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Nuove linee guida sulla procreazione assistita: canto del cigno o reale cambiamento?
(da "Diritto & Giustizia" del 10.5.2008)
Mauro Fusco
Quasi sotto silenzio, all’indomani dell’insediamento del nuovo Parlamento ed a pochi giorni dalle nomine del nuovo esecutivo, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 aprile scorso il Decreto del Ministero della Salute dell’11.4.2008, recante le nuove linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita. Il provvedimento, atteso da tempo dagli operatori del settore e da chi si trova nella dolorosa necessità di ricorrere a tali pratiche mediche, assume oggi una valenza del tutto particolare in un momento politico in cui il governo uscente non può fare a meno di confrontarsi con le ragioni di una annunciata quanto pesante sconfitta e con la delusione dei suoi elettori in relazione a temi delicati come quelli della bioetica.
Prima di affrontare però nello specifico cosa sia realmente cambiato nella normativa in materia di procreazione assistita è il caso di ripercorrere brevemente l’iter delle linee guida attuative della legge 40, anche alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali in materia. Le linee guida del 2004 tra attuazione e restrizione Esplicitamente previste dall’art. 7 della legge n. 40/2004, che disciplina nel nostro paese il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, le prime linee guida in materia sono state emanate con Decreto del Ministero della Salute del 21 luglio 2004, ovvero circa quattro mesi dopo l’entrata in vigore della legge. L’art. 7 prevedeva, tra le altre cose, che le stesse fossero “vincolanti per tutte le strutture autorizzate” e dovessero essere periodicamente aggiornate, in rapporto all'evoluzione tecnico-scientifica, almeno ogni tre anni.
Causa di aspre polemiche sin dalla loro criticata emanazione, le linee guida del 2004, si aprivano con alcune definizioni più o meno contestate (discutibile, a mero titolo esemplificativo, è la scelta di considerare infertilità e sterilità come sinonimi), accanto alle quali venivano indicate le modalità con cui sarebbe dovuta avvenire la certificazione di infertilità, requisito indispensabile per l’accesso alle tecniche. Si affermava altresì il principio della gradualità delle tecniche e si stabiliva in cosa dovesse consistere l’attività di sostegno e consulenza rivolta alla coppia richiedente. Seguiva un’ampia parte centrale nella quale venivano descritte le varie tecniche, distinte in tre livelli a seconda dell’invasività e descritte nei loro momenti procedurali. Nella sua parte finale, il decreto del 2004 affrontava l’annosa questione della sperimentazione sugli embrioni umani (art. 13, l. 40/2004), stabilendo, accanto al divieto di “ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica”, che “ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni in vitro, ai sensi dell’articolo 14, comma 5 dovrà essere di tipo osservazionale” e che ove mai “il trasferimento dell’embrione, non coercibile, non risulti attuato, la coltura in vitro del medesimo deve essere mantenuta fino al suo estinguersi”. Qualora, invece, il mancato trasferimento fosse derivato da cause di forza maggiore relative allo stato di salute della donna non prevedibili al momento della fecondazione, l’embrione non trasferito avrebbe dovuto essere crioconservato in attesa di un futuro impianto, con onere a carico del centro. Gli articoli in questione hanno costituito per mesi uno dei punti maggiormente cruciali della prima stesura delle linee guida, fonti di polemiche inesauribili risolte solo in parte dalla giurisprudenza degli ultimi anni.
Nell’incertezza del lacunoso testo legislativo, che non prevede alcun divieto esplicito alla diagnosi preimpianto ma che non ammette eccezioni ai divieti di soppressione e di crioconservazione degli embrioni e di qualsiasi forma di sperimentazione che non sia rivolta alla tutela della salute e allo sviluppo degli stessi (motivo per cui si ipotizzò finanche, in un primo momento, che la donna potesse essere oggetto di trasferimenti “coatti”, evidentemente inaccettabili oltre che incostituzionali), le linee guida introducevano di fatto, e chiaramente praeter legem, un divieto assoluto a tutte quelle tecniche di diagnosi genetica che, fino all’entrata in vigore delle linee guida, erano state ampiamente utilizzate per consentire a coppie portatrici di malattie geneticamente trasmissibili di concepire figli sani. Tale ulteriore limitazione, che si aggiungeva ad un testo ritenuto tra i più restrittivi in Europa e che diveniva uno dei motivi tipici per ricorrere al cd. “turismo terapeutico”, finiva per scatenare, oltre che veementi polemiche, anche diversi contenziosi legali, risolti in modo alterno dalla giurisprudenza civile ed amministrativa, come si avrà modo di vedere fra breve.
Concludevano il testo la descrizione delle modalità di crioconservazione degli embrioni, con particolare riguardo alla struttura organizzativa dei centri, ai controlli ed alla prevenzione dei rischi di contaminazione da epatite virale ed HIV, nonché alla registrazione dei dati della coppia in apposite schede cliniche e di laboratorio ed alle misure di sicurezza per proteggere tali dati da eventuali alterazioni. Il travagliato iter giurisprudenziale del divieto di diagnosi genetica preimpianto Avverso il divieto di diagnosi genetica preimpianto contenuto nelle linee guida del 2004, ricorreva nel novembre 2004 al T.A.R. Lazio l’Associazione W.A.R.M. (World Association Reproductive Medicine), alla quale fanno capo numerose strutture sanitarie e centri autorizzati ad effettuare trattamenti di procreazione assistita. Con tale ricorso l’associazione chiedeva l’annullamento del Decreto Ministeriale e sollevava contestualmente la questione di legittimità costituzionale in relazione ad alcune norme della legge 40. Il giudizio in questione, nel quale intervenivano anche il comitato per la tutela della salute della donna, il forum delle associazioni familiari ed il movimento per la vita, veniva deciso con la sentenza n. 3452 del 9.5.2005 (cfr. il supplemento settimanale cartaceo «D&G» a questa Rivista, n. 21 del 28.5.2005) che respingeva in modo netto tutte le richieste dell’associazione ricorrente, dichiarando altresì infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nel corso del processo. Per un mero vizio di natura procedurale (l’inammissibilità, per tardività, della costituzione in giudizio degli interventori ad opponendum), la pronunzia in questione veniva tuttavia annullata dal Consiglio di Stato con sentenza del 19.12.2006 che rinviava gli atti al T.A.R. di prima istanza.
Nelle more del complesso e relativamente lungo iter del giudizio amministrativo, alcune coppie, tutte portatrici di malattie trasmissibili al nascituro, ricorrevano alle corti di merito chiedendo la possibilità di derogare, stante le loro peculiari condizioni di salute, al divieto di diagnosi genetica preimpianto contenuto nelle linee guida ed, indirettamente, anche ad alcune disposizioni della legge 40. Sul punto una prima importante pronunzia veniva emessa il 16.7.2005 dal giudice Donatella Satta del Tribunale di Cagliari (cfr. il supplemento settimanale cartaceo «D&G» a questa rivista, n. 33 del 17.09.05) che, chiamata a pronunciarsi su un ricorso d’urgenza presentato da una coppia affetta da beta talassemia, sollevava, in quanto rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, la questione di legittimità dell'art. 13 della legge 40, nella parte in cui non consente di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto sull'embrione ai fini dell'accertamento delle patologie genetiche.
Il relativo processo dinanzi alla Corte Costituzionale non dava tuttavia alcun esito utile, ritenendo i giudici della Consulta inammissibile la questione sottoposta, con la motivazione, quantomeno dubbia, che l’eccezione di costituzionalità non potesse essere riferita al solo art. 13 ma fosse “desumibile anche da altri articoli della stessa legge, non impugnati, nonché dall’interpretazione dell’intero testo legislativo “alla luce dei suoi criteri ispiratori” (cfr. ordinanza n. 369 del 9.11.2006, pubblicata sul numero del 10.11.2006 di questa Rivista e commentata sul supplemento «D&G», n. 43 del 25.11.2006)
Nonostante il nulla di fatto dinanzi ai giudici delle leggi, la giurisprudenza di merito finiva con l’imporre una significativa svolta nel dibattito sulla diagnosi genetica preimpianto con la sentenza resa dal giudice Grazia Cabitza del Tribunale di Cagliari del 22 settembre 2007 (cfr. il numero del 23.10.2007 di questa Rivista) e l’ordinanza del 17 dicembre 2007 del giudice Isabella Mariani del Tribunale di Firenze. In entrambi i casi, accertata preliminarmente l’insussistenza della vietata quanto sfuggente “finalità eugenetica” delle tecniche, venivano disapplicate, perché ritenute contrarie al dettato costituzionale, le linee guida alla legge 40 nella parte in cui limitavano la diagnosi genetica alla sola indagine osservazionale, inutile a garantire una efficace tutela del diritto alla salute delle coppie richiedenti. Nel caso deciso dal Tribunale di Firenze il giudice si spingeva finanche a derogare ai divieti, previsti dal provvedimento legislativo, che limitano il numero di embrioni creabili in vitro e ne vietano la crioconservazione al fine di consentire l’applicazione al caso concreto delle “migliori regole della scienza in relazione alla salute della madre”.
Tali pronunzie facevano letteralmente da “apripista” per la nuova decisione del T.A.R. Lazio che, sovvertendo radicalmente il proprio orientamento manifestato soltanto due anni prima, con la sentenza n. 398 del 21 gennaio scorso (cfr. i numeri del 24.1.2008 e del 29.1.2008 di questa Rivista), accoglieva, seppur in parte, le richieste dell’associazione ricorrente ed annullava le linee guida nella parte in cui disponevano che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell'articolo 13, comma 5, dovesse essere limitata alla mera indagine osservazionale. Contestualmente veniva sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, commi 2 e 3, della legge n. 40/2004, inerenti al limite di tre embrioni creabili in vitro ed all’obbligo di realizzare il trasferimento degli embrioni non impiantati per motivi di salute, per il contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione. Le linee guida del 2008, “nuove” ma non troppo Nel turbinoso evolversi della giurisprudenza di merito e di legittimità in materia di diagnosi genetica preimpianto era quantomeno lecito aspettarsi che nella legislatura appena terminata si intervenisse in qualche modo per apportare alla normativa sulla procreazione assistita quantomeno i correttivi più urgenti che i primi anni di vigenza della stessa avevano dimostrato essere necessari. Nonostante gli esigui numeri della maggioranza parlamentare e le spaccature, fin troppo evidenti all’interno della stessa, sicuramente lasciassero poche speranze sulle possibilità di emendare, anche in minima parte, la legge 40, ci si attendeva da più parti quantomeno un significativo intervento del Ministero della Salute in sede di aggiornamento delle linee guida.
Come già evidenziato in precedenza, proprio l’art. 7 della legge 40 prevedeva infatti l’obbligo di procedere all’aggiornamento periodico delle stesse “almeno ogni tre anni”, motivo per cui il D.M. del luglio 2004 sarebbe “scaduto” già nell’estate scorsa. Ciò nonostante l’iter burocratico per l’emanazione delle aggiornate linee guida, per il quale il Consiglio Superiore di Sanità aveva espresso parere il 19.7.2007, si concludeva solo l’11 aprile scorso, alla vigilia delle nuove elezioni, con l’emanazione del Decreto Ministeriale poi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 aprile. Come è facilmente intuibile, le considerazioni sull’opportunità politica di una pubblicazione così ritardata hanno inevitabilmente condizionato i primi commenti sul testo che vale tuttavia la pena di esaminare nei suoi punti salienti, seppure in breve.
Ad un esame comparato delle linee guida del 2004 e di quelle del 2007 quello che senza dubbio colpisce maggiormente è che il nuovo testo riprende pedissequamente il precedente, rispettandone in massima parte lo schema ed i contenuti, eccezion fatta per tre aspetti sostanziali.
La prima, e senza dubbio più importante, novità è relativa all’accesso alle tecniche, in relazione al quale sono state aggiunte alle ipotesi di infertilità originariamente previste, anche “quelle peculiari condizioni in presenza delle quali - essendo l'uomo portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, HBV od HCV - l'elevato rischio di infezione per la madre o per il feto costituisce di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione, imponendo l'adozione di precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di infecondità, da farsi rientrare tra i casi di infertilità maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico, di cui all'art. 4, comma 1 della legge n. 40 del 2004”. In altri termini, qualora all’interno della coppia il partner maschile sia portatore di virus come quello dell’HIV o dell’epatite e che si trovi quindi nell’impossibilità di avere un rapporto sessuale senza correre il rischio di infettare la partner e il nascituro, il D.M. gli riconosce una condizione peculiare (che non potrebbe essere definita correttamente di infertilità, atteso che la capacità procreativa non è condizionata dalla patologia) che, debitamente certificata, gli consente di accedere comunque alle tecniche. L’innovazione, la cui importanza è sottolineata nel parere del Consiglio Superiore di Sanità reso nella seduta del 19.7.2007, è di non poco conto se si tiene presente che con l’entrata in vigore della legge 40, per la quale la condizione di infertilità era irrinunziabile per l’accesso alle tecniche, era stato di fatto precluso ai portatori di malattie sessualmente trasmissibili di poter ricorrere alla metodica dello “sperm washing” (che consente di “pulire” il seme dal virus) e della ICSI (iniezione intracitoplasmatica degli spermatozoi, con la quale si può fecondare l’ovocita utilizzando soltanto il seme non infetto), unica possibilità di poter procreare senza correre il rischio di contagiare la madre ed il futuro nato.
La seconda innovazione che è possibile rinvenire nella nuova versione delle linee guida riguarda l’esplicita previsione di un’attività di sostegno psicologico per la coppia che decida di richiedere l’accesso alle tecniche, sia al momento di verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, sia nella successiva fase dell’esecuzione dei trattamenti. Sull’importanza di tale attività di sostegno alla coppia, sottolineata anch’essa dal Consiglio Superiore di Sanità, appare quasi superfluo dilungarsi più di tanto, atteso che anche chi non è esperto della materia si rende agevolmente conto del forte impatto psicologico che possono avere su una coppia la scoperta di non riuscire a procreare spontaneamente e, conseguentemente, il percorso, tutt’altro che agevole sia da un punto di vista medico che psicologico, dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Tale esigenza era stata in ogni caso già colta dalla gran parte dei centri in cui vengono applicate le tecniche ed in cui la figura dello psicologo è quasi sempre presente. Ad ogni modo, l’esplicita previsione di un’attività di supporto da parte di un professionista con adeguata formazione nel settore consente senz’altro di sopperire ad uno dei limiti della legge 40, che inevitabilmente finiva con l’imporre al medico ed al responsabile del centro attività che senza dubbio potevano trascendere le sue competenze specifiche.
L’ultimo aspetto, particolarmente enfatizzato dai media nei primissimi giorni dopo la pubblicazione delle nuove linee guida, riguarda infine la diagnosi preimpianto. Nella parte inerente alle “misure di tutela degli embrioni”, il nuovo testo lascia unicamente intatto il divieto di diagnosi preimpianto aventi finalità eugenetica mentre sono state, di converso, eliminate le parti che ammettevano la sola indagine osservazionale sugli embrioni, l’obbligo di informazione della coppia nell’ipotesi in cui venissero evidenziate anomalie, l’obbligo di mantenere in vitro fino al suo naturale estinguersi la coltura degli embrioni il cui trasferimento, non coercibile, non potesse essere attuato.
Per quanto concerne il primo aspetto, come si è avuto modo di evidenziare in precedenza, la disposizione che vincolava la diagnosi preimpianto alla sola indagine osservazionale era stata già annullata dal T.A.R. Lazio con la sentenza n. 398 del 21.1.2008, che aveva, da alcuni mesi ormai, riammesso nella legalità la diagnosi genetica sugli embrioni. Anche per quel che riguarda l’obbligo di informazione sulle eventuali anomalie dell’embrione non vi è alcuna particolare innovazione, atteso che tale obbligo rientra nel più generale dovere di informazione alla coppia, già previsto dall’art. 14 comma 5 della legge. Non resta pertanto che esaminare l’ultima parte della disposizione espunta dal nuovo testo, che in precedenza obbligava il medico, nell’ipotesi in cui gli embrioni fossero risultati affetti da patologie e non trasferibili in utero per scelta medica o per volontà della coppia, a lasciare che gli stessi si estinguessero “naturalmente” nel mezzo di coltura. La ratio della norma era evidentemente finalizzata ad evitare che tali embrioni potessero costituire oggetto di sperimentazione o manipolazione (si pensi alla possibilità di utilizzarli per ricavarne cellule staminali), in deroga agli espliciti e tassativi divieti previsti dalla legge 40. Rimossa tale prescrizione, rimane sicuramente una lacuna, di non poco conto, su quale sia il destino degli embrioni malformati, atteso che, non essendo pensabile un successivo trasferimento in utero (unica ipotesi in cui la legge ammette il congelamento) e fermo restando il divieto di soppressione e sperimentazione imposti dalla legge, non è ben chiaro quale sia il procedimento che debbano adottare i centri in cui si effettuino le diagnosi preimpianto.
Parimenti poco chiaro è quando ricorra quella “finalità eugenetica” che, allo stato attuale, rimane l’unica ed evanescente preclusione imposta dalle linee guida al ricorso alle tecniche di diagnosi sugli embrioni. Presente in più punti anche del testo di legge, il richiamo all’eugenetica si rivela infatti un concetto di sfuggente definizione, soprattutto se svincolato da quelle esigenze politiche, sociobiologiche e di salute pubblica che hanno tradizionalmente accompagnato la nascita e lo sviluppo, tra la fine dell’ottocento e la prima metà del secolo scorso, della “scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte» (F. GALTON, Inquiries into Human Faculty and its Development, Londra, 1892, p. 17). In mancanza di tali finalità politiche, sociobiologiche e razziali, ampiamente condannate nella seconda metà del ventesimo secolo e fortunatamente oggi circoscritte alla sola letteratura di fantascienza, appare invero difficoltoso ricondurre ad una “finalità eugenetica” la richiesta di una coppia, soprattutto se portatrice di una malattia trasmissibile, di avere un figlio sano, realizzando in tal modo quella “buona nascita” che rappresenta l’essenza stessa della parola eugenetica. Il diritto di conoscere lo stato di salute del nascituro prima di trasferirlo in utero e l’eventuale scelta, sicuramente tragica, di sopprimere un embrione risultato malato (al pari di quella di abortire il feto che presenti malformazioni), attengono infatti alla sfera più privata del singolo e della coppia, sulla quale l’intervento dello stato appare, francamente, opinabile. Per tali motivi la decisione di non precisare ulteriormente un concetto da più parti utilizzato in modo fazioso ed arbitrario, non può che dimostrarsi come un’occasione mancata per fare definitivamente chiarezza sul punto. Bilancio giuridico e politico sulle nuove linee guida
Chiarite, seppur brevemente, le innovazioni sostanziali del D.M. recentemente approvato, non resta che fare un primo bilancio del provvedimento in questione. Da un punto di vista strettamente giuridico, sicuramente colpisce la decisione di mantenere sostanzialmente inalterato il testo originario anche su punti dove era prevedibile fossero apportate delle modifiche (ad esempio i dati statistici sulla sterilità che potevano essere ricondotti ad una letteratura più recente).
Per quanto concerne i tre punti di “novità” poc’anzi descritti, già si è avuto modo di evidenziare in precedenza le perplessità in merito alla scelta di ampliare la lacuna lasciata dalla sentenza del T.A.R. Lazio in materia di diagnosi genetica preimpianto, che potrebbe dar luogo ad interpretazioni contrastanti sul significato di “finalità eugenetica” o sul combinato disposto delle misure a tutela dell’embrione contenute nel testo di legge (divieto di crioconservazione, soppressione e sperimentazione sugli embrioni). Tale lacuna avrebbe potuto essere facilmente colmata con un’esplicita ammissibilità della diagnosi genetica preimpianto, corredata magari delle indicazioni sulle modalità con cui la medesima debba essere eseguita, al pari di quanto avviene nella parte relativa alla descrizione delle tecniche.
In relazione poi alla decisione di parificare la condizione dell’uomo portatore di malattie sessualmente trasmissibili alla madre ed al nascituro alla condizione di “infertilità da causa accertata e certificata da atto medico” richiesta obbligatoriamente dalla legge, il nuovo testo, nel compiere un passo senza dubbio coraggioso ed auspicabile, come affermato anche dal Consiglio Superiore di Sanità, sicuramente presta il fianco ad alcune obiezioni di natura tecnica. La prima, già accennata in precedenza è che, sotto un profilo strettamente scientifico, il testo ministeriale forza, in modo evidentemente improprio, quei concetti di infertilità e sterilità già utilizzati, in maniera poco ortodossa, come sinonimi dalla legge 40 e dalle precedenti linee guida. Se si intende, invero, per infertilità l’impossibilità di conseguire una gravidanza dopo un certo periodo di tempo di rapporti sessuali non protetti, appare assolutamente chiaro come in tale condizione non ricada il portatore del virus dell’HIV o dell’epatite che, almeno in linea di massima, è sicuramente capace di generare un figlio, seppur con alte probabilità di trasferire allo stesso ed alla madre la propria patologia. Di qui la decisione di ricondurre tale situazione nell’alveo della “condizione fisica permanente che non rende possibile la procreazione”, definizione solitamente utilizzata per la cd. sterilità idiopatica (ovvero dovuta a causa ignota), parimenti inidonea a definire il caso di cui trattasi. Anche sotto tale profilo, l’encomiabile obiettivo di consentire a tali coppie di generare un figlio sano sarebbe stato sicuramente raggiunto con maggiore chiarezza apportando le debite modifiche alla parte introduttiva delle linee guida, aggiornando le definizioni in essa contenute e chiarendo, come era auspicabile che fosse sin dal testo di legge, cosa intendere con i termini di infertilità, sterilità, infecondità.
Le considerazioni di natura tecnica fin qui effettuate, si aggiungono senza dubbio alle obiezioni di natura politica mosse da più parti nei primissimi giorni dopo la pubblicazione del decreto. La decisione del Ministro della Salute di procedere comunque all’emanazione dello stesso a due giorni dalla data fissata per le nuove elezioni, dopo che per mesi gli operatori del settore e le associazioni a tutela delle coppie con problemi di infertilità ne avevano invocato invano l’emanazione, non poteva, infatti che prestare il fianco ad aspre e veementi critiche, soprattutto da parte di esponenti della nuova maggioranza parlamentare, che hanno visto nel provvedimento un ultimo “colpo di coda” dell’esecutivo uscente. Tuttavia, se si considera che l’unica novità sostanziale riguarda infatti le coppie in cui l’uomo è portatore di malattie sessualmente trasmissibili (in considerazione del fatto che la diagnosi preimpianto era già lecita dopo la sentenza T.A.R. e che il supporto psicologico alle coppie veniva già fornito dalla maggior parte dei centri di medicina della riproduzione) appare chiaro come tali critiche siano state forse formulate senza tener conto del fatto che il nuovo testo è tutt’altro che innovativo.
Alla luce di tali considerazioni, ma questo è soltanto un giudizio personale, forse le vere critiche avrebbero dovuto essere formulate da coloro che si aspettavano dal disciolto esecutivo una maggiore concretezza sui problemi di bioetica (si pensi al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto o del testamento biologico), al pari di quanto avvenuto in Spagna con il governo Zapatero, e per i quali il nuovo testo delle linee guida, tanto atteso quanto sopravvalutato, si presenta, come un triste e tardivo “canto del cigno”.
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