La legge sulla provetta diventa realtà tra polemiche, critiche e dubbi di costituzionalità: male minore o etica di stato?*
Mauro Fusco
Si è finalmente concluso, dopo oltre quarant’anni di polemiche, proposte irrealizzate e tentativi senza seguito, il travagliato iter parlamentare sulla regolamentazione giuridica della procreazione medicalmente assistita. Dopo l’approvazione del Senato, avvenuta con alcuni emendamenti l’11 dicembre del 2002, e della Camera, lo scorso 10 febbraio, con 277 voti favorevoli, 222 contrari e 3 astenuti, la tanto contestata legge, pubblicata sulla G.U. n.45 del 24 febbraio, entrerà infatti in vigore il prossimo 10 marzo. L’evento, pur mantenendo inevitabilmente un’importanza di sicuro storica nel panorama giuridico e legislativo italiano, è tuttavia ben lontano dall’attenuare le inevitabili divisioni nell’opinione pubblica e all’interno dei singoli partiti che hanno caratterizzato il dibattito politico e bioetico negli ultimi mesi come negli ultimi anni.
Il testo della legge n.40/2004 presenta infatti un chiaro impianto garantista nei confronti dell’embrione che difficilmente riesce a conciliarsi, da un lato, con le esigenze delle coppie costrette a ricorrere a tali tecniche e, dall’altro, con le analoghe legislazioni di altri paesi europei e con la normativa italiana sull’interruzione volontaria di gravidanza. Tale natura garantista è stata chiaramente evidenziata dal relatore Giancarlo Giorgetti che, all’atto di presentare il proprio disegno di legge in Parlamento, successivamente confluito nel testo unico approvato dalla Camera il 18 giugno 2002, affermava esplicitamente: “la presente proposta di legge che pone le premesse per lo statuto dell’embrione umano e stabilisce a quali condizioni è lecita la procreazione medicalmente assistita, si basa su tre concetti fondamentali: 1) l’embrione umano è soggetto umano in atto fin dalla fecondazione dell’ovulo; 2) la difesa dell’istituto familiare quale cellula fondamentale della società e centro vitale per la continuità della specie; 3) la difesa del diritto del nascituro ad avere un padre e una madre che lo allevino, lo amino, o educhino e gli assicurino il necessario sostentamento fino alla maggiore età”. Pertanto, pur ritenendo assolutamente riduttiva la dicotomia, praticamente irrinunciabile nel panorama bioetico italiano, tra bioetica laica e bioetica cattolica, non si può fare a meno di rilevare che i principi sopra esposti finiscano col connotare spiccatamente la legge 40/2004, rendendola molto vicina alla posizione cattolica e non lasciando molto spazio al dialogo con i sostenitori del cosiddetto “orientamento laico”, condiviso invece anche da gran parte del mondo scientifico.
Chiariti a grandi linee quali siano i principi ispiratori del testo di legge in questione, è il caso ora di evidenziare criticamente i principali punti chiave dello stesso.
In primo luogo l’art.1 connota il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) come “soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” a cui è consentito ricorrere “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci”. Questa precisa connotazione ha la duplice funzione di affermare, da un lato, il carattere non curativo di tali tecniche, essendo le stesse inidonee a eliminare la causa di sterilità o infertilità che permarranno anche dopo l’evento della gravidanza, e, dall’altro, di limitarne fortemente l’accesso, precludendolo ai soggetti che non abbiano tali problemi ma vi ricorrano per altri motivi (ad esempio perché portatori di malattie trasmissibili).
Una prima conseguenza di queste disposizioni è che, non configurandosi la PMA come cura, il ricorso alle relative tecniche non può essere fatto rientrare nel diritto alla salute costituzionalmente garantito. Pertanto, nell’inevitabile contrapposizione tra nuovi diritti, il presunto diritto ad avere un figlio, rivendicato dalla coppia sterile, viene posto sicuramente in secondo piano rispetto all’esigenza di tutelare il concepito, riconosciuto esplicitamente soggetto di diritto dallo stesso art.1. Il rischio di questa scelta, certamente innovativa per il nostro sistema, che ha sempre riconosciuto al nascituro esclusivamente una capacità limitata al solo ambito patrimoniale, non può che essere la difficoltà di conciliare con l’impianto dell’ordinamento vigente il nuovo riconoscimento di soggettività giuridica del concepito. Ai sensi dell’art.1 del Codice civile, al nascituro è infatti negata la capacità giuridica, mentre la vigente legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza, ritiene prevalente la tutela della salute psichica e fisica della donna, che è già persona, rispetto alla nascita del nuovo individuo, che persona deve ancora divenire. E’ evidente quindi come l’intenzione del legislatore di porre le “premesse per lo statuto dell’embrione umano”, inserendosi in un impianto normativo che non ha mai ritenuto lo stesso titolare di diritti diversi da quelli patrimoniali (subordinati, tra l’altro, all’evento della nascita), non potrà che rivelarsi, all’atto pratico, fonte di problemi applicativi ed inevitabili successivi contrasti.
A queste considerazioni deve aggiungersi che la decisione di configurare il ricorso alle tecniche di procreazione assistita soltanto come soluzione di problemi di sterilità o infertilità, si ripercuote inevitabilmente anche sulla disciplina dell’accesso a tali tecniche. La scelta di circoscrivere la procreazione medicalmente assistita esclusivamente ai suddetti casi, così come chiaramente ribadito anche nell’art.4, comporta infatti la preclusione dell’accesso a tali tecniche a tutte le coppie portatrici di patologie genetiche trasmissibili. La discriminazione di quest’ultime è strettamente collegata con il divieto, di cui all’art.13, di effettuare diagnosi pre-impianto non finalizzate “alla tutela della salute a allo sviluppo dell’embrione” ed al divieto, di cui all’art.14, di soppressione degli embrioni. Tali divieti, rivolti evidentemente alla tutela dell’embrione e a scongiurare ogni forma di selezione embrionale sia su base medica che su base strettamente volontaristica, obbligano pertanto le coppie portatrici di malattie come la fibrosi cistica o la talassemia che non intendano dare alla luce un bambino malato a percorrere esclusivamente la via, sicuramente più invasiva ma consentita dall’ordinamento, del ricorso alla diagnostica prenatale (amniocentesi, villocentesi) e ad un eventuale successivo aborto.
Completano la severa disciplina sull’accesso alle tecniche di procreazione assistita il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa (art.4, comma 3), effettuata cioè con l’apporto cioè di gameti estranei alla coppia, ed il divieto di ricorrere alla PMA per singoli/e, coppie omosessuali, donne in età avanzata o dopo la morte del partner. Anche questi divieti sono evidentemente ispirati alla necessità di garantire al nascituro, frutto delle tecniche di procreazione assistita, una famiglia quanto più possibile stabile, costituita da una duplice figura genitoriale eterosessuale “in età potenzialmente fertile” ed evitare che lo stesso possa essere turbato da figure estranee o da traumi psicologici che potrebbero ripercuotersi sulla sua futura serenità. L’unica concessione fatta al modello familiare tradizionale è data dall’apertura verso le coppie conviventi (o di fatto), a cui è consentito accedere alle tecniche di procreazione assistita, ed alle quali viene per la prima volta in Italia dato un riconoscimento.
Per quanto riguarda la fecondazione eterologa si deve rilevare che le innumerevoli polemiche su questo tema hanno spesso causato negli anni passati, l’impossibilità di raggiungere in Parlamento il consenso necessario all’approvazione di numerosi disegni di legge. Questa tipologia di PMA, che prevede la donazione di ovociti o spermatozoi da un terzo estraneo alla coppia e solitamente anonimo, si rende indispensabile qualora uno dei genitori sia affetto da sterilità incurabile e sia pertanto necessario sopperire alla mancanza di gameti dello stesso con un donatore esterno. Si deve tuttavia osservare che la diffusione negli ultimi anni di tecniche come la Icsi (Intra cytoplasmic sperm injection) ed altre ad essa affini come la Mesa (Microsurgical epididymal sperm aspiration), Tesa e Tese (Testicular tissue sperm aspiration or extraction), che hanno consentito di ottenere con successo fecondazioni anche con pochissimi spermatozoi prelevati direttamente dal testicolo dell’uomo, ha notevolmente ridimensionato le ipotesi in cui il ricorso all’eterologa è inevitabile, soprattutto per quanto attiene i casi di sterilità maschile. Ad ogni modo, alle notevoli possibilità offerte dalla procreazione assistita eterologa, soprattutto nei casi di sterilità incurabile, si sono sempre contrapposte una serie di obiezioni etiche, tra cui l’impossibilità per il nascituro di conoscere le proprie origini biologiche (nell’ipotesi pressoché irrinunciabile di donatore anonimo); le notevoli ripercussioni psicologiche all’interno della coppia, soprattutto per il partner “sostituito” dal donatore; la possibilità che la donazione, soprattutto quella di ovociti, avvenga dietro compenso di denaro, in violazione dell’art.5 C.c.. Tali obiezioni hanno spinto il legislatore italiano a vietare, senza alcuna eccezione, il ricorso a tale tipologia di procreazione assistita; una scelta senza dubbio radicale e per molti aspetti coraggiosa ma che costituisce indubbiamente un’anomalia nel panorama legislativo europeo, il cui orientamento generale è improntato su una certa permissività responsabile. Nelle analoghe legislazioni degli altri paesi europei la fecondazione eterologa è infatti generalmente ammessa, pur essendo spesso limitata in modi diversi al fine di tutelare tutti i soggetti coinvolti (accesso esclusivamente per le coppie sposate e come estrema ratio, anonimato del donatore, divieto di utilizzare la tecnica della fecondazione in vitro, ecc.). Sul punto anche gli organi comunitari, i cui interventi si sono sempre distinti per la massima tutela dell’embrione e della sua dignità, hanno ammesso che “la fecondazione eterologa sia già ampiamente diffusa e che la sua eventuale dichiarata illiceità potrebbe incontrare resistenze insuperabili”. Il divieto italiano vede pertanto il nostro paese isolato dal contesto europeo, con il rischio di incentivare fenomeni di turismo terapeutico da parte delle coppie affette da sterilità incurabile o di ricorso a pratiche clandestine per coloro che non possono permettersi il soggiorno nelle cliniche svizzere, slovene o francesi situate a pochi chilometri dalle nostre ormai ex-frontiere. E’ questo un aspetto da non sottovalutare soprattutto nell’ottica di un’Europa in cui non vi sono confini per merci o persone e si cerca di far convergere intorno ad una carta costituzionale unica i principi ed i valori su cui sono fondati i paesi che ne fanno parte.
La maggiore restrittività della legge italiana rispetto alle legislazioni degli altri paesi europei emerge ulteriormente con riferimento al divieto di crioconservazione degli embrioni (ammesso solo in particolarissime ipotesi) e alla limitazione della produzione degli stessi in numero “superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” (art.14, comma 2). Tali limitazioni costituiscono di fatto il vero nodo gordiano della nuova legge, fonte delle maggiori polemiche tra sostenitori e detrattori della stessa. Il problema degli embrioni definiti “in soprannumero” è infatti intimamente connesso con la procreazione medicalmente assistita in sé, a causa delle basse percentuali di successo e della conseguente necessità di effettuare quasi sempre più di un tentativo al fine di ottenere una gravidanza. Sebbene infatti le percentuali di successo varino a seconda del tipo di tecnica utilizzata (FIVET, GIFT, ICSI, solo per citare le più comuni) ed a seconda dell’età della donna che si sottopone al trattamento, e non vi sia un criterio unico per l’elaborazione delle statistiche da parte dei vari centri, è tuttavia ragionevole stimare che per ogni ciclo (intendendo per ciclo l’insieme delle attività che va dalla stimolazione ovarica con l’aiuto di ormoni, al prelievo chirurgico degli ovociti, fino all’impianto in utero degli stessi) vi sia in media una percentuale di gravidanze variabile grosso modo fra il 19 e il 32%. Se si aggiunge poi che tale percentuale è destinata ancor più a ridursi a causa di un tasso di abortività compreso tra il 18 e il 30% è evidente pertanto come sia inevitabile per ciascuna donna l’alta probabilità di sottoporsi a più cicli di fecondazione al fine di ottenere e portare a termine l’agognata gravidanza. Per questo motivo, al fine di limitare più possibile i disagi della futura madre causati dal sottoporsi a stimolazioni ovariche plurime e a ripetuti interventi di prelievo di ovociti (per via transvaginale o laparoscopica), è diventata prassi comune la fecondazione di un numero di ovociti idoneo a garantire più di un tentativo ed il successivo congelamento degli embrioni da essi ottenuti, qualora i primi tentativi non andassero a buon fine. La pratica, evidentemente orientata alla massima tutela della salute della madre, ha comportato negli anni l’accumulo, nei vari centri pubblici e privati, di un numero elevato di embrioni in soprannumero in attesa di impianto e destinati a morire dopo un periodo di tempo che molti esperti hanno individuato in cinque anni circa. L’assenza di un limite numerico agli ovociti fecondabili ha altresì sempre consentito di scegliere tra gli embrioni prodotti quelli più adatti al successivo trasferimento e ad eliminare invece a priori quelli in cui erano invece presenti anomalie di natura genetica o imperfezioni tali da rendere problematico lo sviluppo o l’attecchimento.
Orbene, il divieto di congelamento e distruzione di recente introdotto, unitamente al limite di tre embrioni creabili, sebbene impedisca di creare nuovi embrioni in soprannumero (la decisione sulla sorte di quelli esistenti è delegata ad un successivo decreto del Ministero della salute) non può che condizionare, in maniera sicuramente rilevante, il ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Il limite di tre è infatti destinato, almeno sul piano statistico, ad aumentare, se non triplicare (soprattutto nelle donne in età più avanzata) il numero di cicli necessari ad ottenere una gravidanza, con notevole aggravio non solo dei costi ma anche dei sacrifici per la coppia che decida di ricorrervi e della donna innanzitutto, il cui diritto alla salute verrebbe sicuramente a subire un pregiudizio. Dall’altro lato, invece, l’obbligo di impiantare tutti gli embrioni ottenuti, senza ricorrere ad una preventiva selezione o riduzione comporta di sicuro il rischio, soprattutto nelle donne più giovani, di incrementare il numero di gravidanze trigemine, pericolose sia per la salute della madre che per la sopravvivenza dei feti. A questo proposito, l’art.14 consente esplicitamente la riduzione nelle ipotesi di cui alla legge 194/78, suscitando tuttavia notevoli perplessità soprattutto per quanto riguarda eventuali embrioni che dovessero presentare malformazioni (alterazioni cromosomiche o morfologiche ad esempio) prima dell’impianto. Ipotizzare, come è stato fatto da più parti, un obbligo di impianto anche per gli embrioni malformati, salvo poi consentire il successivo aborto sembra francamente inverosimile oltre che sconcertante, anche se non c’è dubbio che la ratio e l’ambiguità di alcune norme della legge sembrerebbe suggerire il contrario. Una tale previsione, oltre essere evidentemente in contrasto con l’art.32 della Costituzione, andrebbe tra l’altro contro i più elementari principi di buona pratica medica e dovrebbe essere altresì scongiurata dalla possibilità consentita al medico di “decidere di non procedere alla procreazione medicalmente assistita esclusivamente per motivi di ordine medico-sanitario” (art.6 comma 4). E’ questo comunque un altro esempio di come difficilmente possano conciliarsi la legge sull’I.V.G., chiaramente ispirata alla tutela della donna e della sua salute fisica e psichica, e la nuova legge sulla procreazione assistita, chiaramente rivolta alla tutela dell’embrione. La sensazione forte che si ricava dal dettato della legge 40/04 è quella, paradossale, di una maggiore tutela dell’embrione rispetto al feto, situazione che ha portato da più parti ad avanzare ipotesi di abolizione della legge 194 o almeno di una riforma della stessa in termini decisamente più restrittivi.
La difficoltà di conciliare le due normative, già peraltro abbastanza palese, emerge ulteriormente anche sotto il diverso aspetto della revocabilità del consenso della coppia che chiede di accedere alle tecniche di P.M.A.. Ai sensi dell’art.6 sul consenso informato, infatti, “la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. Conseguenza immediata di tale disposto normativo è che vengono precluse al padre che abbia prestato il consenso sia l’azione di disconoscimento, di cui all’articolo 235 del codice civile, che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, di cui all’articolo 263, mentre alla madre non sarà invece consentito di non farsi menzionare nel certificato di nascita, facoltà prevista dall’articolo 30 del D.P.R. 396/2000. Anche tali disposizioni sono evidentemente finalizzate alla tutela del nascituro, evitando che ripensamenti successivi al suo concepimento possano privarlo di una od entrambe le figure genitoriali; non sono tuttavia mancate anche a riguardo numerose critiche e dubbi di costituzionalità, soprattutto per quanto riguarda il consenso della donna. Se infatti il divieto di disconoscere il figlio da parte del padre che abbia acconsentito alla fecondazione è un dato ormai comunemente accettato, anche in seguito alle recenti pronunce giurisprudenziali della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, numerosi problemi verrebbero invece a crearsi qualora fosse la donna a revocare il proprio consenso prima dell’impianto ma a fecondazione già avvenuta. L’ipotesi di un trasferimento coattivo, da più parti paventata con enfasi, non sembra francamente nemmeno da prendere in considerazione, sia in considerazione dell’art.32 comma 2 della Costituzione, che riserva ad esplicite previsioni di legge il ricorso ad un trattamento sanitario obbligatorio, sia in considerazione del dato di fatto che la donna potrebbe interrompere la gravidanza nel giorno immediatamente successivo al trasferimento. Un dato di fatto è tuttavia la constatazione che, nell’ipotesi in cui la donna intendesse revocare il proprio consenso, sorgerebbe il problema di cosa fare degli embrioni già prodotti, atteso che gli stessi non possono essere soppressi (evento vietato dall'articolo 14 comma 1 e sanzionato dall'articolo 14 comma 6), né crioconservati (evento vietato e sanzionato dallo stesso articolo 14 commi 1 e 6, visto che non vi sono i presupposti previsti dalla deroga di cui al comma 3), nè donati a una coppia estranea (realizzando un trattamento eterologo vietato dall'articolo 4 comma 3 e sanzionato dall'articolo 12 commi 1, 9, 10) né tanto meno essere utilizzati come oggetto di ricerca scientifica (vietata dall'articolo 13). Pertanto, seppure nell’intenzione del legislatore vi sia l’obiettivo encomiabile di evitare quei ripensamenti che hanno portato, fin dalla fine degli anni ’50 a controverse questioni giudiziarie risolte in modo non sempre uniforme dalla giurisprudenza di merito, la scelta di cristallizzare il consenso della coppia in un determinato momento, come avviene nella legge 40, non sembra certamente la più idonea a garantire il raggiungimento di tale obiettivo. Maggiormente auspicabile sarebbe stato invece introdurre la figura di uno staff medico, nel quale includere anche la figura di uno psicologo, coi compiti di verificare l’autenticità del consenso prestato dalla coppia, la convinzione dei futuri genitori ad assumersi la responsabilità del nascituro e quello, ancor più delicato, di accompagnarli nei difficili momenti successivi all’impianto e alla nascita.
Da tutto quanto detto finora, appaiono abbastanza evidenti diverse ombre e punti migliorabili nell’approvato di legge, sia per quanto riguarda i rapporti fra la stessa e l’ordinamento vigente (anche in un’ottica comunitaria), sia per quanto riguarda l’impatto della stessa sulle tante coppie con problemi di fertilità, per le quali avere un figlio costituisce qualcosa di molto più importante di un semplice desiderio. E’ innegabile infatti che la decisione di legiferare, in una materia che è così strettamente attinente alla sfera dell’autonomia privata di ciascun individuo, comporta infatti l’inevitabile conseguenza di cristallizzare all’interno del disposto normativo una soltanto fra le molteplici soluzioni etiche ai vari problemi, che viene condivisa esclusivamente da una parte della cittadinanza e dell’opinione pubblica.
Questa scelta, vista da molti come il male minore, capace di porre rimedio ad un vuoto legislativo divenuto ormai sostenibile, è indiscutibilmente destinata ad avere un notevole impatto emotivo sulla collettività, soprattutto per quella parte di essa che non condivide i valori cattolici della sacralità della vita e della necessità di tutelarla fin dal concepimento. I numerosi divieti e la disciplina assolutamente rigorosa presenti nell’impianto della nuova legge, pur avendo l’apprezzabile obiettivo di garantire al nascituro la maggiore tutela possibile, ben poco spazio lasciano infatti all’autonomia decisionale degli altri soggetti coinvolti, ovvero la coppia con problemi di fertilità ed il medico chiamato a risolverli. Diverso invece sarebbe stato l’impatto di una regolamentazione più “leggera”e di principio (magari con la previsione di alcune eccezioni ai divieti), al fine di non sacrificare ai dogmi della generalità ed astrattezza della legge la capacità della stessa di adeguarsi al caso concreto. Tali considerazioni non possono pertanto che far riflettere sulla necessità o meno di apporre dei correttivi alla legge appena approvata, sia con lo strumento referendario che nella più appropriata sede legislativa, al fine di mitigarne gli effetti ed evitare che la tanto affannosa ricerca del male minore non si riveli come l’insostenibile imposizione di un’etica di stato.
Il testo della legge n.40/2004 presenta infatti un chiaro impianto garantista nei confronti dell’embrione che difficilmente riesce a conciliarsi, da un lato, con le esigenze delle coppie costrette a ricorrere a tali tecniche e, dall’altro, con le analoghe legislazioni di altri paesi europei e con la normativa italiana sull’interruzione volontaria di gravidanza. Tale natura garantista è stata chiaramente evidenziata dal relatore Giancarlo Giorgetti che, all’atto di presentare il proprio disegno di legge in Parlamento, successivamente confluito nel testo unico approvato dalla Camera il 18 giugno 2002, affermava esplicitamente: “la presente proposta di legge che pone le premesse per lo statuto dell’embrione umano e stabilisce a quali condizioni è lecita la procreazione medicalmente assistita, si basa su tre concetti fondamentali: 1) l’embrione umano è soggetto umano in atto fin dalla fecondazione dell’ovulo; 2) la difesa dell’istituto familiare quale cellula fondamentale della società e centro vitale per la continuità della specie; 3) la difesa del diritto del nascituro ad avere un padre e una madre che lo allevino, lo amino, o educhino e gli assicurino il necessario sostentamento fino alla maggiore età”. Pertanto, pur ritenendo assolutamente riduttiva la dicotomia, praticamente irrinunciabile nel panorama bioetico italiano, tra bioetica laica e bioetica cattolica, non si può fare a meno di rilevare che i principi sopra esposti finiscano col connotare spiccatamente la legge 40/2004, rendendola molto vicina alla posizione cattolica e non lasciando molto spazio al dialogo con i sostenitori del cosiddetto “orientamento laico”, condiviso invece anche da gran parte del mondo scientifico.
Chiariti a grandi linee quali siano i principi ispiratori del testo di legge in questione, è il caso ora di evidenziare criticamente i principali punti chiave dello stesso.
In primo luogo l’art.1 connota il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) come “soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” a cui è consentito ricorrere “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci”. Questa precisa connotazione ha la duplice funzione di affermare, da un lato, il carattere non curativo di tali tecniche, essendo le stesse inidonee a eliminare la causa di sterilità o infertilità che permarranno anche dopo l’evento della gravidanza, e, dall’altro, di limitarne fortemente l’accesso, precludendolo ai soggetti che non abbiano tali problemi ma vi ricorrano per altri motivi (ad esempio perché portatori di malattie trasmissibili).
Una prima conseguenza di queste disposizioni è che, non configurandosi la PMA come cura, il ricorso alle relative tecniche non può essere fatto rientrare nel diritto alla salute costituzionalmente garantito. Pertanto, nell’inevitabile contrapposizione tra nuovi diritti, il presunto diritto ad avere un figlio, rivendicato dalla coppia sterile, viene posto sicuramente in secondo piano rispetto all’esigenza di tutelare il concepito, riconosciuto esplicitamente soggetto di diritto dallo stesso art.1. Il rischio di questa scelta, certamente innovativa per il nostro sistema, che ha sempre riconosciuto al nascituro esclusivamente una capacità limitata al solo ambito patrimoniale, non può che essere la difficoltà di conciliare con l’impianto dell’ordinamento vigente il nuovo riconoscimento di soggettività giuridica del concepito. Ai sensi dell’art.1 del Codice civile, al nascituro è infatti negata la capacità giuridica, mentre la vigente legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza, ritiene prevalente la tutela della salute psichica e fisica della donna, che è già persona, rispetto alla nascita del nuovo individuo, che persona deve ancora divenire. E’ evidente quindi come l’intenzione del legislatore di porre le “premesse per lo statuto dell’embrione umano”, inserendosi in un impianto normativo che non ha mai ritenuto lo stesso titolare di diritti diversi da quelli patrimoniali (subordinati, tra l’altro, all’evento della nascita), non potrà che rivelarsi, all’atto pratico, fonte di problemi applicativi ed inevitabili successivi contrasti.
A queste considerazioni deve aggiungersi che la decisione di configurare il ricorso alle tecniche di procreazione assistita soltanto come soluzione di problemi di sterilità o infertilità, si ripercuote inevitabilmente anche sulla disciplina dell’accesso a tali tecniche. La scelta di circoscrivere la procreazione medicalmente assistita esclusivamente ai suddetti casi, così come chiaramente ribadito anche nell’art.4, comporta infatti la preclusione dell’accesso a tali tecniche a tutte le coppie portatrici di patologie genetiche trasmissibili. La discriminazione di quest’ultime è strettamente collegata con il divieto, di cui all’art.13, di effettuare diagnosi pre-impianto non finalizzate “alla tutela della salute a allo sviluppo dell’embrione” ed al divieto, di cui all’art.14, di soppressione degli embrioni. Tali divieti, rivolti evidentemente alla tutela dell’embrione e a scongiurare ogni forma di selezione embrionale sia su base medica che su base strettamente volontaristica, obbligano pertanto le coppie portatrici di malattie come la fibrosi cistica o la talassemia che non intendano dare alla luce un bambino malato a percorrere esclusivamente la via, sicuramente più invasiva ma consentita dall’ordinamento, del ricorso alla diagnostica prenatale (amniocentesi, villocentesi) e ad un eventuale successivo aborto.
Completano la severa disciplina sull’accesso alle tecniche di procreazione assistita il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa (art.4, comma 3), effettuata cioè con l’apporto cioè di gameti estranei alla coppia, ed il divieto di ricorrere alla PMA per singoli/e, coppie omosessuali, donne in età avanzata o dopo la morte del partner. Anche questi divieti sono evidentemente ispirati alla necessità di garantire al nascituro, frutto delle tecniche di procreazione assistita, una famiglia quanto più possibile stabile, costituita da una duplice figura genitoriale eterosessuale “in età potenzialmente fertile” ed evitare che lo stesso possa essere turbato da figure estranee o da traumi psicologici che potrebbero ripercuotersi sulla sua futura serenità. L’unica concessione fatta al modello familiare tradizionale è data dall’apertura verso le coppie conviventi (o di fatto), a cui è consentito accedere alle tecniche di procreazione assistita, ed alle quali viene per la prima volta in Italia dato un riconoscimento.
Per quanto riguarda la fecondazione eterologa si deve rilevare che le innumerevoli polemiche su questo tema hanno spesso causato negli anni passati, l’impossibilità di raggiungere in Parlamento il consenso necessario all’approvazione di numerosi disegni di legge. Questa tipologia di PMA, che prevede la donazione di ovociti o spermatozoi da un terzo estraneo alla coppia e solitamente anonimo, si rende indispensabile qualora uno dei genitori sia affetto da sterilità incurabile e sia pertanto necessario sopperire alla mancanza di gameti dello stesso con un donatore esterno. Si deve tuttavia osservare che la diffusione negli ultimi anni di tecniche come la Icsi (Intra cytoplasmic sperm injection) ed altre ad essa affini come la Mesa (Microsurgical epididymal sperm aspiration), Tesa e Tese (Testicular tissue sperm aspiration or extraction), che hanno consentito di ottenere con successo fecondazioni anche con pochissimi spermatozoi prelevati direttamente dal testicolo dell’uomo, ha notevolmente ridimensionato le ipotesi in cui il ricorso all’eterologa è inevitabile, soprattutto per quanto attiene i casi di sterilità maschile. Ad ogni modo, alle notevoli possibilità offerte dalla procreazione assistita eterologa, soprattutto nei casi di sterilità incurabile, si sono sempre contrapposte una serie di obiezioni etiche, tra cui l’impossibilità per il nascituro di conoscere le proprie origini biologiche (nell’ipotesi pressoché irrinunciabile di donatore anonimo); le notevoli ripercussioni psicologiche all’interno della coppia, soprattutto per il partner “sostituito” dal donatore; la possibilità che la donazione, soprattutto quella di ovociti, avvenga dietro compenso di denaro, in violazione dell’art.5 C.c.. Tali obiezioni hanno spinto il legislatore italiano a vietare, senza alcuna eccezione, il ricorso a tale tipologia di procreazione assistita; una scelta senza dubbio radicale e per molti aspetti coraggiosa ma che costituisce indubbiamente un’anomalia nel panorama legislativo europeo, il cui orientamento generale è improntato su una certa permissività responsabile. Nelle analoghe legislazioni degli altri paesi europei la fecondazione eterologa è infatti generalmente ammessa, pur essendo spesso limitata in modi diversi al fine di tutelare tutti i soggetti coinvolti (accesso esclusivamente per le coppie sposate e come estrema ratio, anonimato del donatore, divieto di utilizzare la tecnica della fecondazione in vitro, ecc.). Sul punto anche gli organi comunitari, i cui interventi si sono sempre distinti per la massima tutela dell’embrione e della sua dignità, hanno ammesso che “la fecondazione eterologa sia già ampiamente diffusa e che la sua eventuale dichiarata illiceità potrebbe incontrare resistenze insuperabili”. Il divieto italiano vede pertanto il nostro paese isolato dal contesto europeo, con il rischio di incentivare fenomeni di turismo terapeutico da parte delle coppie affette da sterilità incurabile o di ricorso a pratiche clandestine per coloro che non possono permettersi il soggiorno nelle cliniche svizzere, slovene o francesi situate a pochi chilometri dalle nostre ormai ex-frontiere. E’ questo un aspetto da non sottovalutare soprattutto nell’ottica di un’Europa in cui non vi sono confini per merci o persone e si cerca di far convergere intorno ad una carta costituzionale unica i principi ed i valori su cui sono fondati i paesi che ne fanno parte.
La maggiore restrittività della legge italiana rispetto alle legislazioni degli altri paesi europei emerge ulteriormente con riferimento al divieto di crioconservazione degli embrioni (ammesso solo in particolarissime ipotesi) e alla limitazione della produzione degli stessi in numero “superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” (art.14, comma 2). Tali limitazioni costituiscono di fatto il vero nodo gordiano della nuova legge, fonte delle maggiori polemiche tra sostenitori e detrattori della stessa. Il problema degli embrioni definiti “in soprannumero” è infatti intimamente connesso con la procreazione medicalmente assistita in sé, a causa delle basse percentuali di successo e della conseguente necessità di effettuare quasi sempre più di un tentativo al fine di ottenere una gravidanza. Sebbene infatti le percentuali di successo varino a seconda del tipo di tecnica utilizzata (FIVET, GIFT, ICSI, solo per citare le più comuni) ed a seconda dell’età della donna che si sottopone al trattamento, e non vi sia un criterio unico per l’elaborazione delle statistiche da parte dei vari centri, è tuttavia ragionevole stimare che per ogni ciclo (intendendo per ciclo l’insieme delle attività che va dalla stimolazione ovarica con l’aiuto di ormoni, al prelievo chirurgico degli ovociti, fino all’impianto in utero degli stessi) vi sia in media una percentuale di gravidanze variabile grosso modo fra il 19 e il 32%. Se si aggiunge poi che tale percentuale è destinata ancor più a ridursi a causa di un tasso di abortività compreso tra il 18 e il 30% è evidente pertanto come sia inevitabile per ciascuna donna l’alta probabilità di sottoporsi a più cicli di fecondazione al fine di ottenere e portare a termine l’agognata gravidanza. Per questo motivo, al fine di limitare più possibile i disagi della futura madre causati dal sottoporsi a stimolazioni ovariche plurime e a ripetuti interventi di prelievo di ovociti (per via transvaginale o laparoscopica), è diventata prassi comune la fecondazione di un numero di ovociti idoneo a garantire più di un tentativo ed il successivo congelamento degli embrioni da essi ottenuti, qualora i primi tentativi non andassero a buon fine. La pratica, evidentemente orientata alla massima tutela della salute della madre, ha comportato negli anni l’accumulo, nei vari centri pubblici e privati, di un numero elevato di embrioni in soprannumero in attesa di impianto e destinati a morire dopo un periodo di tempo che molti esperti hanno individuato in cinque anni circa. L’assenza di un limite numerico agli ovociti fecondabili ha altresì sempre consentito di scegliere tra gli embrioni prodotti quelli più adatti al successivo trasferimento e ad eliminare invece a priori quelli in cui erano invece presenti anomalie di natura genetica o imperfezioni tali da rendere problematico lo sviluppo o l’attecchimento.
Orbene, il divieto di congelamento e distruzione di recente introdotto, unitamente al limite di tre embrioni creabili, sebbene impedisca di creare nuovi embrioni in soprannumero (la decisione sulla sorte di quelli esistenti è delegata ad un successivo decreto del Ministero della salute) non può che condizionare, in maniera sicuramente rilevante, il ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Il limite di tre è infatti destinato, almeno sul piano statistico, ad aumentare, se non triplicare (soprattutto nelle donne in età più avanzata) il numero di cicli necessari ad ottenere una gravidanza, con notevole aggravio non solo dei costi ma anche dei sacrifici per la coppia che decida di ricorrervi e della donna innanzitutto, il cui diritto alla salute verrebbe sicuramente a subire un pregiudizio. Dall’altro lato, invece, l’obbligo di impiantare tutti gli embrioni ottenuti, senza ricorrere ad una preventiva selezione o riduzione comporta di sicuro il rischio, soprattutto nelle donne più giovani, di incrementare il numero di gravidanze trigemine, pericolose sia per la salute della madre che per la sopravvivenza dei feti. A questo proposito, l’art.14 consente esplicitamente la riduzione nelle ipotesi di cui alla legge 194/78, suscitando tuttavia notevoli perplessità soprattutto per quanto riguarda eventuali embrioni che dovessero presentare malformazioni (alterazioni cromosomiche o morfologiche ad esempio) prima dell’impianto. Ipotizzare, come è stato fatto da più parti, un obbligo di impianto anche per gli embrioni malformati, salvo poi consentire il successivo aborto sembra francamente inverosimile oltre che sconcertante, anche se non c’è dubbio che la ratio e l’ambiguità di alcune norme della legge sembrerebbe suggerire il contrario. Una tale previsione, oltre essere evidentemente in contrasto con l’art.32 della Costituzione, andrebbe tra l’altro contro i più elementari principi di buona pratica medica e dovrebbe essere altresì scongiurata dalla possibilità consentita al medico di “decidere di non procedere alla procreazione medicalmente assistita esclusivamente per motivi di ordine medico-sanitario” (art.6 comma 4). E’ questo comunque un altro esempio di come difficilmente possano conciliarsi la legge sull’I.V.G., chiaramente ispirata alla tutela della donna e della sua salute fisica e psichica, e la nuova legge sulla procreazione assistita, chiaramente rivolta alla tutela dell’embrione. La sensazione forte che si ricava dal dettato della legge 40/04 è quella, paradossale, di una maggiore tutela dell’embrione rispetto al feto, situazione che ha portato da più parti ad avanzare ipotesi di abolizione della legge 194 o almeno di una riforma della stessa in termini decisamente più restrittivi.
La difficoltà di conciliare le due normative, già peraltro abbastanza palese, emerge ulteriormente anche sotto il diverso aspetto della revocabilità del consenso della coppia che chiede di accedere alle tecniche di P.M.A.. Ai sensi dell’art.6 sul consenso informato, infatti, “la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti […] fino al momento della fecondazione dell’ovulo”. Conseguenza immediata di tale disposto normativo è che vengono precluse al padre che abbia prestato il consenso sia l’azione di disconoscimento, di cui all’articolo 235 del codice civile, che l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, di cui all’articolo 263, mentre alla madre non sarà invece consentito di non farsi menzionare nel certificato di nascita, facoltà prevista dall’articolo 30 del D.P.R. 396/2000. Anche tali disposizioni sono evidentemente finalizzate alla tutela del nascituro, evitando che ripensamenti successivi al suo concepimento possano privarlo di una od entrambe le figure genitoriali; non sono tuttavia mancate anche a riguardo numerose critiche e dubbi di costituzionalità, soprattutto per quanto riguarda il consenso della donna. Se infatti il divieto di disconoscere il figlio da parte del padre che abbia acconsentito alla fecondazione è un dato ormai comunemente accettato, anche in seguito alle recenti pronunce giurisprudenziali della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, numerosi problemi verrebbero invece a crearsi qualora fosse la donna a revocare il proprio consenso prima dell’impianto ma a fecondazione già avvenuta. L’ipotesi di un trasferimento coattivo, da più parti paventata con enfasi, non sembra francamente nemmeno da prendere in considerazione, sia in considerazione dell’art.32 comma 2 della Costituzione, che riserva ad esplicite previsioni di legge il ricorso ad un trattamento sanitario obbligatorio, sia in considerazione del dato di fatto che la donna potrebbe interrompere la gravidanza nel giorno immediatamente successivo al trasferimento. Un dato di fatto è tuttavia la constatazione che, nell’ipotesi in cui la donna intendesse revocare il proprio consenso, sorgerebbe il problema di cosa fare degli embrioni già prodotti, atteso che gli stessi non possono essere soppressi (evento vietato dall'articolo 14 comma 1 e sanzionato dall'articolo 14 comma 6), né crioconservati (evento vietato e sanzionato dallo stesso articolo 14 commi 1 e 6, visto che non vi sono i presupposti previsti dalla deroga di cui al comma 3), nè donati a una coppia estranea (realizzando un trattamento eterologo vietato dall'articolo 4 comma 3 e sanzionato dall'articolo 12 commi 1, 9, 10) né tanto meno essere utilizzati come oggetto di ricerca scientifica (vietata dall'articolo 13). Pertanto, seppure nell’intenzione del legislatore vi sia l’obiettivo encomiabile di evitare quei ripensamenti che hanno portato, fin dalla fine degli anni ’50 a controverse questioni giudiziarie risolte in modo non sempre uniforme dalla giurisprudenza di merito, la scelta di cristallizzare il consenso della coppia in un determinato momento, come avviene nella legge 40, non sembra certamente la più idonea a garantire il raggiungimento di tale obiettivo. Maggiormente auspicabile sarebbe stato invece introdurre la figura di uno staff medico, nel quale includere anche la figura di uno psicologo, coi compiti di verificare l’autenticità del consenso prestato dalla coppia, la convinzione dei futuri genitori ad assumersi la responsabilità del nascituro e quello, ancor più delicato, di accompagnarli nei difficili momenti successivi all’impianto e alla nascita.
Da tutto quanto detto finora, appaiono abbastanza evidenti diverse ombre e punti migliorabili nell’approvato di legge, sia per quanto riguarda i rapporti fra la stessa e l’ordinamento vigente (anche in un’ottica comunitaria), sia per quanto riguarda l’impatto della stessa sulle tante coppie con problemi di fertilità, per le quali avere un figlio costituisce qualcosa di molto più importante di un semplice desiderio. E’ innegabile infatti che la decisione di legiferare, in una materia che è così strettamente attinente alla sfera dell’autonomia privata di ciascun individuo, comporta infatti l’inevitabile conseguenza di cristallizzare all’interno del disposto normativo una soltanto fra le molteplici soluzioni etiche ai vari problemi, che viene condivisa esclusivamente da una parte della cittadinanza e dell’opinione pubblica.
Questa scelta, vista da molti come il male minore, capace di porre rimedio ad un vuoto legislativo divenuto ormai sostenibile, è indiscutibilmente destinata ad avere un notevole impatto emotivo sulla collettività, soprattutto per quella parte di essa che non condivide i valori cattolici della sacralità della vita e della necessità di tutelarla fin dal concepimento. I numerosi divieti e la disciplina assolutamente rigorosa presenti nell’impianto della nuova legge, pur avendo l’apprezzabile obiettivo di garantire al nascituro la maggiore tutela possibile, ben poco spazio lasciano infatti all’autonomia decisionale degli altri soggetti coinvolti, ovvero la coppia con problemi di fertilità ed il medico chiamato a risolverli. Diverso invece sarebbe stato l’impatto di una regolamentazione più “leggera”e di principio (magari con la previsione di alcune eccezioni ai divieti), al fine di non sacrificare ai dogmi della generalità ed astrattezza della legge la capacità della stessa di adeguarsi al caso concreto. Tali considerazioni non possono pertanto che far riflettere sulla necessità o meno di apporre dei correttivi alla legge appena approvata, sia con lo strumento referendario che nella più appropriata sede legislativa, al fine di mitigarne gli effetti ed evitare che la tanto affannosa ricerca del male minore non si riveli come l’insostenibile imposizione di un’etica di stato.
*(Articolo pubblicato sulla rivista giuridica elettronica Diritto e Diritti del 5.3.04, ISSN 1127-8579)