Giorgio Macellari
Eutanasia e direttive anticipate
Dal caso di Miss B a quello di Diane Pretty e Terry Schiavo, passando per quello – tutto italiano – di Eluana Englaro, per arrivare all’attualità di Piergiorgio Welby, le cronache mostrano da alcuni anni un interesse che si concentra a ondate sul tema di come oggi si è trasformato il processo del morire, troppo spesso coniugato a far rima col verbo soffrire. Il testamento biologico (o “direttive anticipate”, traduzione del termine inglese “living will”) diventa una tematica di cui si arriva a discutere anche pubblicamente, rompendo – seppure in modo frammentario e discontinuo – l’antico tabù della morte. Una lunga tradizione, ispirata ai valori cristiani delle origini, ha impregnato le nostre menti all’idea di una sacralità della vita che oggi, tuttavia, viene quotidianamente violata, tanto evidente e grande è il carico di sofferenza che questa ideologia talora si trascina dietro. Oggi sempre meno gente è disposta al sacrificio del dolore, anche perché sempre meno gente è incline a credere che il dolorismo sia in sé una pratica virtuosa o anche solo la premessa per guadagnarsi un posto futuro accanto ai santi. E sembra sul serio che di questa delicata, ma umanissima, problematica ci sia tanta voglia di parlare, di sapere, di capire.
Piergiorgio Welby ha chiesto di morire. Questa richiesta apre due fronti: non solo sul testamento biologico, cioè la facoltà di esprimere chiaramente come governare il personale processo del morire, ma anche sull’eutanasia, poiché per Welby sarebbe impossibile suicidarsi e, di conseguenza, diventerebbe necessario che qualcuno lo aiutasse a farlo se gli fosse offerta l’opportunità di stilare direttive anticipate. Per quanto scottante, il problema esiste e il primo errore è quello di negarlo. Negarlo vuol dire, subito dopo, disprezzare una volontà, un credo esistenziale, un mondo interiore di valori, una concezione filosofica dell’esistenza, una dimensione spirituale che merita di essere ascoltata, un appello che chiede un aiuto concreto, non solo parole di circostanza se non addirittura di giudizio severo. Ma quando si parla del caso Welby non è onestamente possibile sottrarsi all’obbligo di parlare anche di questa benedetta eutanasia: chi intende discutere di testamento biologico deve riconoscere che le direttive anticipate, se realmente vogliono rispettare il principio di autodeterminazione, sollevano per forza anche le interrogazioni intorno all’eutanasia.
Ciò che ha fatto più scalpore, pertanto, non è questa supplica di soccorso umano, e neppure il divampare delle argomentazioni a favore o contro la possibilità di aprire una strada legislativa per porre fine all’anarchia sul malgoverno del morire. Ciò che è apparso distorto è l’appello di qualche parte politica a considerare il problema privo di uno spazio di dialogo. Un non senso, visto che per definizione il politico fa del dialogo il suo mestiere, su tutto e con tutti. Ma anche una dissonanza tra il ruolo solidarista del politico e la sua scelta dichiarata di una volontaria disattenzione.
Quanto alle argomentazioni contro o a favore non ci sembra che qualcuno possa dire di possedere la migliore: i sottofondi culturali che le sostengono, insieme al forte contenuto emotivo della tematica, rendono impossibile una coniugazione di intenti verso un’unica soluzione che faccia tutti contenti. In questo campo il dibattito assomiglia a quello che può vedere in opposizione il fedele convinto e l’ateo razionalista o, per semplificare ulteriormente, lo scintoista e il musulmano. Ad esempio, a chi nega diritto alla richiesta di eutanasia in nome di una “naturalità” del morire si può obiettare che oggi il mondo umano è sempre più modellato da forze “antinaturali”: dai freni all’invecchiamento alle procedure per migliorare le potenzialità fisiche, dall’uso di farmaci che modificano certi tratti indesiderati della personalità agli interventi di sostituzione e di riparazione di innumerevoli organi e apparati, senza contare le manipolazioni genetiche tese a prevenire gravi malattie. E a chi, d’altro canto, pretende una legge sull’eutanasia che aiuti ciascuno a uscire di scena nei modi desiderati si può obiettare che la vita è un bene non disponibile e che una normazione siffatta potrebbe aprire la strada ad abusi e soprusi, difficili poi da riconoscere o impedire.
Che fare, dunque? Qualsiasi proposta appare banale, o troppo debole. Certo, la prima cosa da fare dovrebbe essere quella di discuterne. Ogni giorno, nei nostri ospedali, qualche medico si interroga su ciò che può, deve o dovrebbe fare delle sorti di un paziente che non è in grado di decidere da solo e per il quale il destino è lasciato alla discrezione, al buon senso e alla carità cristiana dei parenti o amici che lo assistono. Ogni, giorno, negli ospedali italiani, qualcuno continua a soffrire perché mancano linee-guida condivise sul da farsi. Ponzio Pilato cammina a braccetto di questi problemi e nessuno sembra volersene far carico. Mentre, in realtà, è proprio di buone idee, di forti presupposti scientifici e di una sacrosanta onestà intellettuale che si sente maggiormente il bisogno. Al di là delle divisioni e dei conflitti che nascono da concezioni diverse della vita e della morte (tutte sostanzialmente difendibili), quel che serve è un dialogo, una pacata riflessione: che però arrivino a produrre documenti concreti per consentire a malati, familiari e medici di agire nell’interesse singolo di ogni individuo, adattando ad esso il sapere, la tecnologia e l’etica. Dire no a tutti i costi trincerandosi dietro una inviolabilità che discende da presupposti fideistici o permettere qualunque cosa in nome di un anarchismo etico inumano non aiuta; complica invece i problemi e aumenta il dolore inutile.
E allora bisognerebbe far tesoro del racconto di Erodoto (idee non certo dei nostri giorni!), il quale narrava che Dario, re dei persiani, chiese un giorno ai greci presenti alla sua corte se mai avrebbero mangiato i cadaveri dei loro genitori; ed essi risposero:“Per nessuna ragione al mondo”. E quando chiese ad alcuni indiani Callati – i quali usavano cibarsi dei cadaveri dei propri cari – se mai ne avrebbero seppellito i corpi (come facevano i greci), essi manifestarono orrore. Dario pensava invece, tra sé e sé, che esisteva un solo modo di onorare davvero i morti: esporli su alte torri in modo che gli avvoltoi li potessero divorare. Il racconto di Erodoto ci mostra che onorare i morti è un’esigenza condivisa dal genere umano, ma che esistono diversi modi personali per soddisfarla. I conflitti nascono non quando si discute intelligentemente su tali modi diversi, ma quando ci si intestardisce nel ritenere che esista un solo modo giusto di onorare i morti e che tale unico modo debba essere di conseguenza imposto a tutti. Si finisce così per negare che ci siano modi diversi e tutti egualmente perseguibili senza che si arrechi danno ad alcuno e tutti egualmente legittimati dalla semplice regola dell’accordo.
Nella narrazione di Erodoto c’è dunque il distillato di una conquista etica più vicina ai nostri tempi. La quale suggerisce, di fronte a due convincimenti morali inconciliabili in quanto i valori cui si ispirano appaiono antitetici di accettare l’idea che essi appartengono a due comunità morali l’una all’altra straniere. In queste circostanze, dunque, la soluzione più giusta, per quanto modesta e certamente non geniale, consiste nell’ammettere ad entrambe le concezioni il diritto di sussistenza per un reciproco rispetto ed una coesistenza pacifica.
E’ questo, mi pare, anche il caso del testamento biologico: nessuna comunità morale è in grado di stabilire che le direttive anticipate sono in sé una cosa giusta o sbagliata, lodevole o biasimevole, ragionevoli o peccaminose, dolci o violente. Esistono, infatti, buoni argomenti a favore e contro e, soprattutto, manca un argomento incontrovertibile che si imponga sugli altri in maniera autoevidente. Pertanto, ad una società liberale, pluralista e rigorosa, cioè tollerante senza essere lassista, non resta che concedere ai sostenitori di una delle due convinzioni (testamento biologico sì) il diritto di emettere direttive anticipate e, a quelli dell’altra (testamento biologico no) il diritto di rifiutarlo e di pretendere che ad essi tali direttive non siano imposte con la forza. Nessuno costretto, nessuno impedito.
Piergiorgio Welby ha chiesto di morire. Questa richiesta apre due fronti: non solo sul testamento biologico, cioè la facoltà di esprimere chiaramente come governare il personale processo del morire, ma anche sull’eutanasia, poiché per Welby sarebbe impossibile suicidarsi e, di conseguenza, diventerebbe necessario che qualcuno lo aiutasse a farlo se gli fosse offerta l’opportunità di stilare direttive anticipate. Per quanto scottante, il problema esiste e il primo errore è quello di negarlo. Negarlo vuol dire, subito dopo, disprezzare una volontà, un credo esistenziale, un mondo interiore di valori, una concezione filosofica dell’esistenza, una dimensione spirituale che merita di essere ascoltata, un appello che chiede un aiuto concreto, non solo parole di circostanza se non addirittura di giudizio severo. Ma quando si parla del caso Welby non è onestamente possibile sottrarsi all’obbligo di parlare anche di questa benedetta eutanasia: chi intende discutere di testamento biologico deve riconoscere che le direttive anticipate, se realmente vogliono rispettare il principio di autodeterminazione, sollevano per forza anche le interrogazioni intorno all’eutanasia.
Ciò che ha fatto più scalpore, pertanto, non è questa supplica di soccorso umano, e neppure il divampare delle argomentazioni a favore o contro la possibilità di aprire una strada legislativa per porre fine all’anarchia sul malgoverno del morire. Ciò che è apparso distorto è l’appello di qualche parte politica a considerare il problema privo di uno spazio di dialogo. Un non senso, visto che per definizione il politico fa del dialogo il suo mestiere, su tutto e con tutti. Ma anche una dissonanza tra il ruolo solidarista del politico e la sua scelta dichiarata di una volontaria disattenzione.
Quanto alle argomentazioni contro o a favore non ci sembra che qualcuno possa dire di possedere la migliore: i sottofondi culturali che le sostengono, insieme al forte contenuto emotivo della tematica, rendono impossibile una coniugazione di intenti verso un’unica soluzione che faccia tutti contenti. In questo campo il dibattito assomiglia a quello che può vedere in opposizione il fedele convinto e l’ateo razionalista o, per semplificare ulteriormente, lo scintoista e il musulmano. Ad esempio, a chi nega diritto alla richiesta di eutanasia in nome di una “naturalità” del morire si può obiettare che oggi il mondo umano è sempre più modellato da forze “antinaturali”: dai freni all’invecchiamento alle procedure per migliorare le potenzialità fisiche, dall’uso di farmaci che modificano certi tratti indesiderati della personalità agli interventi di sostituzione e di riparazione di innumerevoli organi e apparati, senza contare le manipolazioni genetiche tese a prevenire gravi malattie. E a chi, d’altro canto, pretende una legge sull’eutanasia che aiuti ciascuno a uscire di scena nei modi desiderati si può obiettare che la vita è un bene non disponibile e che una normazione siffatta potrebbe aprire la strada ad abusi e soprusi, difficili poi da riconoscere o impedire.
Che fare, dunque? Qualsiasi proposta appare banale, o troppo debole. Certo, la prima cosa da fare dovrebbe essere quella di discuterne. Ogni giorno, nei nostri ospedali, qualche medico si interroga su ciò che può, deve o dovrebbe fare delle sorti di un paziente che non è in grado di decidere da solo e per il quale il destino è lasciato alla discrezione, al buon senso e alla carità cristiana dei parenti o amici che lo assistono. Ogni, giorno, negli ospedali italiani, qualcuno continua a soffrire perché mancano linee-guida condivise sul da farsi. Ponzio Pilato cammina a braccetto di questi problemi e nessuno sembra volersene far carico. Mentre, in realtà, è proprio di buone idee, di forti presupposti scientifici e di una sacrosanta onestà intellettuale che si sente maggiormente il bisogno. Al di là delle divisioni e dei conflitti che nascono da concezioni diverse della vita e della morte (tutte sostanzialmente difendibili), quel che serve è un dialogo, una pacata riflessione: che però arrivino a produrre documenti concreti per consentire a malati, familiari e medici di agire nell’interesse singolo di ogni individuo, adattando ad esso il sapere, la tecnologia e l’etica. Dire no a tutti i costi trincerandosi dietro una inviolabilità che discende da presupposti fideistici o permettere qualunque cosa in nome di un anarchismo etico inumano non aiuta; complica invece i problemi e aumenta il dolore inutile.
E allora bisognerebbe far tesoro del racconto di Erodoto (idee non certo dei nostri giorni!), il quale narrava che Dario, re dei persiani, chiese un giorno ai greci presenti alla sua corte se mai avrebbero mangiato i cadaveri dei loro genitori; ed essi risposero:“Per nessuna ragione al mondo”. E quando chiese ad alcuni indiani Callati – i quali usavano cibarsi dei cadaveri dei propri cari – se mai ne avrebbero seppellito i corpi (come facevano i greci), essi manifestarono orrore. Dario pensava invece, tra sé e sé, che esisteva un solo modo di onorare davvero i morti: esporli su alte torri in modo che gli avvoltoi li potessero divorare. Il racconto di Erodoto ci mostra che onorare i morti è un’esigenza condivisa dal genere umano, ma che esistono diversi modi personali per soddisfarla. I conflitti nascono non quando si discute intelligentemente su tali modi diversi, ma quando ci si intestardisce nel ritenere che esista un solo modo giusto di onorare i morti e che tale unico modo debba essere di conseguenza imposto a tutti. Si finisce così per negare che ci siano modi diversi e tutti egualmente perseguibili senza che si arrechi danno ad alcuno e tutti egualmente legittimati dalla semplice regola dell’accordo.
Nella narrazione di Erodoto c’è dunque il distillato di una conquista etica più vicina ai nostri tempi. La quale suggerisce, di fronte a due convincimenti morali inconciliabili in quanto i valori cui si ispirano appaiono antitetici di accettare l’idea che essi appartengono a due comunità morali l’una all’altra straniere. In queste circostanze, dunque, la soluzione più giusta, per quanto modesta e certamente non geniale, consiste nell’ammettere ad entrambe le concezioni il diritto di sussistenza per un reciproco rispetto ed una coesistenza pacifica.
E’ questo, mi pare, anche il caso del testamento biologico: nessuna comunità morale è in grado di stabilire che le direttive anticipate sono in sé una cosa giusta o sbagliata, lodevole o biasimevole, ragionevoli o peccaminose, dolci o violente. Esistono, infatti, buoni argomenti a favore e contro e, soprattutto, manca un argomento incontrovertibile che si imponga sugli altri in maniera autoevidente. Pertanto, ad una società liberale, pluralista e rigorosa, cioè tollerante senza essere lassista, non resta che concedere ai sostenitori di una delle due convinzioni (testamento biologico sì) il diritto di emettere direttive anticipate e, a quelli dell’altra (testamento biologico no) il diritto di rifiutarlo e di pretendere che ad essi tali direttive non siano imposte con la forza. Nessuno costretto, nessuno impedito.