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POST-WELBY. Con Martini anche la bioetica religiosa riconosce il valore cruciale dell’autonomia
LUISELLA BATTAGLIA
(da Il Riformista, martedì 23 gennaio 2007, Pagina 2)
Le pacate e sofferte riflessioni del Cardinal Martini in Io, Welby e la morte, pubblicate su ‘Il Sole-24 ore’, consentono di riaprire con maggiore serenità il discorso su una vicenda drammatica e controversa. Il suo intervento appare di grande rilievo innanzitutto per l’auspicio che la Chiesa presti a casi, come quello di Welby, che diventeranno sempre più frequenti a causa degli stessi progressi della medicina tecnologica. Le nuove tecniche richiedono, a suo avviso, un per non prolungare trattamenti che non giovino più alla persona. In tal modo, si ribadisce una quanto mai opportuna distinzione tra due termini spesso confusi: l’eutanasia, che si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita causando la morte e l’accanimento terapeutico che consiste alla rinuncia nell’utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo. Evitare l’accanimento terapeutico significa, ricorda Martini, assumere i limiti della propria condizione umana mortale. In effetti, se la morte, per l’uomo, è un evento inevitabile, è anche—e deve essere—un fatto eminentemente personale, da vivere responsabilmente come momento riassuntivo dell’intera avventura umana. Ma come stabilire—si chiede Martini—se un intervento medico è appropriato? Non ci si può richiamare a una regola generale, quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, la situazione in cui l’evento si svolge. Si tratta di un rilievo della massima importanza che ci richiama a una visione della morale non come dominio non della legge astratta e dei principi assoluti ma come luogo della prudenza, secondo una tradizione che risale ad Aristotele e di cui Tommaso, nel pensiero cristiano, dà testimonianza. In bioetica non s’intende tanto dimostrare una verità quanto giustificare una scelta, un’adesione, una pratica; la giustificazione riguarda la legittimità, la moralità ma anche l’opportunità di un determinato agire. Che cosa rende un corso d’azione migliore d’un altro, una decisione più giusta di un’altra? I principi non possono mai decidere le questioni etiche per se stesse ma, piuttosto, possiamo cogliere la forza morale dei principi studiando i modi in cui essi sono applicati alle situazioni particolari.
Per una valutazione della proporzionalità, Martini fa riferimento, oltre che alla situazione alla volontà del malato e, dunque, alla centralità della persona: la proporzionalità deve essere calibrata su un soggetto, meglio da lui decisa, non affidata ad astratte valutazioni. Non si vuole così ridurre o ridimensionare il ruolo del medico, come taluni potrebbero temere, ma piuttosto ricostituire una relazione col malato, una vera ‘alleanza terapeutica’, basata sull’informazione o meglio sulla comunicazione e, quindi, sulla fiducia.
Dal discorso di Martini mi sembra emerga, pertanto, la possibilità di una bioetica religiosa che riconosca il valore cruciale dell’autonomia, un valore che spesso si considera proprio soltanto di una bioetica laica. Un’autonomia da intendersi in senso forte, kantiano, intesa a fare di ciascuno di noi il legislatore tenuto a osservare la sola norma che deriva dalla ragione; un’autonomia che non è assoluta, non significando, secondo una visione stereotipata, né isolamento né abbandono, e ancora non uno stato ma, piuttosto, un processo, qualcosa che matura e si rafforza nel dialogo tra medico e paziente. Perchè mai un credente non dovrebbe preoccuparsi della modalità della sua morte, riflettere su quali decisioni prendere in situazioni che si prospettano dilemmatiche, dal momento che a buon diritto si preoccupa della sua salute nel corso della vita? La fede nella provvidenza divina non esclude in alcun modo la lungimiranza umana: probabilmente la presuppone.
Quella di Martini mi sembra un’impostazione teorica che ha il merito di rendere problematici gli schieramenti ideologici precostituiti, gli integralismi in competizione e di evidenziare la vacuità di quella separazione rigida tra bioetica laica e bioetica cattolica che troppo spesso viene impiegata come un vero e proprio criterio distintivo, strutturale, tra universi ideali incomunicabili.
Il Cardinale mostra la compatibilità tra ‘autonomia e ‘cura’, due valori spesso ritenuti erroneamente antagonisti. In realtà, all’interno di una bioetica liberale, che ponga al centro la relazione tra l’io e il tu, l’autonomia non esclude in alcun modo quel che significa attenzione per l’altro, le sue esigenze, i suoi bisogni e che testimonia una solidarietà umana fondamentale.
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