DOPO WELBY E LA LEGGE 40
Se è la società a stabilire cosa sia il bene viene capovolta la lezione liberale di Mill
LUISELLA BATTAGLIA
(da Il Riformista, mercoledì 27 dicembre 2006 pag. 2)
E’ possibile nel nostro paese una bioetica liberale, una bioetica – intendo – che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell’autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?
Il caso Welby - nel rivelare insieme e simmetricamente, l’onnipotenza della medicina e l’impotenza della persona - ha mostrato come si continui a rendere, nella nostra cultura, solo un formale e ipocrita omaggio a quel principio di autonomia che si traduce nel diritto all’autodeterminazione e che gioca un ruolo rilevante nella costruzione dell’idea moderna della dignità umana. Nel lontano 1859 John Stuart Mill, uno dei padri del liberalismo, si interrogava, in un testo ormai classico On Liberty, sulla natura e sui limiti del potere che la società poteva esercitare sull’individuo e rispondeva formulando il ‘principio del danno’, secondo cui l’intervento della società è giustificato solo quando la condotta di un individuo è tale da nuocere agli altri e il singolo deve rispondere verso la società solo delle azioni che incidono sulla sfera di attività del prossimo. La società non ha dunque in alcun modo il diritto di definire che cosa sia il ‘bene’, sia fisico che morale di un individuo il quale, di conseguenza, non può essere costretto a fare o non fare qualcosa in base alla pretesa giustificazione che ciò sarebbe meglio per lui, lo renderebbe più felice o il suo agire sarebbe più saggio o più giusto. Ci troveremmo in tal caso in presenza di uno ‘stato etico’ che si prefigge il conseguimento di certi valori a cui la volontà del singolo deve obbedienza, anziché di uno ‘stato di diritto’ che lascia ciascuno libero di definire il proprio piano di vita, sulla base di valori spontaneamente scelti. Da qui l’importanza essenziale di quel principio di autonomia in base al quale “su se stesso, sul suo corpo, sul suo spirito l’individuo è sovrano.”
E’ inevitabile oggi la domanda: il nostro è uno stato che può definirsi liberale o siamo ancora, per quanto riguarda le scelte fondamentali della nostra vita, in una condizione di minorità, sotto l’ombra protettiva di un paternalismo che nega la nostra libertà, una sorta di dispotismo illuminato di tipo nuovo, fondato sul potere della tecnologia? La tutela di una sfera di autonomia personale dalle interferenze del potere politico e religioso era la preoccupazione di Mill ed è, o dovrebbe essere, anche la nostra. La sua opera risulta singolarmente attuale se letta alla luce del dibattito cruciale, in ambito bioetico, sulle questioni poste dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche e sul loro impatto sulla nostra vita, sulla stessa immagine della nostra umanità. Mill appare schierato a difesa della libertà individuale, sostenitore, diremmo oggi, di un ‘diritto mite’, di una ‘legislazione leggera’ che dia ampio spazio alla coscienza del singolo più che alla responsabilità forzata da parte della legge. “La libertà che sola merita questo nome – si legge in quello che potrebbe chiamarsi un vero e proprio manifesto della società liberale – è la libertà di cercare il nostro bene personale come meglio crediamo, finchè non priviamo gli altri del loro o non ne ostacoliamo gli sforzi per procurarselo. Ognuno è custode naturale delle proprie facoltà, sia fisiche che intellettuali e spirituali. Il genere umano si avvantaggia di più se si lasciano vivere gli uomini come meglio loro piace, che obbligarli a vivere come piace gli altri.” Una dottrina certo non nuova che tuttavia – aggiunge Mill – appare singolarmente in contrasto con le opinioni e i costumi attuali i quali testimoniano una forte e crescente inclinazione ad estendere sempre più il potere della società sull’individuo. Una riflessione che possiamo applicare anche all’odierna società italiana, considerando ad es. la recente legislazione in materia di procreazione assistita – la legge 40, la più restrittiva e illiberale a livello europeo – da cui emerge nettamente la volontà di regolare l’intera vita privata dei cittadini facendo intervenire l’autorità pubblica proprio nella sfera più personale e più intima, quella della sessualità e delle connesse scelte procreative. L’indicazione milliana è indubbiamente a favore di un ampliamento della sfera della liceità, nella direzione, in campo bioetico, di una moralità del benessere e delle simpatie sociali, cioè di un’etica tollerante e rispettosa delle opzioni personali, anche se da noi non condivise, a condizione naturalmente che non ostacolino in alcun modo l’altrui libertà.
Superfluo rilevare l’importanza di questo principio cardine – che sancisce la libertà di disporre di sé, della propria vita – per il dibattito attuale sul testamento biologico, in un momento in cui pare si venga progressivamente restringendo, nel nostro paese, l’area delle decisioni lasciate all’autodeterminazione delle persone.
Etica relativistica? Tutt’altro. Per Mill, esistono ‘vizi morali’ come la crudeltà, l’invidia, la cupidigia, l’egoismo estremo etc. che rendono un carattere cattivo o odioso ed espongono al biasimo. Ma è fondamentale distinguere tra il discredito a cui una persona può esser sottoposta per i suoi ‘vizi’ e la riprovazione che le è dovuta per aver violato i diritti altrui. Nel primo caso, ci muoviamo nell’ambito della libertà – e la società non ha alcun diritto di interferire poiché non è offeso direttamente alcun individuo – nel secondo, nell’ambito della legge – e l’intervento dello Stato è richiesto in presenza del danno arrecato alla collettività. Di qui l’importanza della lezione liberale di Mill col suo richiamo alla diversità strutturale del momento etico rispetto a quello giuridico e alla necessità di non confondere i due ambiti di discorso.
La distinzione liberale tra sfera pubblica e privata risulta, a mio avviso, particolarmente utile oggi in presenza di una crescente ‘giuridicizzazione’ della morale, e cioè del prevalere – specie in ambito bioetico - di sanzioni di tipo giuridico nei confronti di comportamenti attinenti propriamente la dimensione etica.
Il caso Welby - nel rivelare insieme e simmetricamente, l’onnipotenza della medicina e l’impotenza della persona - ha mostrato come si continui a rendere, nella nostra cultura, solo un formale e ipocrita omaggio a quel principio di autonomia che si traduce nel diritto all’autodeterminazione e che gioca un ruolo rilevante nella costruzione dell’idea moderna della dignità umana. Nel lontano 1859 John Stuart Mill, uno dei padri del liberalismo, si interrogava, in un testo ormai classico On Liberty, sulla natura e sui limiti del potere che la società poteva esercitare sull’individuo e rispondeva formulando il ‘principio del danno’, secondo cui l’intervento della società è giustificato solo quando la condotta di un individuo è tale da nuocere agli altri e il singolo deve rispondere verso la società solo delle azioni che incidono sulla sfera di attività del prossimo. La società non ha dunque in alcun modo il diritto di definire che cosa sia il ‘bene’, sia fisico che morale di un individuo il quale, di conseguenza, non può essere costretto a fare o non fare qualcosa in base alla pretesa giustificazione che ciò sarebbe meglio per lui, lo renderebbe più felice o il suo agire sarebbe più saggio o più giusto. Ci troveremmo in tal caso in presenza di uno ‘stato etico’ che si prefigge il conseguimento di certi valori a cui la volontà del singolo deve obbedienza, anziché di uno ‘stato di diritto’ che lascia ciascuno libero di definire il proprio piano di vita, sulla base di valori spontaneamente scelti. Da qui l’importanza essenziale di quel principio di autonomia in base al quale “su se stesso, sul suo corpo, sul suo spirito l’individuo è sovrano.”
E’ inevitabile oggi la domanda: il nostro è uno stato che può definirsi liberale o siamo ancora, per quanto riguarda le scelte fondamentali della nostra vita, in una condizione di minorità, sotto l’ombra protettiva di un paternalismo che nega la nostra libertà, una sorta di dispotismo illuminato di tipo nuovo, fondato sul potere della tecnologia? La tutela di una sfera di autonomia personale dalle interferenze del potere politico e religioso era la preoccupazione di Mill ed è, o dovrebbe essere, anche la nostra. La sua opera risulta singolarmente attuale se letta alla luce del dibattito cruciale, in ambito bioetico, sulle questioni poste dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche e sul loro impatto sulla nostra vita, sulla stessa immagine della nostra umanità. Mill appare schierato a difesa della libertà individuale, sostenitore, diremmo oggi, di un ‘diritto mite’, di una ‘legislazione leggera’ che dia ampio spazio alla coscienza del singolo più che alla responsabilità forzata da parte della legge. “La libertà che sola merita questo nome – si legge in quello che potrebbe chiamarsi un vero e proprio manifesto della società liberale – è la libertà di cercare il nostro bene personale come meglio crediamo, finchè non priviamo gli altri del loro o non ne ostacoliamo gli sforzi per procurarselo. Ognuno è custode naturale delle proprie facoltà, sia fisiche che intellettuali e spirituali. Il genere umano si avvantaggia di più se si lasciano vivere gli uomini come meglio loro piace, che obbligarli a vivere come piace gli altri.” Una dottrina certo non nuova che tuttavia – aggiunge Mill – appare singolarmente in contrasto con le opinioni e i costumi attuali i quali testimoniano una forte e crescente inclinazione ad estendere sempre più il potere della società sull’individuo. Una riflessione che possiamo applicare anche all’odierna società italiana, considerando ad es. la recente legislazione in materia di procreazione assistita – la legge 40, la più restrittiva e illiberale a livello europeo – da cui emerge nettamente la volontà di regolare l’intera vita privata dei cittadini facendo intervenire l’autorità pubblica proprio nella sfera più personale e più intima, quella della sessualità e delle connesse scelte procreative. L’indicazione milliana è indubbiamente a favore di un ampliamento della sfera della liceità, nella direzione, in campo bioetico, di una moralità del benessere e delle simpatie sociali, cioè di un’etica tollerante e rispettosa delle opzioni personali, anche se da noi non condivise, a condizione naturalmente che non ostacolino in alcun modo l’altrui libertà.
Superfluo rilevare l’importanza di questo principio cardine – che sancisce la libertà di disporre di sé, della propria vita – per il dibattito attuale sul testamento biologico, in un momento in cui pare si venga progressivamente restringendo, nel nostro paese, l’area delle decisioni lasciate all’autodeterminazione delle persone.
Etica relativistica? Tutt’altro. Per Mill, esistono ‘vizi morali’ come la crudeltà, l’invidia, la cupidigia, l’egoismo estremo etc. che rendono un carattere cattivo o odioso ed espongono al biasimo. Ma è fondamentale distinguere tra il discredito a cui una persona può esser sottoposta per i suoi ‘vizi’ e la riprovazione che le è dovuta per aver violato i diritti altrui. Nel primo caso, ci muoviamo nell’ambito della libertà – e la società non ha alcun diritto di interferire poiché non è offeso direttamente alcun individuo – nel secondo, nell’ambito della legge – e l’intervento dello Stato è richiesto in presenza del danno arrecato alla collettività. Di qui l’importanza della lezione liberale di Mill col suo richiamo alla diversità strutturale del momento etico rispetto a quello giuridico e alla necessità di non confondere i due ambiti di discorso.
La distinzione liberale tra sfera pubblica e privata risulta, a mio avviso, particolarmente utile oggi in presenza di una crescente ‘giuridicizzazione’ della morale, e cioè del prevalere – specie in ambito bioetico - di sanzioni di tipo giuridico nei confronti di comportamenti attinenti propriamente la dimensione etica.