Il caso Welby
Raffaele Prodomo
Piergiorgio Welby ha voluto proporre la terribile situazione esistenziale in cui si trova come spunto per un dibattito pubblico sul diritto-dovere di cura in caso di malattie cronico-degenerative. In un primo momento ha chiesto di essere aiutato a morire, e questa prima richiesta ha suscitato l’interessamento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, essendo stato chiamato direttamente in causa, ha invitato il mondo culturale e politico a discutere con serietà e senza pregiudiziali il tema dell’eutanasia attiva volontaria. Qualche giorno fa da parte di Welby è giunta una nuova richiesta, non più quella di essere ucciso dal proprio medico con un’iniezione letale ma quella di essere staccato dal respiratore meccanico cui è collegato somministrandogli una terapia sedativa che attenui le atroci sofferenze che la morte per soffocamento porta con sé. In quest’ultimo caso si tratta di rifiutare coscientemente una terapia di sostegno vitale e lasciare che la malattia faccia il suo corso. Non più eutanasia attiva volontaria bensì eutanasia passiva volontaria.
In epoca non sospetta ho dichiarato la mia avversione al termine eutanasia proprio per la carica semantica negativa che il termine si porta dietro dopo anni di polemiche. Anche se non volessimo usare la distinzione tra eutanasia attiva e passiva resta, comunque, il fatto che nella prima evenienza la morte seguirebbe a un atto medico diretto mentre, nella seconda circostanza, essa sarebbe conseguenza del distacco dalle macchine. La differenza non è da poco e dispiace che non sia stata notata e sottolineata come merita. Le stesse persone che, pur con grandi espressioni di solidarietà e di comprensione umana, avevano detto no alla prima richiesta hanno detto no anche alla seconda, non cogliendo, a mio avviso, la profonda differenza tra le due situazioni.
Accogliere la prima avrebbe comportato, infatti, uno stravolgimento delle attuali disposizioni di legge che vietano la soppressione su richiesta di chicchessia e puniscono tale azione, il cosiddetto omicidio del consenziente, anche se con pene inferiori all’omicidio volontario. In altre parole sarebbe stato necessario introdurre nel nostro paese una legislazione simile a quella che attualmente regola l’eutanasia attiva in Olanda e Belgio. Indipendentemente dalla valutazione morale dell’eutanasia attiva, si comprende come il cambiamento sul piano giuridico, da molti comunque auspicato, sarebbe notevole.
Ma ci sono ostacoli analoghi anche alla seconda richiesta di sospensione della respirazione meccanica? Mi sembra che in questo caso ci troviamo in un ambito sia etico che giuridico notevolmente diverso, abbiamo di fronte, infatti, un diritto costituzionalmente riconosciuto, ossia quello, in presenza di una capacità di intendere e di volere integra, ad accettare o rifiutare delle cure mediche.
Come si può dire di no a chi chiede non di essere ucciso ma di essere lasciato in pace e da solo con la sua malattia, nei cui confronti non si sente più in grado di combattere? Chi siamo noi per poter stabilire, come bioeticisti, ministri di culto o politici, quale sia il carico di sofferenze sopportabile per una terapia?
Nel 2005 l’opinione pubblica si è interrogata su questo tema a proposito del cosiddetto caso “Maria”, la donna che rifiutando l’amputazione di una gamba per una gangrena diabetica ha preferito la morte. Nessuno (salvo poche eccezioni) ha ritenuto eticamente e tanto meno giuridicamente giustificabile un intervento teso ad imporre l’amputazione a quella donna. Pare che lo stesso Giovanni Paolo II nella fase finale della sua malattia abbia rifiutato un ulteriore ricovero e l’applicazione di tecnologie mediche (intubazione tracheale e sondino gastrico) utili a garantire una qualche sopravvivenza priva di speranza di guarigione e che, di fronte a tale dilemma, abbia scelto il corso naturale delle cose tra le mura amiche del Vaticano. Perché, allora, dovremmo imporre a Welby la respirazione meccanica da lui rifiutata decisamente e pubblicamente? Non è questo, forse, un esempio di quella tanto auspicata convergenza tra morale laica e religiosa?
In epoca non sospetta ho dichiarato la mia avversione al termine eutanasia proprio per la carica semantica negativa che il termine si porta dietro dopo anni di polemiche. Anche se non volessimo usare la distinzione tra eutanasia attiva e passiva resta, comunque, il fatto che nella prima evenienza la morte seguirebbe a un atto medico diretto mentre, nella seconda circostanza, essa sarebbe conseguenza del distacco dalle macchine. La differenza non è da poco e dispiace che non sia stata notata e sottolineata come merita. Le stesse persone che, pur con grandi espressioni di solidarietà e di comprensione umana, avevano detto no alla prima richiesta hanno detto no anche alla seconda, non cogliendo, a mio avviso, la profonda differenza tra le due situazioni.
Accogliere la prima avrebbe comportato, infatti, uno stravolgimento delle attuali disposizioni di legge che vietano la soppressione su richiesta di chicchessia e puniscono tale azione, il cosiddetto omicidio del consenziente, anche se con pene inferiori all’omicidio volontario. In altre parole sarebbe stato necessario introdurre nel nostro paese una legislazione simile a quella che attualmente regola l’eutanasia attiva in Olanda e Belgio. Indipendentemente dalla valutazione morale dell’eutanasia attiva, si comprende come il cambiamento sul piano giuridico, da molti comunque auspicato, sarebbe notevole.
Ma ci sono ostacoli analoghi anche alla seconda richiesta di sospensione della respirazione meccanica? Mi sembra che in questo caso ci troviamo in un ambito sia etico che giuridico notevolmente diverso, abbiamo di fronte, infatti, un diritto costituzionalmente riconosciuto, ossia quello, in presenza di una capacità di intendere e di volere integra, ad accettare o rifiutare delle cure mediche.
Come si può dire di no a chi chiede non di essere ucciso ma di essere lasciato in pace e da solo con la sua malattia, nei cui confronti non si sente più in grado di combattere? Chi siamo noi per poter stabilire, come bioeticisti, ministri di culto o politici, quale sia il carico di sofferenze sopportabile per una terapia?
Nel 2005 l’opinione pubblica si è interrogata su questo tema a proposito del cosiddetto caso “Maria”, la donna che rifiutando l’amputazione di una gamba per una gangrena diabetica ha preferito la morte. Nessuno (salvo poche eccezioni) ha ritenuto eticamente e tanto meno giuridicamente giustificabile un intervento teso ad imporre l’amputazione a quella donna. Pare che lo stesso Giovanni Paolo II nella fase finale della sua malattia abbia rifiutato un ulteriore ricovero e l’applicazione di tecnologie mediche (intubazione tracheale e sondino gastrico) utili a garantire una qualche sopravvivenza priva di speranza di guarigione e che, di fronte a tale dilemma, abbia scelto il corso naturale delle cose tra le mura amiche del Vaticano. Perché, allora, dovremmo imporre a Welby la respirazione meccanica da lui rifiutata decisamente e pubblicamente? Non è questo, forse, un esempio di quella tanto auspicata convergenza tra morale laica e religiosa?