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Sede:

Napoli, via Girolamo Santacroce 15

 
Una parola non è mai solo una parola
Alcune considerazioni intorno all’uso e all’abuso della parola eugenetica a proposito della legge 40/2004
Cristian Fuschetto
1. Robert Proctor, affrontando il delicatissimo tema delle possibili ricadute eugenetiche implicate sia dalle sempre più dettagliate conoscenze del sapere genetico, sia dal conseguimento di poteri d’intervento sempre più performativi in campo procreatico, avverte che «scivolare sul piano inclinato della critica è altrettanto facile come scivolare su quello dell’ottimismo tecnologico»[1]. Queste parole forniscono, secondo me, un importante suggerimento su come affrontare questioni che, come la procreazione medicalmente assistita (PMA), chiamano le nostre coscienze ad interrogarsi sul naturale e l’artificiale. Nonostante la stessa distinguibilità di questi due ambiti sia già di per sé molto problematica[2], anzi forse proprio per questo, è interessante notare come l’artificializzazione di fenomeni apparentemente naturali venga quasi sempre accompagnata da delle levate di scudi in nome di una loro presunta intrinseca bontà[3]. Certo, come il caso dell’eugenetica sta a testimoniare, a volte proprio il tentativo di razionalizzare ed ottimizzare processi naturali di per sé giudicati difettosi (proponendo, in quel caso, l’avvicendamento di una «inefficace selezione naturale» con una «più accorta selezione artificiale»), può allestire lo scenario per la messa in opera di atroci infamie. Tuttavia, la semplicistica equazione tra natura e bene o, per converso, tra artificio e male non serve a niente. E ciò sia perché il «piano inclinato» della stigmatizzazione di qualsivoglia accrescimento della potenzialità tecnologica si rivela poco utile ad una effettiva valutazione della moralità delle sue applicazioni, spesso tutt’altro che univoche (come vedremo proprio a proposito della diagnosi preimpianto), sia perché i fenomeni naturali non parlano affatto il linguaggio della morale, non essendo essi né buoni né cattivi, ma semplicemente estranei a questo tipo di congetture. Nonostante i refrain delle polemiche sulla legge 40/2004 echeggino spesso un presunto ordine naturale, è bene qui accennare al fatto che esso oramai non fa più parte del nostro universo concettuale, almeno nella misura in cui ci riconosciamo come moderni[4]. Quando si sostiene che è andata erodendosi l’asse dei valori tradizionali e, con esso, la possibilità di un’etica pubblica coesa e pacificamente condivisa[5], non si fa che chiamare in causa uno dei cascami più evidenti della modernità. Essa è infatti segnata nella sua più intima trama da una formidabile capacità entropica, ossia di squilibrio, di rottura, se non di capitolazione vera e propria, delle medievali gerarchie ontologiche ed assiologiche, al cospetto delle quali sì che pareva configurabile un ordine naturale e, eo ipso, morale, su cui fondare una unanime etica pubblica. La fine di una realtà stabile e cosmologizzata, qual’era appunto quella premoderna, segna l’inizio di una realtà sempre più mobile, anzi «liquida»[6], per usare la felice definizione di Bauman, cioè attraversata, come mai prima di allora, dalla consapevolezza di un continuo ed indefinito comporsi e decomporsi di ordini[7]. Nella nuova epoca, quella che ancora abitiamo, tracciare i confini di un ordine morale condiviso si fa quanto mai difficoltoso. Ed è proprio questa difficoltà a costituire il perno attorno al quale oggi ruota la riflessione bioetica. Le nuove tecnologie biomediche, rendendo concretamente praticabili interventi alterativi dapprima nemmeno concettualizzabili, chiamano propriamente in causa la questione della formulazione, o meglio: della formulabilità, di limiti etici da imporre alle potenzialità tecnologiche. Da un lato sbilanciato da quello che Günter Anders chiama «dislivello prometeico»[8], ossia dallo scarto sempre maggiore che si va producendo tra la sua capacità di fare e la sua capacità di immaginare, e, dall’altro, pressato appunto dalla necessità di dover pensare in termini di temporalità remota, cioè, come osserva Hans Jonas, dalla necessità di accompagnare il suo aumentato sapere tecnico con un’adeguata capacità previsionale[9], l’uomo si trova adesso sempre più spesso a dover affrontare l’imprescindibile problema di dover rendere, per via etica, di nuovo indisponibile ciò che, per via tecnica, è divenuto invece praticabile. Posta dunque la necessità, ormai ampiamente riconosciuta, di rispondere alle nuove libertà tecnologiche con un’etica che sia capace di coglierne in profondo le ricadute[10], occorre però trovare una possibile convergenza anche in ordine all’inclinazione da dover dare all’etica della «civiltà tecnologica». Non rimane, allora, che chiedersi: «quale etica per la bioetica»?[11] Domanda che in una società irrimediabilmente sganciata da qualsiasi naturale ordine morale non trova affatto, né potrà mai trovare, una facile risposta.
L’attualissima polemica sull’utilizzo delle tecniche di PMA è una delle tante occasioni di conferma di tale stallo. In un paese pur abituato allo scontro tra diversi ideologismi tale questione si è rivelata, forse, come la più tellurica. Essa, cioè, si è distinta per il fatto di aver concentrato intorno a sé prese di posizione segnatamente massimaliste[12], apparentemente indisponibili a quella «intersezione di valori» qui auspicata da Raffaele Prodomo[13], cioè alla possibilità di trovare nel dettato legislativo un utile convergenza che, senza pretendere di annullare la diversità delle concezioni morali, possa evitare di imporre ad altri l’opzione etica fatta propria da alcuni. Dispiace dover registrare che il più delle volte è proprio questo massimalismo a costituire l’ostacolo più deleterio quando si voglia, se non proprio risolvere i dilemmi sollevati, quanto meno acquisire un’adeguata consapevolezza delle cose in questione, troppo spesso invischiate nella chiassosa superficie della disputa. Ebbene, una delle cose chiamate in questione dalla legge destinata a regolamentare l’accesso alle tecniche di PMA (legge 40/2004), è senza alcun dubbio il divieto di poter ricorrere alla diagnosi preimpianto dell’embrione prodotto in vitro al fine di selezionare ed eventualmente impiantare l’embrione non affetto da patologie[14]. Le Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita emanate dal Ministero (DM 21.7.2004) affermano esplicitamente che «è proibita ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica».
Ma che cosa significa «finalità eugenetica»? Quando un atto è tacciabile di volontà eugenetica e, in virtù di questo, configurabile come un atto giuridicamente illecito? E’, inoltre, questa illiceità fondata innanzitutto sulla necessità di non ricadere nel vuoto morale, o meglio, nella tragedia morale che nel secolo scorso ha accompagnato la luttuosa utopia di perfezionare per via biologica la specie umana? Se è così, come i suoi sostenitori ripetono, non si comprende come possa quel dettato legislativo trovare tante obiezioni. Delle due l’una: o i critici del divieto legislativo auspicano un ritorno alle pratiche discriminatorie e genocidiarie dell’eugenetica o c’è qualche problema di chiarezza intorno a cosa debba o possa intendersi per eugenetica. Credo che un po’ di onestà intellettuale obblighi tutti a riconoscere che la riprovazione morale per le nefandezze compiute in «nome dell’eugenetica»[15] sia autenticamente condivisa anche da chi critica il divieto legislativo. Se ne deduce che è il termine stesso di eugenetica a dover essere chiamato in causa. E’ il bagaglio semantico che il concetto di eugenetica si porta dietro a dover essere dipanato.
Non stupisca che intorno ad una parola si possano produrre così tanti equivoci ed ingenerare acredini così violente. Come è stato acutamente osservato le parole non sono mai dei soli segni significanti, così come i discorsi che di esse si servono non sono mai dei semplici insiemi di segni significanti. Le parole ed i discorsi, insomma, non sono neutrali; anzi, essi hanno persino il potere di produrre l’oggetto di cui parlano, racchiudendo in sé l’impercettibile lotta tra la verità e l’errore[16]. Proprio la parola eugenetica pare oggi fornire un’ottima prova di come una parola non sia mai solo una parola[17]. Per cercare di fare chiarezza e per capire se tra l’eugenetica della prima metà del secolo scorso e l’attuale possibilità di selezione embrionale successiva a diagnosi preimpianto vi sia effettivamente un rapporto di nitida sovrapponibilità, tale da giustificarne il divieto in ragione di allontanare quella minaccia, occorre innanzitutto tener presente cosa è stata l’eugenetica.
2. L’eugenetica moderna nasce ufficialmente nel 1883, quando viene definita dallo scienziato inglese Francis Galton, cugino di Darwin, come «la scienza del miglioramento della specie umana, garantendo alle razze o alle stirpi più adatte una migliore opportunità di prevalere rapidamente su quelle meno adatte»[18]. Si può dire che la sostanza del discorso eugenista si determinò, da un lato, a partire dal modo in cui venne declinato il significato dell’espressione «stirpi più adatte» e, dall’altro, a partire dalle strategie avanzate al fine di farle «prevalere rapidamente».
La prima questione venne presto risolta riconducendo l’adattività di una stirpe o di un individuo alla sua desiderabilità, così il «più adatto» risultò essere il tipo umano dalle caratteristiche desiderabili. Già qui è evidente la connotazione in senso valoriale di una realtà, quale quella biologico-naturale, che di valori non ne esprime affatto. Galton ed i suoi epigoni saranno indubbiamente tra i maggiori artefici del successo della vulgata socialdarwinista, ossia del travasamento, ma si potrebbe ben dire del travisamento, della teoria darwiniana dal campo della realtà naturale a quello della realtà sociopolitica. La casualità intrinseca ai fenomeni naturali[19] venne passata sotto la lente deformante dell’assiologia: «più adatto» diventa sinonimo di «migliore», così come l’anomica «evoluzione» darwiniana finisce col diventare concetto coincidente al vittoriano «progresso». Ne nascerà una teoria sociobiologica che sembrò meravigliosamente rendere possibile sia la preventiva individuazione di un tipo «più adatto» (vale a dire: del migliore), sia la sua conseguente promozione unicamente al fine di incoraggiare l’«evoluzione» (vale a dire: il progresso sociale). Diagnosticabili come fenomeni biologici ed ereditari divennero, ad esempio, sia il successo professionale dei rampolli delle famiglie borghesi, sia la persistenza della povertà o della devianza criminale in altre fasce della popolazione[20]. In particolare si affermò la larga convinzione che i problemi sociali delle nuove metropoli fossero un segno di evidente degenerazione del materiale umano (così come gli eugenisti amavano esprimersi). L’interrogativo che cominciava a farsi assillante era appunto questo: come combattere la minaccia rappresentata dalla degenerazione della specie umana? L’eugenetica, ovvero la scienza della rigenerazione e del perfezionamento della specie, si accreditò come la risposta più adeguata. E questo credito lo ottenne innanzitutto sulla base di quelle che allora parvero delle indiscutibili verità scientifiche. Alla luce della teoria darwiniana, che smentiva radicalmente la fissità delle specie viventi e che quindi ne affermava l’evoluzione per mezzo di una naturale attività selettiva sugli incessanti fenomeni di variazione biologica, la prospettiva di eliminare o di favorire il riprodursi di determinate variazioni divenne scientificamente pensabile nonché concretamente attuabile. Galton colse perfettamente la radicale novità implicita nella scoperta di Darwin e fin da subito la additò come il darsi all’uomo di una nuova consapevolezza: quella di poter «plasmare il corso dell’umanità futura»[21]. La possibilità di perfezionare la specie umana sembrò essere finalmente a portata di mano: bastava sostituire la selezione naturale, «cieca, lenta e spietata», con una più attenta selezione artificiale, «provvidenziale, rapida e indolore»[22]. Ovviamente la pregiudiziale sociobiologica consigliava di selezionare i migliori, con buona pace dell’avalutatività della biologia, a cominciare appunto da quella darwiniana.
Quanto alle strategie previste al fine di concretare l’auspicata selezione artificiale, esse furono sostanzialmente due: promuovere la riproduzione degli individui dal profilo genetico desiderabile (eugenetica positiva) e limitare la riproduzione degli individui dal profilo genetico indesiderabile (eugenetica negativa). E poiché la convinzione dell’esistenza di un forte determinismo genetico fu assecondata, almeno fino a tutti gli anni ’30, da una nutritissima schiera di biologi e genetisti e, di qui, recepita dall’opinione pubblica come una verità indiscussa, la scienza eugenetica[23] venne accolta come un valido criterio di azione socio-politica. In altri termini, data la supposta transitività tra biologia, morale e politica[24], il progetto eugenista si delineò non solo come un mero intervento di politica sanitaria ma anche come un vero e proprio programma di azione politica tout court[25]. Sulla scorta di tale persuasione l’eugenetica conoscerà una vastissima diffusione, diffondendosi fino alla metà del secolo in più di trenta paesi, in ognuno dei quali venne adattata allo specifico contesto sociale, politico, istituzionale e scientifico[26]. Ciò che qui occorre tener presente è che ovunque venne accolta nella sua interezza, cioè nei suoi presupposti sociobiologici e nelle sue prospettive di intervento politico-sanitario, essa instillò una concezione della popolazione come materia prima, come mera risorsa naturale che, nell’interesse dell’efficienza nazionale e del potere statale, deve essere assunta come oggetto da sottoporre a forme di controllo razionale. Come sottolinea Ernst Mayr, l’eugenetica venne indebitamente declinata sulla base di un’interpretazione tipologica[27]. Questo permise a tale scienza di fare da detonatore per la classificazione dei gruppi umani in inferiori e superiori, conducendo alla promozione di misure discriminatorie e aberranti come il divieto di matrimonio, la sterilizzazione, l’internamento coatto, fino ad arrivare allo sterminio di interi gruppi di esseri umani in ragione di esigenze di profilassi sociale. L’eugenetica divenne uno strumento politico funzionale al raggiungimento di una utopia sanitaria: proteggere e potenziare lo stato di salute biologica e morale del corpo sociale.
3. Il divieto assoluto di diagnosi embrionale al fine di evitare la selezione è giustificabile sulla base del rigetto dell’eugenetica passata? Chi disapprova ciò che è stata l’eugenetica, ciò che essa ha comportato in termini di violenza criminale e di abiezione morale, deve per ciò stesso rifiutare anche possibilità diagnostiche tali da consentire di acclarare (per quel che è tecnicamente possibile) lo stato di salute dell’embrione al fine di scegliere se impiantarlo o meno?
Dalla breve panoramica che si è tentato di delineare sul passato dell’eugenetica appare evidente che un’argomentazione che paventi un rapporto diretto tra ogni sorta di selezione embrionale e le pratiche eugenetiche messe in opera nella prima metà del secolo scorso, non può che essere fuorviante. Assimilare la scelta, operata ad esempio da una coppia portatrice di malattie genetiche trasmissibili, di ricorrere alla diagnosi preimpianto (possibilità esclusa dalla legge 40), alla impositiva politica di prevenzione sanitaria messa in opera da un governo al fine di difendere lo stato di salute della popolazione, è un’operazione grossolana. Eppure quando ci si domanda: la selezione embrionale è un atto eugenetico? si rischia di mettere in opera proprio una strategia di questo tipo, poiché quando utilizziamo l’aggettivo «eugenetico» si fa, forse anche inconsapevolmente, un diretto rimando a quello che l’eugenetica è stata, inficiando ab origine la possibilità di valutare la questione della diagnosi preimpianto in modo scevro da condizionamenti. Come s’è potuto vedere l’eugenetica è stata essenzialmente uno strumento nelle mani del potere statale, che, sulla base delle tecnologie dell’epoca (sostanzialmente attraverso la razionalizzazione degli accoppiamenti e della fertilità) e degli orientamenti ideologici che ne segnarono il percorso (accentuato sociobiologismo, paura degenerazionista, esaltazione dei poteri pubblici), ne ha espresso tutto il suo devastante esito. Oggi lo stato delle cose è molto cambiato e se si vuole davvero fare i conti con le cose in questione occorre prenderne atto. Pur tralasciando le notevolissime implicazioni determinate dal radicale mutamento del contesto teorico di riferimento (alla passata genetica popolazionale, che studiava i fenomeni ereditari su base statistico-matematica prendendo ad oggetto la configurazione fenotipica di una data popolazione, corrisponde ora la genetica molecolare, che ha come oggetto i meccanismi fisiologici dell’ereditarietà dei caratteri nei singoli individui), pare qui comunque opportuno sottolineare come la selezione embrionale operata in seguito a diagnosi infausta abbracci scenari per alcuni versi semplicemente non sovrapponibili a quelli passati. Qui non è in gioco alcuna imposizione o interferenza del potere statale nella scelta privata del singolo. Almeno a livello teorico (è chiaro, infatti, che nella prassi interferenze e condizionamenti possono sempre esserci, ma di essi noi non potremmo nemmeno lamentarcene se non sapessimo che tali ingerenze potrebbero e dovrebbero pure non esserci) la scelta di ricorrere alla selezione embrionale esula da qualsivoglia programma socio-sanitario di salute pubblica.
Certo, anche in questo caso siamo di fronte ad un fenomeno di razionalizzazione della facoltà procreativa. Ma una volta assodato, come si è accennato all’inizio, che con la modernità la natura cessa in modo irreversibile di parlare il linguaggio vincolante del nomos, non è certo la trasfigurazione tecnica di un fenomeno naturale a poter costituire fonte di un divieto morale e, men che meno, giuridico. Difatti la riconosciuta ripugnanza morale della vecchia eugenetica non sta nel tentativo di razionalizzare il fenomeno naturale della nascita, quanto piuttosto nella strumentalizzazione e nell’assoggettamento dei più elementari diritti degli individui (libertà personale, integrità psico-fisica e indisponibilità del corpo) a malintesi beni superiori: la salute pubblica, l’ordine sociale, l’efficienza economica. Ma quando si vieta «ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica» si vieta tutto questo? Certo, si esprime un netto rifiuto nei confronti di tutte le infamie compiute in nome del «perfezionamento della specie umana», e ci si tutela dalla rinascita di nuove distopie. Ma ci si limita a questo? Qui la risposta è più problematica.
La selezione embrionale è, a rigore, un caso di eugenetica negativa: si evita la trasmissione di tratti genetici indesiderabili. Poiché il non trasmettere tratti genetici indesiderabili[28] di per sé non è ritenuta un’azione moralmente illecita (altrimenti dovrebbero essere considerati moralmente biasimevoli tutti coloro che sapendo di essere portatori di malattie genetiche evitano di avere una prole), si deve dedurre che è il mezzo adoperato per addivenire a quello scopo che determina l’illiceità dell’atto e che, inoltre, pare fondare il rapporto con lo spettro della vecchia eugenetica. Ovviamente mi riferisco al mezzo selettivo. Habermas coglie nel segno quando scrive che l’«uso sperimentale degli embrioni e la diagnosi preimpianto turbano gli animi in quanto esemplificano un pericolo che si collega alla prospettiva di un allevamento razziale e selettivo dell’uomo»[29]. Ma nel caso di una coppia portatrice di patologie genetiche che volesse ricorrere alle tecniche di PMA (a meno che la coppia non sia pure infertile o sterile, anche questa possibilità è esclusa dalla legge 40) e che volesse conoscere lo stato di salute degli embrioni per decidere, eventualmente, di non impiantare quello affetto dalla temuta patologia, che senso attribuire alla scelta selettiva? Quello di selezionare una progenie migliore al fine di irrobustire il capitale fisiologico della nazione e, in prospettiva, della specie? Oppure quello di rispondere alla necessità di tutelare la salute psico-fisica della donna? Ecco che già emerge un dato importante: l’impossibilità di attribuire alla scelta selettiva un senso univoco.
Nel primo caso il rimando ad una logica sprezzante per il valore e la dignità della vita umana è chiaro: gli individui sono considerati come dei meri strumenti finalizzati al raggiungimento di un superiore bene collettivo. Nel secondo, invece, le cose sono più complesse poiché la selezione non concerne alcun criterio di ottimizzazione della specie, ma mira piuttosto a tutelare la salute psico-fisica della donna, la quale potrebbe essere seriamente compromessa dalla gestazione e dalla nascita di un bambino portatore di una grave patologia. E’ solo il caso di accennare che la legge 194/78 consente l’interruzione volontaria di gravidanza, anche dopo novanta giorni, nel caso in cui «siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» (art. 6, lettera b). In questa situazione non è la selezione finalizzata all’ottenimento di un certo standard di sanità del nascituro, ma è l’esigenza di tutelare la salute della donna a rendere giuridicamente lecita e, per molti stranieri morali, eticamente accettabile la scelta di non portare avanti la gravidanza.
Allora, come interpretare la scelta selettiva? Tutela della salute della donna? Scelta autonoma e responsabile? O piuttosto perversa eugenetica negativa? Uno stesso atto, la selezione (del feto come dell’embrione), può essere valutato diversamente a seconda della prospettiva adoperata: come intervento a tutela della salute della donna o, viceversa, come un atto di selezione eugenetica. La discriminante non sta nell’atto in sé, ma nel modo in cui noi, esseri morali e autonomi, possiamo, caso per caso, decidere di valutarlo. Il divieto assoluto di diagnosi preimpianto, non suscettibile di alcuna eccezione, e giustificato dalla finalità eugenetica, è, allora, una scelta che va chiaramente verso una opzione morale, quella della tutela e dell’inviolabilità dell’embrione in quanto persona fin dal concepimento[30]. Solo in questa ottica, infatti, diventa comprensibile l’associazione pressoché diretta tra la diagnosi preimpianto e la temuta eugenetica. Solo se l’embrione è persona è sostenibile un rapporto di coincidente sovrapponibilità tra le passate pratiche discriminatorie sugli «inadatti» (alla procreazione e poi, tragicamente, all’esistenza) e le attuali conseguenze della diagnostica preimpiantatoria. Ora come allora ci sarebbero delle persone (gli embrioni) inferiorizzate in virtù del loro profilo genetico. In questo senso la finalità eugenetica posta a giustificazione del divieto di diagnosi preimpianto, diretta a tutelare perentoriamente il valore dell’embrione anche, a volte, a discapito del valore della salute della donna, acquista una ferrea coerenza. Ma se si muta il paradigma etico di riferimento, cioè se l’embrione non è più considerato persona, e se la scelta di servirsi della diagnosi preimpianto rimane esclusivamente circoscritta all’esigenza della donna di tutelare responsabilmente la propria salute psico-fisica, non c’è più ragione affinché si parli di eugenetica, almeno non nei termini, allarmati ed allarmanti, con cui se ne parla. E ciò sostanzialmente per tre ragioni: 1) manca la volontà di subordinare la scelta procreativa all’esclusivo benessere del corpo sociale, magari al seguito del più alto fine di «plasmare il corso dell’umanità futura»; 2) manca la volontà di soddisfare un ipotetico standard di sanità bio-psichica della futura persona; 3) la legittimazione morale della selezione sta nella necessità di salvaguardare la salute della donna che dovrà condurre la gestazione, e non nella mera stigmatizzazione del soggetto nascente. Pertanto, secondo la concezione morale secondo cui la vita embrionale umana non è vita personale, si danno, in determinate condizioni, dei margini che rendono ammissibile la selezione di forme di vita umana (gli embrioni), senza che questi margini possano tuttavia essere fatti coincidere, sic et simpliciter, con quelli tracciati dalla vergognosa storia dell’eugenetica. Si può, ad esempio, dare il caso di un conflitto di valori (che, si badi, a differenza della passata eugenetica consisterebbe non nel conflitto tra il valore della vita personale ed il valore della salute pubblica, ma piuttosto nel conflitto tra il valore della vita embrionale ed il valore della salute della donna) la cui soluzione, alla luce della problematicità dell’equiparazione tra vita embrionale e vita personale, potrebbe declinarsi in favore del valore della salute della donna senza, per ciò stesso, implicare l’intenzione di porre in essere una gerarchizzazione eugenetica tra persone adatte e persone inadatte all’esistenza. Quest’ultima conclusione si darebbe, per così dire: automaticamente, solo se l’embrione fosse considerato come attuale vita umana personale. Ma è proprio tale questione a costituire il nodo (apparentemente gordiano) attorno al quale si stringono diverse, significative, opzioni morali. Affermare, così come pare consenta di fare la legge 40[31], una causalità diretta tra ogni selezione embrionale e lo scopo eugenetico, con conseguente e perentorio divieto della diagnosi preimpianto, significherebbe misconoscere in nuce la possibilità di affrontare in modo aperto un eventuale contrasto tra il valore dell’embrione e quello della salute della donna che dovrà accoglierlo in grembo (misconoscenza dovuta ad una preventiva risoluzione, a favore dell’embrione, del contrasto medesimo) e, per questa via, significherebbe estendere ope legis all’intera comunità morale l’opzione etica di una sua parte ben definita. Prescindendo da quest’ultima, infatti, limitatamente ai casi in cui venga condizionata alla scelta autonoma della donna e alla sua acclarata esigenza di tutelare la propria salute psico-fisica (che potrebbe risultare danneggiata qualora «siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro») la selezione potrebbe essere ritenuta ammissibile.
Di un certo interesse è il fatto che a suggerire, in questi casi, l’ammissibilità della diagnosi preimpiantatoria pare essere lo stesso Ministero della Salute, ché in un comunicato stampa del 27 Luglio 2004 assimila la finalità eugenetica alla selezione della razza[32]. Come abbiamo visto non è certo sempre questo lo scopo di chi aspira ad accedere alla diagnosi. Affermarlo, credo, comporterebbe il rischio di semplificare una situazione che purtroppo semplice non è. Se una risposta può esser data alla domanda che prima si sollevava a proposito di quale etica bisognerebbe adottare per la bioetica, l’unica cosa che si può affermare con sicurezza è che essa dovrebbe essere un’etica complessa.
4. L’ideologizzazione e la conseguente confusione intorno ai concetti, il loro uso e abuso, possono rischiare di lasciare in penombra problemi che altrimenti si potrebbero, da parte di tutti, più efficacemente circoscrivere ed affrontare. Ritornando all’avvertimento di Proctor penso sia importante ribadire come un semplicistico ed indiscriminato diniego delle possibilità applicative offerte dalle nuove tecnologie genetiche sia improduttivo innanzitutto sul piano di un efficace riconoscimento dei segnali che realmente sembrerebbero profilare il ritorno alle trascorse, insanguinate, utopie. Ad esempio uno degli aspetti più subdoli ed unanimemente denigrati della vecchia eugenetica è stato certamente rappresentato dalla disponibilità della comunità scientifica e del ceto medico ad erigersi ad icone della buona politica: l’acquisizione delle nuove conoscenze in ordine ai saperi biologici parve legittimare la perorazione di una politica more biologico demonstrata. I saperi biologici accrebbero le proprie competenze e, di qui, come ispirati da un tumorale sentimento di potenza, pensarono sciaguratamente di poter equiparare, senza scarto alcuno, l’essere vivente e l’essere umano. Certo adesso simili libido, perlomeno in quelle forme, non se ne scorgono. Però quando si sente dire al padre della sociobiologia moderna, E. O. Wilson, che i governanti dovrebbero realizzare delle «politiche geneticamente corrette»[33], o quando James Watson sembra avallare il più bieco dei determinismi[34], i tempi, certo, non consigliano di stare tranquilli. Si consideri, inoltre, che se è vero che evitare l’ingerenza del potere statale nelle scelte riproduttive dei singoli consente di eludere uno degli aspetti più odiosi della passata eugenetica, è d’altra parte anche vero, come osserva Diane Paul, che le «scelte procreative non sono di per sé buone semplicemente per il fatto che coloro che le realizzano sono dei privati cittadini»[35].
[1] R. N. PROCTOR, Genomics and Eugenics: How Fair Is the Comparison?, in G. J. ANNAS and S. ELIAS (edited by), Gene Mapping: Using Law and Ethics as Guides, New York-Oxford, 1992, p. 67.
[2] Cfr. R. MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, 2002, pp. 77-86.
[3] Cfr. M. A. LA TORRE, Procreazione assistita: ritorna il mito della natura, Infra.
[4] Cfr. P. PIOVANI, Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari, 1961.
[5] Cfr. R. PRODOMO,Quale etica pubblica per la procreazione assistita?, Infra.
[6] Z. BAUMAN, Modernità liquida (2000), tr. it. di S. Minucci, Roma-Bari, 2002.
[7] Cfr. G. LISSA, Percorsi del moderno, Soveria Mannelli, 2002, pp. 236-237.
[8] Cfr. G. ANDERS, L’uomo è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale (1956), tr. it. di C. Preve, Torino, 2003. Anders denuncia l’«asincronia» sempre più radicale che si instaura tra l’inimmaginabile grandezza del potenziale tecnico e la vergognosa piccolezza del potenziale immaginativo dell’uomo.
[9] Cfr. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), tr. it. di P. Rinaudo, Torino, 1993, pp. 7-9.
[10] L’aumentato potere d’intervento tecnico sulla natura, compresa quella umana, non testimonia soltanto un mutamento nella portata meramente strumentale della tecnica, ma anche e soprattutto un mutamento nella sua portata concettuale. Cfr. M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Milano, 1998.
[11] E. MAZZARELLA, Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Napoli, 1989.
[12] Cfr. S. RODOTA’, La bioetica tra leggi e ideologia, La Repubblica, 29 Dicembre 2003.
[13] R. PRODOMO, op. cit.
[14] Ad onor del vero la legge 40/2004, di per sé, non è chiarissima sulla liceità o illiceità della diagnosi pre-impianto. Cfr. art. 14, comma 5; art 13, comma 3, lettera b. Tuttavia una prima conferma della interpretazione restrittiva della possibilità di ricorrere alla diagnosi è venuta dal cosiddetto “Caso Catania”; per la documentazione riguardante tale caso, cfr. Dossier sull’ordinanza di Catania, in «Bioetica» 2 (2004), 278-341. Le Linee guida emanate dal Ministero hanno confermato tale interpretazione, vietando esplicitamente «ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica» (p. 12).
[15] Cfr. D. J. KEVLES, In The Name of Eugenics. Genetics and the Uses of Human Heredity, New York, 1985.
[16] La letteratura al riguardo è molto ampia. Qui limito il rimando a due lavori molto importanti di Michel Foucault. Cfr. M. FOUCAULT, Le parole e le cose (1966), Milano, 1967. ID., L’archeologia del sapere (1969), tr. it. di G. Bogliolo, Milano, 1998.
[17] Basta sfogliare le pagine dei quotidiani degli ultimi tempi dove, sia i sostenitori del divieto, sia i suoi critici, si scambiano vicendevolmente l’accusa di essere i veri portatori del nefasto spirito dell’eugenetica nazista, per capire quanto siano ingarbugliate le acque semantiche della nozione stessa di eugenetica. Cfr. il botta e risposta tra Amedeo Santosuosso e Francesco Agnoli sulle pagine del Manifesto e del Foglio. Cfr. A. SANTOSUOSSO (intervista di L. Tancredi Barone), Uno stato geneticamente migliorato, Il Manifesto, 4 Novembre 2004 e F. AGNOLI, Cosa sia l’eugenetica è chiaro da secoli anche se Santosuosso cerca di capovolgerne il significato, Il Foglio, 6 Novembre 2004.
[18] F. GALTON, Inquiries into Human Faculty and its Development (1883), London, 1892, p. 17. (Corsivi miei).
[19] Darwin ha riconosciuto la «casualità come nucleo della vera natura delle cose». S. J. GOULD, Il millennio che non c’è, tr. it. A. Garbella, Milano, 1999, p. 21.
[20] Cfr. L. CHEVALIER, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale (1956), tr. it. di S. Brilli Cattarini, Roma-Bari, 1976, pp. 494-501
[21] F. GALTON, Inquiries into Human Faculty and its Development, cit., p. 218.
[22] Cfr. ID., Essay in Eugenics, London, 1909, p. 42.
[23] Nei primi decenni del secolo scorso e, secondo molti storici della scienza, addirittura fino alla fine degli anni ’40, la distinzione tra una scienza genetica e una pseudoscienza eugenetica è infondata e fuorviante. Genetica ed eugenetica erano considerate come due facce di una medesima medaglia, e come tali insegnate nelle università e propinate all’opinione pubblica. Cfr. A. KERR and T. SHAKESPEARE, Genetic Politics. From Eugenics to genome, Cheltenham, 2002, pp. 10-13; M. B. ADAMS, The Wellborn science. Eugenics in Germany, France, Brazil, and Russia, New York-Oxford, 1990, pp. 219-220;
[24] Il Nobel per la medicina Alexis Carrel, ferreo ereditarista ed eugenista convinto, arriverà ad auspicare l’avvento di una «biocrazia», dove «le classi sociali siano sempre più delle classi biologiche»». Cfr. A. CARREL, L’uomo, questo sconosciuto (1935), tr. it. di V. Porta, Milano, 1949, p. 313.
[25] Già in Galton sono innumerevoli le proposte finalizzate ad informare il potere politico della opportunità di una necessaria saggezza biologica. Su questo punto mi permetto di rimandare a C. FUSCHETTO, Fabbricare l’uomo. L’eugenetica tra biologia e ideologia, Roma, 2004, pp. 20-23; 41-43.
[26] Tra essi si possono qui ricordare, sì da rendere almeno minimamente l’ampiezza della diffusione del verbo eugenista, l’Inghilterra, la Germania, gli Stati Uniti, l’Italia, La Francia, il Belgio, la Svizzera, l’Olanda, la Danimarca, la Svezia, la Cecoslovacchia, la Norvegia, l’Argentina, Cuba, la Russia, l’Australia e la Nuova Zelanda. Cfr. M. B. ADAMS, op . cit., p. 5.
[27] Cfr. E. MAYR, Storia del pensiero biologico (1982), tr. it. di B. Continenza, Milano, 1990, p. 571.
[28] Sorvolo necessariamente su tutto l’articolato dibattito relativo alla difficoltà di parlare in senso proprio di geni buoni e di geni cattivi e, soprattutto, relativo alla possibilità di tornare ad incardinare di nuovo tratti socialmente desiderabili o devianti al profilo genetico. Su questo la letteratura è molto vasta. Si vedano R. LEWONTIN, Biologia come Ideologia. La dottrina del DNA, tr. it. di B. Continenza, Torino, 1997; D. NELKIN e S. M. LINDEE, The DNA Mystique. The gene as Cultural Icon, New York, 1993; S. ROSE, L’ascesa del determinismo neurogenetico, in Il patto col diavolo, a cura di P. Donghi, Roma-Bari, 1997, pp. 97-117
[29] J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), tr. it. di L. Ceppa, Torino, 200., p. 72.
[30] A proposito di questa dibattutissima questione mi limito solo a sottolineare come la definizione di quando si comincia ad essere persone costituisca un problema squisitamente morale. La possibilità di indicare il punto in cui ha inizio una vita umana meritevole di tutela personale non si dà nella natura (qualunque cosa stia ad indicare “natura”: biologia, fisica, genetica), ma è una questione di valore. Questa tesi è condivisa non solo dalla prospettiva laica ma, come qui sottolinea Andrea Vicini, anche dalla Chiesa Cattolica, la quale fa appello ad un approccio di tipo «tuziorista». Cfr. A. VICINI, Procreazione medicalmente assistita in Italia: il teologo cattolico di fronte alla legge n. 40/2004, Infra.
[31] Cfr. G. CORBELLINI, Lo spettro dell’eugenetica, Il Sole 24 ore, 12 Settembre 2004. Sempre in questo senso, anche se da un diverso punto di vista, si veda S. CANESTRARI, La legge 19 febbraio 2004, n. 40: procreazione e punizione, in «Bioetica», 3/2004, p. 424.
[32] Nel comunicato si legge: «In merito alla diagnosi preimpianto si precisa che, secondo le linee guida definite dal Ministro della Salute avvalendosi dall'Istituto superiore di sanità, con l'ausilio di una Commissione consultiva e con il parere favorevole del Consiglio superiore di sanità: è proibita ogni diagnosi preimpianto con finalità eugenetica ossia di selezione per migliorare la razza; [...]» (Corsivo mio).
Cfr. http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/procreazione_linee_guida/comunicato.html
[33] E. O. WILSON e C. LUMSDEN, Il fuoco di Prometeo. Le origini e lo sviluppo della mente umana (1983), tr. it. di D. Zinoni, Milano, 1984, p. 231.
[34] Cfr. J. BECKWITT, A Historical view of social responsibility in genetics, in «Bioscience», vol. 43 n. 5, 1993, p. 331.
[35] D. B. PAULE, Controlling Human Heredity 1865 to the Present, New-York, 1995, p. 135.
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