Condannato a vivere ma per Welby può valere l’esempio di Genova
Luisella Battaglia
(da : Il Secolo XIX Venerdì 1 dicembre 2006)
Tutte le condizioni sono ormai state adempiute, compresa la richiesta scritta di esser lasciato morire. Sembra che non basti. Piergiorgio Welby è ‘condannato a vita alla vita’: un nuovo genere di ergastolo, garantito dai progressi della scienza medica, il cui volto oscuro è rappresentato dall’accanimento terapeutico, ovvero dall’“ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Una pratica unanimemente condannata tant’è che lo stesso Catechismo della chiesa cattolica – firmato Ratzinger – contempla il caso della sospensione delle “cure sproporzionate” dinanzi ad una volontà esplicita e adeguatamente motivata, dal punto di vista medico, del paziente e dei suoi familiari.
Quello di Welby è un caso esemplare di ‘accanimento terapeutico’ che rivela, insieme , la tragica onnipotenza della medicina e l’assoluta impotenza della persona. Eppure si continua a rendere, nella nostra cultura, un formale e ipocrita omaggio a quel principio di autonomia che si traduce nel diritto all’autodeterminazione e che gioca un ruolo rilevante nella costruzione dell’idea moderna della dignità umana. Sennonché qual è il destino della libertà individuale in un paese che condanna a vivere un uomo che ha dichiarato la sua volontà di morire? Il nostro è uno stato che può definirsi liberale o viviamo ancora, per quanto riguarda le scelte fondamentali della nostra vita, sotto l’ombra protettiva di un paternalismo che nega la nostra libertà, un dispotismo illuminato di tipo tecnologico?
La dottrina del ‘consenso informato’- che sancisce il diritto del malato ad essere adeguatamente informato sulle terapie proposte e a decidere in piena autonomia in quanto unico giudice del suo ‘migliore interesse’- rinvia al ‘testamento biologico’, che dovrebbe consentire a ciascuno di esprimere le proprie volontà sui trattamenti a cui vorrebbe o meno essere sottoposto nel caso in cui non fosse più in grado di esprimere il suo parere.
Anche se il testamento biologico non è ancora divenuto legge, a Genova, il Comitato di bioetica di San Martino ha preso una decisione coraggiosa. Dinanzi alla richiesta di un paziente che doveva sottoporsi a un rischioso intervento chirurgico e che, in caso di aggravamento delle sue condizioni, aveva esplicitamente chiesto di ‘lasciarlo morire’, il Comitato è pervenuto a una formulazione che rendesse compatibile il diritto del malato col punto di vista medico, richiamandosi sia alla norma del Codice deontologico che vieta l’accanimento terapeutico, sia alla Convenzione di Oviedo secondo cui il medico deve tener conto della volontà del malato precedentemente espressa.
Un precedente significativo e importante che potrebbe applicarsi a Welby il quale di fatto ha compilato un vero e proprio testamento biologico, in piena coscienza, coll’assistenza di un medico curante e in presenza di un ‘fiduciario’ –-la moglie-- che garantisca la corretta interpretazione delle sue volontà. Tutte condizioni che i disegni di legge prevedono, che qui sono scrupolosamente adempiute e che il Comitato Nazionale per la Bioetica aveva indicato in un suo documento del 2003, coll’auspicio che si giungesse ad una soluzione legislativa.
Se il parlamento rinvia le sue decisioni, un Comitato bioetico, nazionale o locale, potrebbe esprimersi autorevolmente senza esercitare alcuna ‘disobbedienza civile’ ma mostrando anzi la piena ‘obbedienza’ ai valori etici che dovrebbero guidare una retta pratica della medicina.
Quello di Welby è un caso esemplare di ‘accanimento terapeutico’ che rivela, insieme , la tragica onnipotenza della medicina e l’assoluta impotenza della persona. Eppure si continua a rendere, nella nostra cultura, un formale e ipocrita omaggio a quel principio di autonomia che si traduce nel diritto all’autodeterminazione e che gioca un ruolo rilevante nella costruzione dell’idea moderna della dignità umana. Sennonché qual è il destino della libertà individuale in un paese che condanna a vivere un uomo che ha dichiarato la sua volontà di morire? Il nostro è uno stato che può definirsi liberale o viviamo ancora, per quanto riguarda le scelte fondamentali della nostra vita, sotto l’ombra protettiva di un paternalismo che nega la nostra libertà, un dispotismo illuminato di tipo tecnologico?
La dottrina del ‘consenso informato’- che sancisce il diritto del malato ad essere adeguatamente informato sulle terapie proposte e a decidere in piena autonomia in quanto unico giudice del suo ‘migliore interesse’- rinvia al ‘testamento biologico’, che dovrebbe consentire a ciascuno di esprimere le proprie volontà sui trattamenti a cui vorrebbe o meno essere sottoposto nel caso in cui non fosse più in grado di esprimere il suo parere.
Anche se il testamento biologico non è ancora divenuto legge, a Genova, il Comitato di bioetica di San Martino ha preso una decisione coraggiosa. Dinanzi alla richiesta di un paziente che doveva sottoporsi a un rischioso intervento chirurgico e che, in caso di aggravamento delle sue condizioni, aveva esplicitamente chiesto di ‘lasciarlo morire’, il Comitato è pervenuto a una formulazione che rendesse compatibile il diritto del malato col punto di vista medico, richiamandosi sia alla norma del Codice deontologico che vieta l’accanimento terapeutico, sia alla Convenzione di Oviedo secondo cui il medico deve tener conto della volontà del malato precedentemente espressa.
Un precedente significativo e importante che potrebbe applicarsi a Welby il quale di fatto ha compilato un vero e proprio testamento biologico, in piena coscienza, coll’assistenza di un medico curante e in presenza di un ‘fiduciario’ –-la moglie-- che garantisca la corretta interpretazione delle sue volontà. Tutte condizioni che i disegni di legge prevedono, che qui sono scrupolosamente adempiute e che il Comitato Nazionale per la Bioetica aveva indicato in un suo documento del 2003, coll’auspicio che si giungesse ad una soluzione legislativa.
Se il parlamento rinvia le sue decisioni, un Comitato bioetico, nazionale o locale, potrebbe esprimersi autorevolmente senza esercitare alcuna ‘disobbedienza civile’ ma mostrando anzi la piena ‘obbedienza’ ai valori etici che dovrebbero guidare una retta pratica della medicina.