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Comitato Nazionale per la Bioetica
Bioetiche a confronto: atti del seminario di studio
20 ottobre 1995
Relazione introduttiva: La bioetica come confronto dialogico
1. Il titolo del nostro seminario di studio, Bioetiche a confronto, può apparire a prima vista un po' freddo o addirittura molto accademico. Che esistano diverse prospettive in bioetica è ben noto; e con molta probabilità è opinione condivisa da tutti che sia opportuno che esse entrino in dialogo tra loro. Il nostro seminario, quindi, non in altro consisterebbe che in una ulteriore possibilità - rispetto a diverse altre offerte in precedenza a diversi livelli e con diversi esiti - di scambio di opinioni tra bioeticisti.
2. E' ben possibile, evidentemente, che al nostro seminario avvenga di seguire appunto questa falsariga. Personalmente però mi auguro che da esso possa emergere qualcosa di più e di diverso. Mi auguro che esso costituisca un'occasione per prendere sul serio e in modo non banale non tanto la bioetica (sulla cui serietà presuppongo che, almeno noi qui riuniti, siamo assolutamente d'accordo), quanto l'idea stessa di confronto. Perché dietro di essa, per quanto possa apparire semplice ed immediata, si nasconde un'opzione filosofica forte, esigente e provocatoria, che spesso al giorno d'oggi è mal percepita, o la cui stessa carica provocatoria è addirittura ignorata e rimossa (e la rimozione è un segno di quanto ciò che viene rimosso sia inquietante).
3. Nell'idea stessa di confronto, infatti, è implicato un apriori: quella di una pluralità relazionabile. Ciò che è unico o univoco non tollera di essere sottoposto a confronti, perché a fronte dell'unità o della univocità non è nemmeno possibile configurare un termine per il confronto. Ciò invece che è confrontabile, lo è in virtù di un principio che in qualche modo stabilisce una omologia tra ciò che viene confrontato e che rende il confronto stesso sensato e meritevole di attenzione. Perdere la percezione di questo principio significa perdere la consapevolezza di ciò che implica il confronto e di conseguenza perdere il senso stesso del confrontare. La questione assume una particolare rilevanza quando il confronto ha per oggetto non mere idee o meri concetti, ma orientamenti di vita, valori, o generali visioni del mondo: quando cioè non sono in gioco formule logiche, ma atteggiamenti di carattere personale, che non tollerano di essere formalizzati (e quindi in qualche modo neutralizzati). Sto, come è evidente, alludendo a quella particolare esperienza di confronto nella quale la relazionalità interpersonale acquista un rilievo di primaria importanza e che chi segua la tradizione filosofica di matrice socratica è solito denominare dialogo. Il confronto che come bioeticisti ci sta a cuore è un confronto dialogico. E il dialogo - questo è il punto fondamentale su cui vorrei richiamare l'attenzione - è un'esperienza unicamente e profondamente umana: è possibile, cioè, solo tra persone, che si riconoscano vicendevolmente come persone. Un riconoscimento, si badi, che non è solo empirico (l'altro, quel singolo individuo che mi si contrappone come altro, è come me), ma più propriamente ontologico (l'altro - come soggettività e non solo come mero individuo empirico - è come me) e nello stesso tempo assiologico (l'altro - come persona e non solo come mero individuo empirico - vale quanto valgo io). E' solo a queste condizioni che può instaurarsi quel dialogo nel quale noi tutti oggi percepiamo l'unica possibilità per realizzare una coesistenza non violenta tra gli uomini. Nell'assenza di queste condizioni non può nascere un dialogo né darsi forma alcuna di coesistenza; o nascono, se nascono, dialoghi e forme di coesistenza obliqui, strumentali, ingannatori, che la parte che nega il riconoscimento (anche se a parole lo afferma) è pronta a rinnegare appena percepisca che gli convenga farlo.
4. Il dialogo, per essere autenticamente tale, deve dunque possedere un proprio logos. Per meglio percepire questo punto, torniamo con la mente al senso dell'antica - ma sempre attuale - contrapposizione tra Socrate e i Sofisti. Il loro rapporto è caratteristicamente asimmetrico e di conseguenza, malgrado le ottime intenzioni di Socrate, non autenticamente relazionale, né meno che mai autenticamente dialogico: Socrate, infatti, è aperto dialogicamente nei confronti dei sofisti, ma i sofisti non sono autenticamente aperti nei confronti di Socrate. Ciò che distingue Socrate da Crizia, Trasimaco, Gorgia o Protagora non dipende tanto dall'argomento in discussione, da ciò che i sofisti volta per volta sostengono (dottrine alle quali in molti casi e a suo modo anche Socrate potrebbe aderire, al punto da essere considerato egli stesso un sofista e proprio come sofista venir messo in berlina da Aristofane), quanto da un atteggiamento dello spirito: Socrate è dialogico, i Sofisti eristici. Diversamente dal dialogo, prassi accomunante, l'eristica è contesa dialettica e disgiungente, è una vera e propria gara dalla quale una parte non può uscire che come vincitrice e l'altra che come soccombente, e che a questo mira espressamente, a far vincere l'una e a far soccombere l'altra. Il dialogo, invece, non è mai cruda logomachia, ma ricerca di accordo e di consenso, perché è ricerca della verità. Ricerca si badi, non conquista; sarebbe un gravissimo fraintendimento il ritenere che la mera accettazione del principio dialogo costituisca una garanzia di potersi impossessare definitivamente della verità (che è sempre ulteriore rispetto a qualsiasi formulazione dialogica si possa dare di essa). Per converso, l'atteggiamento eristico implica comunque una impossibilità non solo di conquistare, ma nemmeno di orientarsi verso la verità, perché l'eristica è al servizio non della verità, ma della forza.
5. Si può dialogare, pertanto, solo se i dialoganti mettano in gioco nel dialogo non solo se stessi, ma la verità stessa delle cose. Quando si entra nel dialogo, mettendo in gioco solo se stessi, il dialogo diviene competizione, prova di forza, ricerca di successo dialettico; se non diviene un'occasione di violenza (nei confronti della quale è mille volte preferibile un saggio silenzio), esso tenderà a ridursi a un mero prendere atto della diversità delle rispettive posizioni e sarà ben più proficuamente sostituibile da una rigorosa dossografia. Quando invece la posta in gioco non sarà la soggettività dei dialoganti, ma l'oggettività della questione stessa, il dialogo acquisterà piuttosto il carattere di un intenzionale e coraggioso movimento per individuare con rigore le diverse posizioni dei dialoganti e per farle convergere (anche quando la realizzazione effettuale di tale convergenza possa richiedere tempi lunghi e modalità imprevedibili). Ciò è possibile solo nei limiti in cui si rinunci ad ogni espediente retorico (che può dare una soddisfazione solo estrinseca ai dialoganti) e si comprenda che la causa stessa del dialogo è una causa di verità: questo del resto è ciò che dona dignità al dialogo e che anzi lo rende doveroso (sempre se restiamo all'interno dello spirito socratico nel quale ci siamo immersi). Gli uomini hanno il dovere di dialogare non certo perché attraverso il dialogo si determini - come vorrebbe l'eristica - un estrinseco confronto delle reciproche forze (confronto dal quale dovrebbe emergere chi deve dominare e chi deve essere dominato), ma perché il dialogo è l'unica misura a nostra disposizione per verificare la nostra apertura nei confronti della verità. E nella verità non c'è dominio, perché è la verità - ed essa soltanto - che ci fa liberi.
6. Ne segue che un confronto in bioetica o è un dialogo o non è. Quando la bioetica cede all'eristica perde le proprie ragioni costitutive: diviene sistema ideologico di giustificazione dell'esistente o peggio ancora legittimazione surrettizia di indebiti rapporti di forza. La bioetica non è nata per legittimare l'esistente, ma per ricercare - attraverso la critica dialogica dell'esistente - le ragioni profonde che danno dignità alla vita fisica dell'uomo e che in un'epoca di travolgente innovazione tecnologica corrono più che in passato il rischio di essere smarrite. Quanto sia arduo individuare queste ragioni e in quanti diversi modi sia possibile argomentarle è superfluo da parte mia ricordarlo: non staremmo qui a lavorare insieme se non ne fossimo tutti convinti. Ma che queste ragioni esistano e che verso di esse noi si debba tendere è indispensabile presupporlo, così come chi traduca un testo da una lingua in un'altra deve presupporre che esista un senso che possa essere comunicato e tradotto e che giustifichi la sua fatica. Lo spirito dialogico non è trionfalistico e non garantisce che il dialogo possa comunque giungere ad una sua armonica conclusione (il lettore di Platone sa bene quanti dialoghi restino assolutamente aperti, senza che si affermi il prevalere di un'opinione su di un'altra): ci garantisce però che se sappiamo entrare nel modo giusto all'interno del dialogo per ciò solo saremo in grado di dare testimonianza alla verità - nell'unico modo in cui ci è concesso farlo, relazionandoci gli uni agli altri, assumendo l'interlocutore come nostro alter ego, quindi, per il solo fatto che è nostro interlocutore, come pari a noi. E' a questa possibilità, a mio avviso, che va riconnessa la dignità della bioetica, come, del resto, la dignità di qualunque sforzo del pensiero umano che non voglia cedere alla onnipresente tentazione della violenza.
Il seminario di studio ha avuto luogo a Roma, il 20 ottobre 1995 presso la Sala del Cenacolo di Vicolo Valdina. I lavori sono stati introdotti e moderati nella sessione antimeridiana dal Prof. Sen. Adriano Ossicini, Ministro per la famiglia e la solidarietà sociale e Presidente onorario del CNB e nella sessione pomeridiana dal Prof. Angelo Fiori, vice presidente del Comitato stesso.
Il Presidente Francesco D'Agostino
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