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Napoli, via Girolamo Santacroce 15

 
Coltivare la speranza esercitando la ragione
Nessuno deve scegliere per noi. La proposta del testamento biologico
Pasquale Giustiniani
1. Le direttive anticipate di trattamento rese consapevolmente da un essere umano ad un altro esponente di umanità - con le funzioni di delegato o di tutore dei propri interessi vitali -, allo scopo di evitare eventuali appropriazioni della propria esistenza da parte di altri in nome di criteri che non risultassero in futuro corrispondenti ai propri orientamenti sulla vita e sulla salute, precisati in una stagione tendenzialmente serena ed equilibrata e in momento di benessere consapevole; il superamento della logica, talvolta presente tra gli operatori della sanità e tra i parenti di un malato, di tentare tutto il possibile tecnico, farmacologico e scientifico sul corpo irrimediabilmente debole del malato, costi quel che costi, anche a detrimento della sua dignità, del suo diritto alla salute, del suo diritto ad aderire o a rifiutare le cure proposte… tutto questo - che è l’insieme dei temi e problemi evocati dal titolo – va, forse, anche guardato dal lato della fioritura della vita umana, ovvero dello sbocciare della varietà dei fiori in questo giardino della vita. Lo sbocciare e l’essere rigoglioso dell’evento della vita: evento che è, insieme, privato, relativo ad ogni profumo e ad ogni colore, ma anche pubblico, perché avviene in un giardino, cioè si dà a vedere agli altri occhi, si fa annusare da altri olfatti, viene fruito e, soprattutto, si dà a fruire ad altre esistenze viventi.
2. Questa parola a prima vista un po’ buffa, ‘fioritura’, è stata proposta da Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe (1919-2001) come traduzione del greco eudaimonia, usato nell’etica dal vecchio, ma sempre presente nei dibattiti di bioetica, Aristotele. Che si tratti di una traduzione felice, è stato confermato dal fatto che il termine è ora impiegato da buona parte non soltanto degli studiosi di Aristotele, ma comincia a entrare anche nell’uso dei bioeticisti. Cos’è la fioritura di un essere umano a cui si allude? Come quella delle piante, soprattutto degli alberi e dei fiori, la fioritura di un essere umano consiste nel fatto che egli sviluppa le potenzialità ritenute tipiche della specie vivente cui egli appartiene, riuscendo a condurre una vita soddisfacente, accettabile, felice. La felicità, qui, va intesa come lo stato d’animo che si può provare quando accade qualcosa che ci rende particolarmente contenti e che migliora il nostro umore; in questo senso ha un legame solo indiretto con la fioritura. È ragionevole pensare che una persona che riesce a “fiorire” sia una persona che riesce anche a essere felice in molte circostanze. Ciò non vuol dire che scopo della virtù e della vita buona sia promuovere la felicità in quanto tale. Una vita virtuosa comporta anche un certo esercizio, un’attenzione al proprio corpo non meno che alla propria mente, e il perseguimento di modelli di comportamento che non sono sempre riconducibili alla realizzazione della felicità individuale. Si pensi, ad esempio, alla felicità che si accompagna a un comportamento sconsiderato. Il senso di ebbrezza di chi guida in modo spericolato ha, forse, a che fare con la felicità, ma non con la virtù. Una persona virtuosa è una persona che ha imparato a comportarsi in modo non soltanto corrispondente alle proprie giuste aspettative di piacere, ma anche in modo morigerato, e ciò si realizza anche attraverso la disciplina e l’osservanza delle norme. Si tratta, in questo caso, di un ideale che pone l’accento sul fare, piuttosto che sull’essere. Una condotta morale non è uno stato che si realizzi una volta per sempre nella vita di una persona, ma è una disposizione ad agire che ha bisogno di essere coltivata e la cui presenza si manifesta attraverso il compimento abituale di azioni virtuose. La virtù non consiste semplicemente nell’osservanza di doveri, ma nel fatto che si compiano le azioni appropriate con lo stato d’animo di chi ha assimilato il comportamento virtuoso trasformandolo in un’abitudine. Il comportamento virtuoso eccede le massime unicuique suum tribuere e neminem laedere, perché si manifesta attraverso l’azione compiuta con l’intenzione appropriata da chi agisce in un certo modo non perché deve obbedire alla legge, ma perché quello è il modo in cui è abituato ad agire.
3. La “fioritura” degli esseri umani, come degli altri animali, non può essere compresa, tuttavia, se ci si limita a guardare a un preteso cielo delle “essenze” da cui dedurre i criteri per l’agire virtuoso; non può essere compresa se non si guarda allo sviluppo degli esseri umani dalla prima infanzia, all’età adulta, fino alla vecchiaia e alla fase terminale della vita, come invita a fare, per esempio, il discorso circa il testamento biologico o la discussione sulla cessazione delle cure sproporzionate. Nel corso di questo processo, che è storico e culturale, gli esseri umani diventano persone, capaci di razionalità pratica e di autonomia, ma passano anche attraverso non poche fasi di dipendenza dagli altri (come bambini, malati, anziani) che li rendono particolarmente vulnerabili, quindi inevitabilmente intersoggettivi; quindi, pure bisognosi di assistenza e, pertanto, esigono nella società un corrispettivo dovere di educare tali esseri umani ad acconsentire alle proposte in maniera informata, oppure di aprire loro degli spazi anticipati per orientare eventuali scelte future circa il proprio benessere e la propria salute. Questo è, appunto, il terreno di coltura in cui si manifestano e si sviluppano quelle disposizioni ad agire in maniera appropriata che chiamiamo comunemente virtù. Quindi una vita ben vissuta è sempre anche una vita vissuta in diversi rapporti, di dipendenza e di assistenza, di consenso e di dissenso, di accanimento o di abbandono… con altri esseri umani. Una vita ben vissuta è anche una vita che è stata adeguatamente curata quando ne aveva più bisogno, nelle diverse fasi dell’esistenza in cui non si è del tutto autonomi ma dipendenti dagli altri, come per esempio quando si è chiamati ad esistere da progetti genitoriali, magari medicalmente assistiti, oppure quando si è consegnati agli altri in particolari situazioni di malattia terminale o stati di esistenza di tipo vegetativo. Su questo sfondo si può vedere più chiaramente quali aspetti della fioritura umana dipendano dalla nostra natura animale e dall’ecosistema con cui interscambiamo, quali dipendano dalla nostra natura umana, che una concezione soltanto intellettualistica delle virtù tenderebbe ad oscurare e che, invece, proprio l’antico retroterra aristotelico dell’espressione “fioritura” suggerisce di non abbandonare.
4. Del resto, anche nell’ultimo MacIntyre, il cui pensiero aveva assunto in precedenza un indirizzo di tipo essenzialmente ermeneutico-comunitario, si è andato riscoprendo, proprio in questo discorso sulla fioritura, la “natura”, peraltro con accenti fortemente biologici, soprattutto laddove noi esseri umani saremmo animali razionali dipendenti, un po’ come i delfini[1].
Nel suo libro del 1999, molta attenzione era dedicata da Alasdair MacIntyre all’idea di bene e all’analisi dei diversi sensi in cui usiamo il termine ‘buono’. Ciò che è bene per un delfino non lo è necessariamente per un idraulico, ma entrambi possono fiorire solo se sono cresciuti e vivono nell’ambiente adatto. Lo stesso ideale di maturazione complessiva o fioritura (flourishment) sarebbe, in qualche modo, univoco per animali non umani ed esseri animati di tipo umano. Se non appare, in quest’ultimo caso, sufficientemente tematizzata la differenza fra la natura in senso biologico e la natura in senso filosofico quale fondamento dell’auspicata fioritura umana, tuttavia si deve registrare positivamente l’immissione nel dibattito bioetico di questa significativa riscoperta della natura umana nell’accezione normativa classica, sempre in connessione con la riscoperta dell’ideale di derivazione greca e, in particolare, aristotelica, di «fioritura umana» o «flourishment», come si verifica esplicitamente in Nussbaum, Sen, Annas, Putnam)[2].
Additato come valido per lo sviluppo di ogni uomo, al di là delle differenze sessuali, culturali o religiose, questo fiorire, nella riflessione della Nussbaum ad esempio, porta addirittura alla riscoperta di una natura umana essenziale («teoria forte e vaga del bene») in opposizione ad ogni relativismo dei valori morali[3].
5. Pertanto, è appunto in questa luce che vanno riletti i temi in gioco, almeno due dei quali aprono - all’interno della cosiddetta “bioetica di uscita dalla vita” -, i temi della dignità del morire, delle direttive anticipate, del consenso informato ai trattamenti, dell’uscita consapevole dalla vita. Grandi passi sono stati compiuti dalla tecnologia e dalla scienza medica negli ultimi anni, anche in tutte quelle situazioni che hanno a che fare con gli stadi di fine vita. I sistemi di cura più avanzati consentono ormai di mantenere in vita soggetti umani che soffrono di patologie tali da poter essere dichiarati, con una certa attendibilità, “malati terminali”. Questi, talvolta, non sono neppure in grado di far conoscere direttamente agli altri le proprie determinazioni o direttive in ordine alle cure future. Spesso, pur non potendo arrestare l’evoluzione del processo, le risorse terapeutiche sono invece in grado di sedare uno stato di dolore e di sofferenza percepito come inaccettabile dal soggetto malato, evitando che, alla drammaticità della situazione patologica, si aggiungano sofferenze inutili o senza senso.
6. Altrettanto grandi sono i passi che la discussione bioetica ha compiuto negli ultimi decenni a proposito di malattia e sofferenza, di consenso informato, di uscita consapevole dalla vita, di rifiuto dell’accanimento terapeutico, di palliazione e sedazione del malato cronico, terminale e verosimilmente prossimo alla morte. Il dibattito nasce dalla convinzione che non sempre ciò che la tecno-scienza medica consente di realizzare, corrisponde al rispetto della dignità delle ultime fasi di vita umana e del processo di morire, né alla libera determinazione delle singole persone che, pur avendo il diritto, costituzionalmente garantito, di aderire o rifiutare in modo consapevole ed informato i rimedi sanitari proposti nei singoli casi, si trovano di fatto in una situazione di bilico tra la drammaticità del caso concreto ed il senso etico che gli si vorrebbe attribuire. Lo stesso ideale di fioritura umana, valido in linea di principio per tutti gli esseri umani, implica di fatto il riconoscimento dell’esistenza di una natura umana in senso filosofico e non meramente biologico o medico, quindi non riducibile ai soli aspetti, pur rilevanti, farmacologici e tecnoscientifici. Dire fioritura umana evoca, talvolta inconsapevolmente, una natura umana che abbia un valore normativo, una dignitas della persona umana, che comporti un ideale umano da attuare, che trascenda cioè la dimensione meramente biologica, medica, tecnoscientifica pur radicandosi in essa. La natura costituirebbe, in questa prospettiva, la base immodificabile del comportamento, non posta dalla prassi dell’uomo, neppure dalla prassi tecnoscientifica e medica, ma un qualcosa che “precede” (che, poi, è l’altro modo per dire “fonda”).
7. Ci si chiede allora, di fronte alla percezione, ora per allora, dei segni inequivocabili di una patologia irreversibile, giunta ad una fase di terminalità gravata da intollerabili limitazioni e sofferenze psico-fisiche: quali trattamenti saranno da ritenere, in quelle particolari situazioni, veramente necessari e obbligatori e quali no? Quali saranno da ritenere vincolanti in vista della fioritura della vita consona ad una natura di riferimento, non solo sul piano del dovere professionale ma anche del rispetto del malato che soffre e/o si trova in una situazione esistenziale che egli considera insostenibile? Quali saranno da rispettare compatibilmente con i livelli essenziali di assistenza garantiti dallo Stato e con le economie destinabili alla medicina ed alla tecnoscienza, soprattutto alla futura farmacogenetica? Come estendere e favorire l’informazione sui diritti di ogni persona umana, sui doveri e limiti degli operatori deputati non solo a “curare” ma anche a prestare le terapie corrispondenti alle visioni del mondo del soggetto che decida consapevolmente di entrare in allena terapeutica, soprattutto ad attutire il dolore e ad accompagnare verso una decorosa fine della vita, evitando lo spettro della “distanasia”? Altro è, infatti, il caso della malattia intesa come stato oggettivabile in base alle categorie fissate dalla scienza medica, altro quello della stessa malattia intesa come specifico stato di benessere vissuto dal soggetto quale sinonimo di salute, alla luce della sua peculiare visione di natura e di persona, tenendo conto della fluttuazione e della mutabilità storica di ogni visione del mondo. Non soltanto la libertà del medico o del paziente non può mai eliminare la natura, ma la libertà di entrambi matura nel reciproco riconoscimento e liberazione dell’essenza naturale di ognuno. Colui al quale non fosse previamente concesso il diritto di vivere, non potrebbe diventare libero senza di esso.
8. Indipendentemente dal dibattito su un presunto diritto da riconoscere ad azioni mediche o sanitarie volte, sulla base di richieste consapevoli dei pazienti, alla soppressione della vita, sono oggi urgenti e necessari orientamenti ed indirizzi consapevoli della società civile sulla complessità della cosiddetta “bioetica di fine vita”. Questa comprende un ventaglio notevolmente ampio e diversificato di situazioni, in cui devono essere garantiti non soltanto il diritto dei soggetti ad essere curati e il correlativo dovere della società ad aiutare i pazienti, anche gravi, vegetativi permanenti e morenti, a non soffrire ed a concludere in piena dignità la propria esistenza, ma anche la necessità di esprimere e rispettare la libera determinazione di fronte alle opportunità della medicina contemporanea e futura.
9. Differenti sono, infatti, i concetti di “malattia”, di “cura” e di “bene” come definiti dalla scienza medica in un particolare contesto storico e sociale, da come essi possono essere intesi e vissuti dal singolo individuo e, soprattutto, da come essi varieranno negli anni. Cosa fare, ci si domanda oggi, di fronte ad un paziente che chiedesse ripetutamente e coerentemente di non differire ulteriormente la propria morte, ormai non soltanto prevista dalla medicina e dai suoi protocolli scientifici, ma attesa talvolta come una sorta di liberazione dal proprio “carcere” corporeo? Quali trattamenti sono da ritenere comunque vincolanti sui piani del dovere professionale del medico e del rispetto della persona che soffre in maniera da lui giudicata, anche ora per allora, insostenibile? Come ampliare l’informazione in ordine ai diritti alla salute di ogni persona ed ai relativi doveri di coloro che sono deputati a curare, attutire il dolore, accompagnare gli esseri umani verso una “buona” e dignitosa morte? Fino a che punto imporre una terapia a un paziente senza più alcuna speranza di veder mutata la propria sorte? Come evitare che un malato si senta prigioniero, oltre che della sua malattia, percepita come drammatica e insopportabile, anche della volontà di un terzo, ovvero della società la quale, così come sente il dovere di non ucciderlo o di non commettere omicidio su consenziente, si chiede, con altrettanta ponderazione, se non sia più giusto lasciarlo morire in pace? Il rifiuto dell’accanimento terapeutico non segnala forse la consapevolezza morale che, almeno in alcune determinate circostanze, la “resa della medicina” di fronte all’inevitabilità della morte attesa imminentemente è la scelta più giusta?
10. Una meditazione ponderata, sia pure aperta e provvisoria, anche in termini di “etica pubblica”, appare il modo migliore per affrontare i problemi della gestione consapevole della salute e della malattia. Le inevitabili relazioni mercantili, che accompagnano comunque la relazione terapeutica, devono poggiare su alcuni tipi di relazione non mercantili, ovvero far riferimento ad un dare e ricevere senza calcolo, se devono contribuire ad una piena fioritura umana. Ciò è estremamente importante anche per la vita intellettuale[4].
La riflessione sul vivere e morire, nel riconoscimento della fragilità esistenziale degli umani, può rendere più sereno il dibattito attuale sui fini della tecno-scienza medica e, in particolare, sui limiti e sulle regole che indirizzano le decisioni di fine vita. Il processo del vivere e del morire umani ha molti aspetti esistenziali e simbolici, che appartengono alla tradizione, ai valori e alla cultura di ciascuna persona, oltre che del contesto sociale in cui essa vive. Essi spesso orientano le decisioni stesse circa la cura della propria salute, il mantenimento dei livelli di benessere psicofisico, la selezione e la valutazione circa l’opportunità di terapie, le decisioni anticipate circa la donazione di organi, le eventuali disposizioni anticipate circa i futuri trattamenti sanitari che si rendessero necessari in situazioni in cui non sia più data la possibilità di esprimere consapevolmente i propri orientamenti.
11. Accanto a questa carica esistenziale e simbolica, tuttavia, il vivere e il morire presentano tanti altri profili soggetti a “interpretazione provvisoria e aperta”, talvolta “convenzionale”, su cui sia le persone che le norme di uno Stato di fatto intervengono e “gestiscono” in un certo modo, anche mediante il sistema sanitario, delicati momenti dell’esistenza, quali ad esempio attualmente in Italia, la gestione medicalmente assistita del desiderio di genitorialità, la tutela dei livelli essenziali di assistenza, la eventuale manipolazione medica e chirurgica del proprio futuro corpo cadaverico a fini di prelievo e di innesto di organi.
12. In particolare, anche a proposito dell’uscita dalla vita, le norme sono già più volte intervenute riguardo alla gestione sanitaria delle situazioni di vita compromessa irrimediabilmente dalla malattia, al riconoscimento dei segni inequivocabili della morte, alle soglie di accettabilità di eventuali cure sproporzionate o straordinarie. Si pensi, per esemplificare, all’attuale definizione medico-legale di morte cerebrale, vigente in Italia, che è il frutto di una convenzione medico-legale accreditata e condivisa, la quale permette di distinguere convenzionalmente tra silenzio conclamato dell’encefalo, constatato come “non più vitale” da un collegio medico, e perfusione “vitale” dei vasi sanguigni per garantire eventuali prelievi di organi. Inoltre, sul piano dei soggetti umani decisori, la libera autodeterminazione comprende anche il diritto di non acconsentire a terapie che, pure, la scienza medica propone come salvavita e come bene oggettivo, pur sapendo che ogni rifiuto comporterebbe, di fatto, entro breve tempo, la fine della vita stessa.
13. Qualsiasi norma, o convenzione, insomma, non può fare a meno di confrontarsi con la volontà del paziente, con il suo personalissimo ed insindacabile approccio alla sofferenza e alla vita che si spegne, col suo patrimonio di vita buona consapevolizzata. Tale volontà non è altro che l’affermazione dell’autonomia del malato, già consacrata nel mondo della sanità attraverso lo strumento del consenso informato, che ha profondamente mutato il rapporto medico-paziente. Se questo è il presupposto legittimante ogni atto medico, è difficile negare che l’autonomia possa trovare applicazione anche nelle decisioni di fine vita che, dal punto di vista simbolico e valoriale, da parte del singolo paziente, potrebbero corrispondere anche all’abbandono al destino o alla provvidenza.
14. Ma non tutti i nodi sono sciolti da siffatta qualificazione: che cosa significa che un certo comportamento è coerente con la fioritura della vita e con la vera libertà dell’uomo? Non è già sufficiente affermare il valore della libertà di scelta, come condizione per la piena maturazione umana? Come è stato notato, la libertà di scelta non ha valore per se stessa, ma sempre in vista di altro. Essa non è fine a se stessa, ma viene esercitata, anche quando non se ne è coscienti, in vista di un certo compimento della persona che la esercita[5].
Che cosa significa poi che un certo comportamento non nuocerà agli altri? Come si farà a stabilirlo? In realtà, il problema della giustizia in etica non può non fare i conti con il problema della «vita buona» e, di nuovo, con quello della fioritura presupposta negli orizzonti valoriali ideali. Altrimenti vengono proposti pur sempre, ma surrettiziamente, dei modelli di «vita buona», corrispondenti ad orizzonti valoriali che, prima o poi, si rivelano estranei morali per definizione.
15. La prospettiva bioetica a partire dalla quale un tal genere di questioni può essere affrontata, mi sembra, nel modo più idoneo all’oggi è, forse, quella del “prendersi cura” dell’altro, del farsene carico, del dialogare con lui alla luce delle sue libere e ponderate autodeterminazioni. Ciò implica il primato della relazione e del dialogo col malato sofferente, anche quando egli arrivasse al punto di dichiarare di “non farcela più”, oppure di esser lasciato morire in pace se posto in determinate situazioni di salute e di degenza. Tale primato pone in secondo piano gli stessi profili medici e sociali e ci trasferisce nella prospettiva del contenimento della sofferenza, sia con strumenti scientifici che con il sostegno socio-culturale. Investire opportunamente nella “relazione” consente di accompagnare il malato in quel tratto di esistenza che gli resta comunque da vivere ancora e prepara con, e per lui, le condizioni per una morte dignitosa. In questo contesto, da un lato un forte investimento sulle terapie palliative diminuirebbe di molto le eventuali richieste di “suicidio assistito”, dall’altro il peso di decisioni, che talora ricadono sui medici deputati dai parenti a decidere “quando è venuto il momento in cui non c’è più nulla da fare”, sarebbe alleviato da una precisa definizione dei problemi relativi alle “direttive anticipate” e alle “disposizioni di fine vita”, da sottoporre anche alle eventuali valutazioni di Comitati Etici indipendenti piuttosto che a tribunali civili e penali a seguito di norme definitive sul piano legislativo. [1] Cfr. A. MACINTYRE, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, trad. it. di M. D’Avenia, Vita e Pensiero, Milano 2001.
[2] Cfr. in particolare, M. NUSSBAUM, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, trad. it di S. Paderni Carocci, Roma 1999; Women and Human Developement. The Capabilities Approach, CUP, Cambridge 2000.
[3] Cfr. M. NUSSBAUM, Non-Relative Virtues: An Aristotelian Approach, in M. NUSSBAUM and A. SEN (eds.), The Quality of Life, Clarendon Press, New York 1993, pp. 242-69.
[4] Cfr. MACINTYRE, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, p. 94: «I nostri errori intellettuali sono spesso, benché non sempre, radicati nei nostri errori morali. In entrambi i tipi di errori le migliori risorse di cui disponiamo sono l'amicizia e la collegialità».
[5] Cfr. GEORGE, Making Men Moral., pp. 179-181.
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