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Comitato Nazionale per la Bioetica
Problemi bioetici in una società multietnica
16 gennaio 1998
Bioetica e immigrazione
L'immigrazione costituisce un fenomeno sociale che va sempre più acquisendo una configurazione rilevante, permanente e strutturale, caratterizzando anche la realtà italiana di questi ultimi anni, nell'ambito del complesso fenomeno di spostamento migratorio dai Paesi in via di sviluppo all'Occidente, dal Sud al Nord e dall'Est all'Ovest.
Non è questa la sede per entrare nel merito delle motivazioni che hanno spinto singoli e gruppi, più o meno numerosi e coesi, a emigrare dal loro Paese: si tratta indubbiamente di un vistoso fenomeno storico che merita una attenta considerazione.
La convivenza di una pluralità di etnie in uno stesso territorio solleva innumerevoli problemi che investono svariati piani, dalla sociologia alla psicologia, dall'antropologia culturale all'etnologia, dalla demografia all'economia, dalla morale alla religione, dal diritto alla politica.
Anche la bioetica è chiamata in causa.
Si tratta di un tema a volte trascurato dalla riflessione bioetica, più attenta alla dimensione delle questioni all'interno di uno specifico ambito culturale, dimenticando a volte di allargare lo sguardo alla situazione nelle altre culture, fuori ed entro il territorio di appartenenza.
Eppure il confronto tra culture diverse e la necessità di individuare soluzioni comuni, concrete e convergenti diviene una esigenza sempre più avvertita, sia perché molte questioni bioetiche non possono più essere risolte entro confini spazio-temporali limitati, ma necessitano di una dimensione sopranazionale (si pensi alle questioni ambientali), sia perché la molteplicità culturale sta divenendo, come si è già affermato, una realtà con cui occorre confrontarsi anche all'interno dello stesso territorio nazionale.
La bioetica, quale disciplina che si occupa dei problemi morali e giuridici emergenti nell'ambito delle scienze biologiche e mediche, si deve riferire specificamente ai problemi sociali suscitati dall'immigrazione in un contesto politico-sanitario (per esempio occupandosi di criteri di distribuzione delle risorse disponibili, anche in termini preventivi) e in un contesto terapeutico ed assistenziale.
Per esempio, si tratta di determinare se gli immigrati abbiano diritto alle cure e all'assistenza sanitaria pubblica (in che misura e a che titolo), se debbano essere sottoposti a screening diagnostici o trattamenti sanitari obbligatori e quali debbano essere i principi e i valori che guidano l'attività degli operatori sanitari nei confronti di individui che hanno radici culturali eterogenee.
In questa prospettiva non si può non far ricorso ad alcuni principi generali sulla cui validità occorre un consenso vincolante.
Principi generali
La compresenza, in uno stesso territorio, di una pluralità di culture, costituisce una sfida alla riflessione etica e giuridica in generale, in quanto evidenzia alcune differenze, sul piano delle concezioni del mondo e della vita (etiche, filosofiche, religiose e culturali in senso lato) e sul piano dei comportamenti (gli usi, i costumi e le tradizioni) che mettono alla prova la consistenza dei principi di uguaglianza e di differenza (o diversità) nei limiti in cui la pretesa al diritto alla differenza o diversità deve comporsi con il principio universale dell'uguaglianza, proclamato nelle costituzioni nazionali e nei documenti internazionali. Il primo principio che deve guidare la riflessione e la prassi bioetica deve essere quello del riconoscimento del rispetto dell'essere umano, indipendentemente dall'appartenenza culturale o etnica.
E' il principio dell'uguaglianza di ogni uomo in quanto uomo, sancita dalla dichiarazione dei diritti umani, che è auspicabile sia condiviso da tutte le culture, in quanto nel nostro tempo chiamate al reciproco riconoscimento ed alla reciproca comunicazione.
Il principio di uguaglianza va integrato con il principio di differenza, ossia del rispetto della specificità di ogni cultura.
L'identità della cultura di appartenenza è un valore che va conosciuto e compreso. Il rispetto dell'identità e della differenza culturale va compreso proprio sulla base del principio di uguaglianza, che lo fonda e lo sostiene: tuttavia proprio in questa affermazione sta il nocciolo di un paradosso apparente, radice di molti ragionamenti ambigui sul tema della società multietnica.
Mentre con eguaglianza si fa riferimento al suo significato prevalentemente negativo (non è facile, forse impossibile, dire che cosa sia l'eguaglianza in senso positivo), come eliminazione di criteri di discriminazione considerati ingiusti, la pretesa al diritto alla diversità sembrerebbe andare nel senso esattamente contrario.
Il paradosso in realtà è apparente perché occorre distinguere l'eguaglianza come regola dall'eguaglianza come stato di fatto.
La differenza è il contrario dell'eguaglianza come stato di fatto: se due cose sono differenti non sono uguali.
Tuttavia rispetto all'eguaglianza come principio o come regola, ad esempio per il legislatore, il contrario dell'uguaglianza non è la differenza ma la diseguaglianza: tutti sono uguali di fronte alla legge, anche se sono diversi, ma si parla di legge iniqua se tratta gli eguali in modo diverso.
In realtà i problemi nascono nel momento in cui ci si pone la domanda: "chi sono gli uguali, chi sono i diversi?" e si scopre che i criteri in base ai quali si raggruppano gli individui in uguali e diversi variano secondo i tempi, i luoghi, le ideologie, le concezioni etiche, religiose, ecc., molto spesso derivando da "pre-giudizi" di valore che di per sé sono difficili da stabilire e che in genere vengono assunti non tenendo conto della complessità dei problemi.
Di fatto gli individui sono fra loro tanto uguali quanto diversi ed è un pregiudizio tanto affermare che sono tutti uguali quanto affermare la tesi opposta che sono tutti diversi.
Da questi due pregiudizi derivano, come è stato osservato, due concezioni politiche dell'immigrazione affatto diverse: quella che va sotto il nome di assimilazione secondo la quale chi entra in un paese deve a poco a poco identificarsi con i suoi abitanti, accettarne le regole, perdere la propria identità attraverso la graduale acquisizione dei diritti di cittadinanza, civili, sociali, politici: all'altro estremo, quale reazione alla politica dell'assimilazione, è stata avanzata con sempre maggior forza una concezione "separatista" della società multietnica con una richiesta forte del rispetto delle differenze, la quale dovrebbe consentire all'individuo di un gruppo etnico diverso da quello maggioritario la conservazione più ampia possibile di ciò che lo fa diverso, i propri costumi, la propria lingua, la propria concezione etica, e quindi il diritto di avere proprie scuole, propri ospedali, ecc.
Occorre lucidamente riconoscere che queste due tendenze e la loro traduzione in politiche dell'immigrazione, riflettono l'uno e l'altro pregiudizio, che gli uomini siano tutti uguali e che gli uomini siano tutti diversi.
Oggi il contrasto fra queste due posizioni estreme è più vivo che mai: ma proprio perché sono due posizioni estreme forse sono sbagliate tutte e due.
In una visione liberale della convivenza fondata sul principio che vi sono diritti fondamentali degli individui che lo stato deve riconoscere, nessuno è tanto egualitario da non riconoscere il diritto alle differenze religiose incluso quello di non credere in alcun Dio, come nessuno è tanto "differenzialista" da non riconoscere l'eguaglianza di tutti, da qualsiasi parte provengano, a qualsiasi cultura appartengano, nei confronti dei diritti dell'uomo, primi fra i diritti personali e poi i diritti del cittadino in uno stato democratico.
Dunque, l'integrazione dei due principi (uguaglianza e differenza) va vista alla luce dell'abbandono dei due diversi pregiudizi e del riconoscimento di valori comuni, di cui il primo è la dignità di ogni individuo umano ed il secondo è l'appartenenza ad uno stato, e più in generale ad una comunità politica, democratici e laici.
Principi specifici
Il principio di uguaglianza e il diritto alla variabilità culturale, nel contesto appena detto, esigono sul piano pratico uno sforzo continuo e incessante di confronto, intermediazione e ricerca di soluzioni, non solo politiche, ma anzitutto culturali e formative.
Dal punto di vista biologico la mescolanza di popolazioni diverse, e perciò anche di geni diversi (ad es. a causa di flussi migratori), se può avere un prezzo per gli individui singoli, a causa dell'aumento del carico genetico (e quindi per la possibile introduzione di malattie ereditarie), è sicuramente un vantaggio per l'evoluzione della nostra specie, e perciò anche delle popolazioni che ne fanno parte, per l'effetto positivo conseguente all'aumento della variabilità genetica.
In analogia, dal punto di vista culturale, la diversità è probabilmente un vantaggio per lo sviluppo culturale della società nel suo complesso, ma il prezzo che a livello politico e individuale capita sovente di pagare (xenofobia, razzismo, pregiudizi, ecc., l'analogo della malattia ereditaria) può non essere indifferente.
Uno dei problemi specifici posti alla bioetica è quello di proporre strumenti concettuali ed eventuali proposte operative che garantiscano la non discriminazione nell'accesso ai servizi socio-sanitari di prevenzione, diagnosi e cura, la tolleranza nei confronti del culturalmente diverso ma nello stesso tempo, come si è già sottolineato, la promozione, senza frammenti di popolazione emarginata, dei valori che l'esperienza storica e del diritto insegnano dover venire prioritariamente condivisi e tutelati.
L'individuazione di criteri etici per la regolamentazione delle politiche sanitarie e della prassi biomedica esige, metodologicamente, un confronto pluralistico e interdisciplinare. E' importante l'acquisizione di conoscenze e informazioni al fine di identificare le linee di tendenza dei fenomeni e dei processi.
In tal senso assume rilievo il contributo della sociologia e della demografia, che studiano la manifestazione e lo sviluppo del fenomeno immigratorio in generale, e in particolare in Italia, identificando le aree di provenienza, la localizzazione degli individui o dei gruppi e le condizioni di vita; dell'antropologia culturale e dell'etnologia, che approfondiscono le concezioni etico-religiose e gli usi dei diversi popoli; della psicologia, che studia i problemi dello sradicamento dalle origini e dell'impatto con culture e ambienti diversi; della medicina, che evidenzia l'epidemiologia delle patologie più diffuse o che hanno più probabilità di diffondersi (le "patologie d'importazione", ossia dei luoghi di provenienza e le patologie da disagio e degrado o "di acquisizione", dovute alle diversità climatiche e nutrizionali, alla precarietà delle condizioni di vita, allo stress psichico del cambiamento); del diritto positivo, internazionale e nazionale, che individua i principi fondamentali, le eventuali lacune, incoerenze o sovrabbondanze nel diritto vigente e la configurabilità di eventuali spazi di integrazione.
Il confronto interdisciplinare consente di precisare meglio concretamente e descrittivamente i problemi emergenti, consente di acquisire dati necessari, per individuare eventuali rilevanti elementi comuni di somiglianza o aree di compatibilità (pur nella consapevolezza delle divergenze), per favorire una integrazione e un incontro tra le culture.
La documentazione interdisciplinare, le testimonianze rigorosamente elaborate dovrebbero permettere l'identificazione di alcuni principi specifici che devono orientare il comportamento in bioetica.
Al livello delle politiche sanitarie, il principio generale è individuabile nella tutela della salute. La salute va riconosciuta come valore primario e diritto universale: è il bene inalienabile riconosciuto da dichiarazioni, convenzioni, patti e documenti internazionali, e dalla stessa Costituzione italiana.
L'accesso all'assistenza pubblica di base deve essere garantita a tutti, italiani e stranieri. Si tratta di un diritto individuale e al contempo collettivo: bisogna tutelare la salute di ogni individuo, indipendentemente dall'appartenenza culturale, e al tempo stesso garantire la salute della comunità nel suo complesso. Il diritto alla tutela della salute diviene anche un dovere, nella misura in cui ogni individuo vive in un contesto di relazioni con altri individui.
A tal fine è importante prevedere eventuali indagini diagnostiche in relazione alla possibile diffusione di determinate patologie, eventuali vaccinazioni per prevenirne l'insorgenza, predisponendo a tal fine adeguate strutture assistenziali.
Resta fermo che ogni trattamento sanitario, preventivo, diagnostico e terapeutico, se non previsto per legge, presuppone comunque l'acquisizione del consenso informato. La tutela della salute si configura oggi come un principio che protegge giuridicamente anche gli immigrati in condizioni di urgenza.
Ad integrazione di tale principio ed a fronte dell'esclusione dal diritto all'assistenza sanitaria pubblica degli immigrati clandestini e irregolari, è importante il riferimento alla deontologia medica professionale: il dovere del medico di curare il malato e il rispetto dovuto ad ogni persona umana, con particolare attenzione ai suoi costumi e al suo senso del pudore, integrano il diritto positivo, nella misura in cui giustificano il dovere di assistere anche chi non è regolarmente inserito nel registro sanitario nazionale, date le sue condizioni di fragilità, di vulnerabilità e di bisogno.
Il riferimento alla tutela della salute, sia fisica che mentale, va dunque integrato con il principio terapeutico, che impone l'obbligo di curare colui che si trova in condizioni di malattia indipendentemente dall'appartenenza culturale, e il principio di solidarietà e di sussidiarietà, che prescrive di assistere anche il più debole e bisognoso.
Al livello della relazione dell'operatore sanitario con il paziente, risulta di particolare importanza il principio del rispetto della dignità di ogni uomo nella sua specificità culturale, purché tale specificità culturale non sia in contrasto con i principi di democrazia e di laicità dello Stato, di cui si è trattato in precedenza, e con l'esigenza bioetica fondamentale di tutelare l'integrità psico-fisica dell'individuo nel rispetto della salute ed ai fini della sua promozione.
Per tale motivo ad avviso del Comitato Nazionale per la Bioetica le richieste, e in particolare quelle rivolte al servizio sanitario, di procedere a mutilazioni o lesioni del corpo umano, con finalità non terapeutiche, ma rituali e/o religiose, non dovrebbero essere accolte.
Per dare concretezza ai principi sopra indicati è importante la formazione del personale sanitario e dei servizi sociali, che includa la conoscenza linguistica e medica delle patologie principali dei paesi di origine, dell'impatto ambientale e delle pratiche attuabili nel contesto giuridico vigente, oltre che quelle delle stesse concezioni della vita e della morte, della salute e della malattia.
Non meno importante sarà, per coloro che si dedicano alla promozione dell'integrazione e dell'accoglienza, sia pur temporanea, di un gruppo etnico immigrato in una società e quindi in una cultura ospite, la conoscenza dei valori, delle credenze e del rapporto con la fede proprio degli immigrati rispetto alla popolazione ospitante.
Si tratta di promuovere una coscienza bioetica orientata alla comprensione di culture diverse, preparando il personale sanitario ad una cultura dell'accoglienza e della solidarietà nella prospettiva di una medicina transculturale e nella necessaria osservanza della deontologia e della legge. Anche in questo ambito può essere importante il ruolo dei c.d. "mediatori culturali".
Bisogna attivare una formazione il cui obiettivo sia comprendere che l'essere stranieri o immigrati non indica estraneità da emarginare, ma semmai alterità le cui ragioni vanno comprese, e non solo accettate come mero dato di fatto immodificabile: la comprensione di tali ragioni consentirebbe di entrare in una relazione dinamica meta-culturale in cui il reciproco arricchimento, oltre che costituire un modello all'interno della stessa comunità ospitante, finirebbe con l'accelerare quel processo di graduale, convinta assimilazione che, lungi dall'essere una manifestazione colonialista, costituisce l'unica speranza per una reale e pacifica convivenza.
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