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Clonazione, il valore della salute contro il pregiudizio
Luisella Battaglia
(da “Il Secolo XIX” - 21 maggio 2005 p. 23)
Uno dei settori più promettenti della ricerca biomedica è quello che studia le possibili applicazioni terapeutiche delle straordinarie proprietà delle cellule staminali—ovvero le cellule primordiali da cui si originano le cellule ‘adulte’—che vanno a comporre i vari tessuti del nostro corpo.
Nella letteratura scientifica internazionale si parla di una vera e propria rivoluzione in medicina, capace di realizzare mezzi di cura estremamente efficaci per quelle malattie che comportano la distruzione o la perdita di funzionalità dei tessuti (ad es., le varie malattie degenerative del cervello etc.). Occorre aggiungere che, oltre alle applicazioni terapeutiche, queste linee cellulari possono essere usate per la ricerca di base sui meccanismi dello sviluppo umano e delle malattie genetiche. Certo, dinanzi alle nuove possibilità che si aprono, si ripropongono gli antichi dilemmi che alimentano il dibattito bioetico. I problemi morali, in questo caso, appaiono principalmente legati alle fonti da cui provengono le cellule staminali. V’è chi rifiuta ogni utilizzazione a fini sia scientifici che terapeutici degli embrioni, in nome di un’idea della dignità della persona umana che va tutelata fin dalle origini; v’è, invece, chi si sente moralmente impegnato, in nome di un’etica della responsabilità, in quella lotta contro le malattie e le sofferenze che oggi, grazie alla clonazione terapeutica, vede dischiudersi nuovi orizzonti.
Una controversia difficilmente sanabile. Non possiamo, infatti, limitarci ad affermare che "se qualcosa è possibile, prima o poi la scienza la realizzerà". L’asserzione è banalmente vera ma il problema è proprio quello di chiarire a noi stessi e determinare non tanto la possibilità tecnica quanto la liceità etica di un certo evento o linea di azione. E’ appunto su questa tensione tra fattibilità e liceità –espressa dalla classica affermazione «non tutto ciò che si può fare deve essere fatto»--che la nostra coscienza, nella sua autonomia, è chiamata a pronunciarsi. Per questo sarebbe auspicabile che al clima di sospetto e di diffidenza—la parola ‘clonazione’ evoca immediatamente atmosfere da incubo fantascientifico alla Brave New World—subentrasse una riflessione più attenta a esplorare i nuovi scenari aperti da quella che è stata, a ragione, definita ‘rivoluzione biologica’ col suo carico ambivalente di speranze e di inquietudini.
Regolamentare, va detto con estrema chiarezza, non significa opporsi al progresso della scienza e della tecnologia: significa solo che vi sono fini e valori globali d’importanza primaria che occorre garantire e che esulano dal più ristretto campo dell’impresa tecnologica. In particolare, lo sviluppo scientifico dovrebbe essere vincolato al criterio della salvaguardia della dignità e dell’integrità umana di cui—non lo dimentichino i promotori del Comitato Scienza & Vita-- è parte costitutiva il diritto alla salute.
Oggi la clonazione terapeutica è più vicina… ma non per noi. Si è detto che essa potrebbe segnare una data storica, l’inizio dell’era della produzione di tessuti e organi con la garanzia di poterli trapiantare con successo su specifici individui che ne hanno bisogno, e che potrebbe diventare realtà il sogno antico di curare molte delle malattie che tormentano da sempre l’uomo, come il Parkinson e l’Alzheimer. E’ bene ricordare tutto questo nel momento in cui saremo chiamati a esprimerci col referendum del 12 giugno sulla legge 40 che vieta tutte le tecniche di manipolazione dell’embrione e a fortiori la clonazione a fini terapeutici: la legge più restrittiva e illiberale dell’Unione Europea.
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