitaristico della decisione. Nello specifico, il possibile effetto “mortale” della medicina, anche se ben noto al medico, non deve essere da lui intenzionalmente ricercato. Solo accettando questi punti di vista la sedazione è moralmente accettabile e può essere separata dall’eutanasia attiva.
Le critiche all’applicazione della teoria del doppio effetto in Cure Palliative sostengono che l’effetto positivo deriva direttamente dall’effetto negativo ( punto 3). Inoltre si nega il valore assolutorio della buona intenzione medica (punto 2)[10].
Nell’aborto terapeutico, per esempio, per salvare la vita della madre il medico sacrifica quella del nascituro. Rimuovere un feto intatto da una donna cardiopatica costituisce un uccisione diretta e non è l’ effetto collaterale di un atto teso a prevenire la morte della donna. Insistere sul terzo punto non ha senso in quanto l’azione che mira alla salvezza della vita della madre passa necessariamente per un uccisione del feto. Come a dire che l’abolizione della sofferenza è un effetto diretto della soppressione della vita, uccisione provocata in via non proprio “collaterale” dal farmaco.
Quando si dice che in queste situazioni il dottore determina coscientemente (intenzionalmente) la morte del suo paziente, si afferma che la morte non è il risultato di un caso o di un rischio, poiché il dottore, al pari del paziente sa che il farmaco può determinare, anzi oltre un certo limite determinerà senz’altro la morte.
Il concetto di “rischio” che indica la probabilità che un evento indesiderato si verifichi, non è applicabile in quanto il medico è a conoscenza che questo rischio si verificherà. Dunque non lo assolve la buona intenzione. Si può concedere al medico l’attenuante morale di una responsabilità minore che però non risiede nell’intenzione ma del consenso espresso dal paziente. L’attenuante ha qui un peso minore che nel suicidio assistito perché in questa condizione il medico si limita a fornire al paziente il farmaco per uccidersi e l’atto finale è nelle mani del pazienti. Nel caso della sedazione il dottore in realtà è assolutamente certo che il paziente morirà poiché è lui stesso a controllare il dosaggio ed è lui stesso ad iniettare, nel caso del suicidio assistito non è certo che il paziente decida d’assumere il farmaco.
Conclusione
E’ evidente che queste critiche sono fondate. La sedazione palliativa è una pratica “ambigua”. Forse Welby è morto a causa del sedativo, o forse è deceduto per la malattia? Chi può rispondere? Ma è importante rispondere?
E’ altresì evidente che queste critiche ci conducono in un vicolo cieco.
Nel caso dell’aborto terapeutico la teoria del doppio effetto fa acqua da tutte le parti, ma abbiamo bisogno di questo principio? Due vite sono in imminente pericolo di morte, per ”non uccidere” le perderemo entrambe? E non sarà questa scelta di “non uccidere” un uccidere? Non siamo qui nella condizione di scegliere tra il bene ed il male, ma dobbiamo decidere tra due mali. Salvando la madre scegliamo il male minore, il meno peggio.
Abbiamo veramente bisogno di una teoria morale e legale per giustificare umanamente la sedazione palliativa? Mi sembra che la risposta data da Pio XII ai medici tagli la testa al toro! Abbiamo qualcosa di meglio? Possiamo fare qualche altra cosa? Abbiamo farmaci diversi da quelli che abbiamo? Anche in questo caso la scelta non è tra Bene e Male, ma tra due mali, e siamo costretti a scegliere il meno peggio.
[1] Sepulveda C, Marlin A, Yoshida T, Ulrich A, Palliative Care: the World Health Organization’s global perspective. J.Pain Sympt Manage: 24:91,2002.
[2] Cherny NI,Portenoy RK, Sedation in the treatment of refractory symptoms: guidelines for evaluation and treatment. J.Palliat Care: 10:31, 1994.
[3] Eutanasia e Suicidio Assistito dal medico: il punto di vista di una Task Force sull’etica dell’EACP. RiCP 6:42, 2004.
[4] Reuchlin M. L’Etica e la Buona Morte. Ed. di Comunità, Milano 2002.
[5]Eutanasia e Suicidio…op.cit.
[6]Carta degli Operatori Sanitari. Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari. Città del Vaticano 1995
[7] Ibidem
[8] Ibidem
[9] De Euthanasia in Enchirion Vaticanum 7, EDB, Bologna 1982.
[10] Reichlin M. op.cit.

 

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